Settembre 1860: con Garibaldi a Napoli e la linea del fronte attestata sul Volturno, nei capoluoghi di distretto a nord del fiume, i filounitari sollevano il tricolore con lo scudo sabaudo, instaurando a macchia di leopardo governi provvisori in nome di Italia e Vittorio Emanuele. Nel giro di pochi mesi, interesse, fellonia e rassegnato fatalismo fanno crollare un regno europeo antico di secoli. La situazione è caotica ovunque: come candidamente dichiara a se stesso il suddiacono Nicola Nola, nel suo prezioso diario venafrano, non si sa a chi ubbidire. In questo contesto di insorgenza, reazione e controreazione si muovono personaggi degni della penna di Salgari. Tra di essi, certamente va annoverato il misconosciuto Teodoro Salzillo (altrove Salzilli, all’uso piemontese), capopolo, agente provocatore, primula rossa reazionaria e, al tramonto, malinconico scrittore di memorie.Sue notizie biografiche le dà Masciotta: nato a Santa Maria Uliveto (Pozzilli) il 20 febbraio del 1826, Teodoro Salzillo fu «tenuto agli studi da uno zio prete, acquistando una cultura superficiale ma varia così da essere in grado di soddisfare alla grafomania ond'era affetto». Grafomane lo è davvero se una nota bibliografica in ultima pagina del suo lavoro intitolato "Roma e le menzogne parlamentari nelle Camere de Comuni di Londra e Torino", edito nel 1863, ci dà dodici titoli tra saggi, poesia e prosa, pubblicati a quella data.Nell'anno delle rivoluzioni, il 1848, Salzillo è nelle schiere dei liberali. Dodici anni più tardi sarà invece tra i reazionari difensori dello statu quo. Non certo a parole.In quell’autunno del ’60, Salzillo, a capo di mille cafoni (gendarmi sbandati, guardie municipali non riconfermate, contadini fedeli al re e a monsignore), si muove agilmente tra Isernia e Venafro, dando battaglia alle Giubbe rosse, sostenendo ovunque serva – e con più energia degli uomini in divisa – l’esercito regolare duosiciliano nei suoi ultimi conati di resistenza allo straniero. Troviamo Salzillo e i suoi battersi alle pendici del Matese campano; a San Germano, inseguiti da Ghirelli; a Isernia contro la Colonna De Luca; a Pettorano contro Nullo e, stando a quello che si dice, sul Macerone, contro i bersaglieri. È lui stesso a ricordare le gesta di questi Mille senza giubba, dimenticati dalla Storia per aver sostenuto il re sbagliato:
«Questi volontari, parte guardie urbane e parte soldati congedati, formavano un battaglione di 1000 individui, da noi organizzato, senza il minimo concorso monetario del governo. Esso si distinse nell’occupazione di Venafro e di Fornelli; nell’attacco di Isernia con De Luca e Ghirelli; nell’attacco di Pettoranello e Carpinone col colonnello garibaldino Nulli (…). Nell’attacco al Macerone col Generale piemontese Griffini, comandante due battaglioni d’avanguardia, questi volontari mostrarono sommo valore, a già prima avevano liberato Forli da 200 garibaldini, prendendovi il procaccio con oltre a 7000 ducati, che trasportarono a Gaeta.»
Lucio Severo [ma Teodoro Salzillo], Di Gaeta e delle sue diverse vicissitudini fino all‘ultimo assedio del 1860-61, s.l. 1865, p. 13.
Con quale orgogliosa energia terrà a puntualizzare dal suo esilio romano – Salzillo segue Francesco II prima a Gaeta, poi a Roma – che contrariamente ad altri, i suoi uomini non si sono mai tirati indietro: polemizzerà per iscritto coi graduati dell’esercito regio:
«Ci reca maraviglia, osservando i rapporti del Maggiore de Liguori e di Scotti-Duclas Generale, rinvenire usurpata tutta questa gloria. Dopo la vittoria riportata su dei tre battaglioni garibaldini nel piano di Carpinone [contro Nullo], il de Liguori scriveva al Duca S.Vito: Abbiamo sostenuto un brillante fatto d‘armi. Gli domandiamo noi: e quando mai usciste da Isernia? Non vi ricorda che tra i vostri dipendenti, solo i tre sopraddetti ufficiali, [i capitani di gendarmeria Graux e Monteleone e l’alfiere de Vivo] volontariamente, con 85 gendarmi si spinsero con noi all’attacco? Non vi ricorda che tutto su di noi poggiavate? E poi, chi di noi due è stato processato? La storia Signor Maggiore, dirà: chi sostenne il brillante fatto d’armi! Il lettore sappia: che non solo il de Liguori così fece, ma tutti i Capi, i quali nascosero sempre le loro viltà sotto il coraggio dei dipendenti.»
Lucio Severo [ma Teodoro Salzillo], Di Gaeta e delle sue diverse vicissitudini fino all‘ultimo assedio del 1860-61, s.l. 1865, p. 13.
