Ne parlò da Fazio qualche tempo (che fa) fa. Giorgio Bocca raccontò di Isernia, della locanda (quale?), delle due prostitute: la donna gatta e la donna cagna. (Il corsivo su profondo sud è mio).
«Ho conosciuto il profondo sud molti anni fa, alla fine degli anni cinquanta, quando lavoravo all' "Europeo". C'era stata una sommossa in una città del Molise di cui sentivo per la prima volta il nome, Isernia: voleva diventare capoluogo di provincia, di una provincia sassosa e povera e il governo di Roma non capiva perché. Neppure io capivo quando ci arrivai su una corriera sgangherata che andava a carbonella, su per una strada in terra battuta verso quella città abbandonata a sé, dimenticata da dio e dalla Provvidenza, che voleva diventare provincia. Un bombardamento a tappeto delle fortezze volanti americane l'aveva distrutta, pare l'avessero scambiata per Montecassino, estrema difesa dei tedeschi, chi è nato con la jella addosso non se ne libera né in pace né in guerra. Sulla vicenda della provincia negata e desiderata, uno dei sogni che fa la gente povera dimenticata fra montagne povere, c'era poco da capire, quelli con cui parlavo negli uffici o per strada vivevano una loro esaltazione che ora ricordo vagamente. Ma ricordo bene lo sgomento di quel primo incontro con il profondo sud, l'unica locanda, i suoi ospiti di rispetto, le due prostitute.
Per entrare nella locanda si scendevano cinque gradini sotto trofei di cipolle e peperoncini e si era nello stanzone del camino e del pranzo, separato dalla cucina da una tenda rossa. La donna gatta con gli occhi grigi nel volto pallido, affilato, stava accucciata al suo posto, vicino al camino non ospite della locanda ma parte della locanda, come le sedie, i tavoli, le tovaglie a scacchi bianchi e blu, i bicchieri di vetro spesso, la tenda rossa sulla porta della cucina, l’odore di grasso e di spezie. Era passato da poco il mezzogiorno e gli ospiti di rispetto erano già ai loro tavoli, un breve saluto e poi ognuno alla sua melanconia: il sostituto procuratore della repubblica che andava e veniva da Napoli, un professore di ginnasio, due tecnici del genio civile, un commesso viaggiatore, il cronista del nord venuto per la rivolta. Lei e noi come la sparuta guarnigione di un forte rimasto in piedi nella rovina. Che lei facesse parte della locanda era chiaro, noi potevamo prendere la caraffa del vino forte e resinato, la minestra di ceci, l’olio, il pane come potevamo servirci di lei, senza parlare, senza chiedere, bastava uno sguardo e lei che conosceva le camere al primo piano saliva leggera ad aspettare come una gatta che non fa rumore, conosce tutto della casa, passa inavvertita fra il gemere di un tavolato, lo scricchiolio di una porta, lo sbattere di un’anta e il soffio gelido del vento che in quell’inverno e in quella rovina mi rabbridiva fin dentro le ossa. Così pallida, così rassegnata, cosa fra le cose di una locanda povera, ma sembrò che le si gonfiasse il pelo, che sprizzassero scintille dai suoi occhi grigi la sera che entrò nella locanda la donna cagna, l’altra prostituta di Isernia, olivastra, non brutta, non vecchia ma ferina, che si era presa come abitazione una delle case semidistrutte un po’ fuori città, senza porte e senza vetri alle finestre, un graticcio di canne come porta, pezzi di lamiera alle finestre e per le fessure si vedeva il braciere al centro della stanza e il pagliericcio posato sulla terra fredda. Ma nelle notti gelide e ventose lei attizzava il fuoco, faceva alzare la fiamma che la vedessero dalla città, quelli che la odiavano e sbeffeggiavano, era sempre lì, non era ancora morta, piaceva ancora ai suoi visitatori notturni. Entrò la donna cagna con un suo mugolio minaccioso, si alzò pallidissima la donna gatta e sembrava le fosse gonfiata la groppa e la coda e noi, gli ospiti di rispetto, capimmo che la donna cagna poteva rivendicare qualcosa dall’oste che sbucò subito dalla cucina, rimandò al suo posto vicino al camino la donna gatta e si portò l’altra dietro la tenda rossa per un piatto di minestra, uscì poi come da una incursione vittoriosa, con uno sguardo di trionfo, ancora viva nella sua vita perduta.»
(Giorgio Bocca, L'Inferno - Profondo sud, male oscuro, Milano 1993, p. 3.)
Nessun commento:
Posta un commento