Pure, di Salzillo e dei suoi nella storia ufficiale del Risorgimento italiano non c’è menzione. È il destino degli sconfitti, certo; ma la damnatio memoriae nei confronti dei vinti del Risorgimento ha operato con maggiore energia. L’interpretazione orientata, unidirezionale e acritica, dei fatti e degli atti che hanno portato all’Unità, dall’olografia di De Amicis a salire, ha trovato d’accordo tutti: il Fascismo – che propose una continuità ideale tra Camicie rosse e Camicie nere – così come la Repubblica – non a caso, la Resistenza viene definita “Secondo Risorgimento”. Il Risorgimento era religione civile, mito fondativo del Paese, e non poteva essere messo in discussione. Gli archivi rimanevano inesplorati o lasciati all’esplorazione degli storiografi domenicali, facilmente bollabili come revisionisti e cazzari. Scrive Sergio Romano (sul Corriere della Sera del 18/05/2001):
«Il problema della “storia patria” sorge nel momento in cui gli Stati, dopo il 1848, diventano “nazionali” e adottano, uno dopo l’altro, il principio dell’educazione obbligatoria. Ai figli dell’operaio, dell’artigiano, dell’agricoltore e del bottegaio non basta impartire nozioni di lingua e di aritmetica. Occorre insegnare un catechismo civile, positivo ed entusiasmante. Occorre spiegare che la patria è sacra e che la sua storia è costellata da gloriose vittorie o immeritate sconfitte. (…) Una “buona” storia produce buoni soldati. (…) Spero che gli storici della sinistra militante non se n’abbiano a male se osservo che il loro modo di scrivere assomiglia come una goccia d’acqua a quello di molti dei loro colleghi degli anni Venti e Trenta: le stesse certezze manichee, le stesse scomuniche, la stessa inclinazione a leggere gli avvenimenti con gli occhiali dell' ideologia, nazionalista allora, marxista, proletaria e antifascista oggi.»
Torniamo a Salzillo, alle poche fonti che ce ne parlano. I contempranei di parte liberale ce lo dipingono come spia, doppiogiochista. Nei giorni immediatamente precedenti lo scoppio della Reazione di Isernia (30 settembre 1860) Salzillo prende contatti col comandante garibaldino Fanelli: da lui si fa consegnare 36 ducati con lo scopo di fare arruolamenti a Venafro, salvo poi involarsi a Teano per conferire, appunto, col maggiore borbonico De Liguori «per veder modo di fomentare una reazione in Venafro ed in Isernia». Non sappiamo quanto ci sia di consapevole pratica d'infiltrazione, quanto di lucro e personale interesse. Certo è che sceglie il partito sbagliato. La penna avvelenata di Jadopi così ce lo descrive:
«Nel giorno 2 ottobre il Salzilli recossi in Pozzilli (…) e convocato il popolo lo spinse a saccheggiare l’arbusto e il Casino de’ signori Lucenteforte, perché parteggianti pel nuovo ordine politico (…) Ne’ giorni 4 e 5 ottobre fu il Salzilli presente al saccheggio della Casa de’ signori Jadopi d’Isernia e della Sotto-Intendenza prendendone la sua parte, ed il pianoforte del Sotto-Intendente sig. Giacomo Venditti fu recato a Pozzilli in casa Salzilli, l’onde lo riprendeva il Governatore Nicola de Luca e lo restituiva al padrone dopo la venuta delle truppe Italiane. Ne’ giorni seguenti fino al 20 ottobre (…) non altro occupavasi che di recarsi di casa in casa alla requisizione di armi e munizioni ed estorquendo denaro dai più gonzi. (…) Nel giorno 22 ottobre (…) fuggì in Gaeta, e di là si rifuggiò in Roma dove ora esercita l’ufficio di arrolatore di briganti, e quando scrive alla moglie si firma col titolo di Cavaliere».
Anonimo [ma Stefano Jadopi], Reazione d‘Isernia, Il Giudizio innanzi la Corte d‘Assise ed i ricorsi in Cassazione, in Storia d‘Isernia al cadere dei Borboni nel 1860,s.l. [Italia], s.d., p. 160
Dopo le note vicende, passati piume in testa i bersaglieri per il valico del Macerone, Salzillo segue Francesco II nella sua malinconica ultima Thule. Caduta Gaeta seguirà la corte in esilio a Roma, al pari di altri campioni nostrani della causa lealista: il duca D'Alessandro, il ricevitore Gennaro De Lellis. Segue una breve parentesi a Malta, dove pubblicherà il citato "Roma" (1863), quindi di nuovo a Roma. Quando, col 1870, non avrà più senso offrirsi di spalle all'odiato nemico, tornerà a Venafro, città italiana. Qui muore il 20 giugno 1904.
[Alcune opere di Teodoro Salzillo sono integralmente presenti su Google Books: per chi voglia, qui trova il volume sull'assedio di Gaeta, pubblicato nel 1865 col nom de plume di Lucio Severo; qui invece c'è il citato "Roma (...)" e qui invece c'è il volume sull' invasione garibaldesca dello Stato Pontificio del 1867.]
«Questi volontari, parte guardie urbane e parte soldati congedati, formavano un battaglione di 1000 individui, da noi organizzato, senza il minimo concorso monetario del governo. Esso si distinse nell’occupazione di Venafro e di Fornelli; nell’attacco di Isernia con De Luca e Ghirelli; nell’attacco di Pettoranello e Carpinone col colonnello garibaldino Nulli (…). Nell’attacco al Macerone col Generale piemontese Griffini, comandante due battaglioni d’avanguardia, questi volontari mostrarono sommo valore, a già prima avevano liberato Forli da 200 garibaldini, prendendovi il procaccio con oltre a 7000 ducati, che trasportarono a Gaeta.»
Lucio Severo [ma Teodoro Salzillo], Di Gaeta e delle sue diverse vicissitudini fino all‘ultimo assedio del 1860-61, s.l. 1865, p. 13.
Con quale orgogliosa energia terrà a puntualizzare dal suo esilio romano – Salzillo segue Francesco II prima a Gaeta, poi a Roma – che contrariamente ad altri, i suoi uomini non si sono mai tirati indietro: polemizzerà per iscritto coi graduati dell’esercito regio:
«Ci reca maraviglia, osservando i rapporti del Maggiore de Liguori e di Scotti-Duclas Generale, rinvenire usurpata tutta questa gloria. Dopo la vittoria riportata su dei tre battaglioni garibaldini nel piano di Carpinone [contro Nullo], il de Liguori scriveva al Duca S.Vito: Abbiamo sostenuto un brillante fatto d‘armi. Gli domandiamo noi: e quando mai usciste da Isernia? Non vi ricorda che tra i vostri dipendenti, solo i tre sopraddetti ufficiali, [i capitani di gendarmeria Graux e Monteleone e l’alfiere de Vivo] volontariamente, con 85 gendarmi si spinsero con noi all’attacco? Non vi ricorda che tutto su di noi poggiavate? E poi, chi di noi due è stato processato? La storia Signor Maggiore, dirà: chi sostenne il brillante fatto d’armi! Il lettore sappia: che non solo il de Liguori così fece, ma tutti i Capi, i quali nascosero sempre le loro viltà sotto il coraggio dei dipendenti.»
Lucio Severo [ma Teodoro Salzillo], Di Gaeta e delle sue diverse vicissitudini fino all‘ultimo assedio del 1860-61, s.l. 1865, p. 13.
Pure, di Salzillo e dei suoi nella storia ufficiale del Risorgimento italiano non c’è menzione. È il destino degli sconfitti, certo; ma la damnatio memoriae nei confronti dei vinti del Risorgimento ha operato con maggiore energia. L’interpretazione orientata, unidirezionale e acritica, dei fatti e degli atti che hanno portato all’Unità, dall’olografia di De Amicis a salire, ha trovato d’accordo tutti: il Fascismo – che propose una continuità ideale tra Camicie rosse e Camicie nere – così come la Repubblica – non a caso, la Resistenza viene definita “Secondo Risorgimento”. Il Risorgimento era religione civile, mito fondativo del Paese, e non poteva essere messo in discussione. Gli archivi rimanevano inesplorati o lasciati all’esplorazione degli storiografi domenicali, facilmente bollabili come revisionisti e cazzari. Scrive Sergio Romano (sul Corriere della Sera del 18/05/2001):
«Il problema della “storia patria” sorge nel momento in cui gli Stati, dopo il 1848, diventano “nazionali” e adottano, uno dopo l’altro, il principio dell’educazione obbligatoria. Ai figli dell’operaio, dell’artigiano, dell’agricoltore e del bottegaio non basta impartire nozioni di lingua e di aritmetica. Occorre insegnare un catechismo civile, positivo ed entusiasmante. Occorre spiegare che la patria è sacra e che la sua storia è costellata da gloriose vittorie o immeritate sconfitte. (…) Una “buona” storia produce buoni soldati. (…) Spero che gli storici della sinistra militante non se n’abbiano a male se osservo che il loro modo di scrivere assomiglia come una goccia d’acqua a quello di molti dei loro colleghi degli anni Venti e Trenta: le stesse certezze manichee, le stesse scomuniche, la stessa inclinazione a leggere gli avvenimenti con gli occhiali dell' ideologia, nazionalista allora, marxista, proletaria e antifascista oggi.»
Torniamo a Salzillo, alle poche fonti che ce ne parlano. I contempranei di parte liberale ce lo dipingono come spia, doppiogiochista. Nei giorni immediatamente precedenti lo scoppio della Reazione di Isernia (30 settembre 1860) Salzillo prende contatti col comandante garibaldino Fanelli: da lui si fa consegnare 36 ducati con lo scopo di fare arruolamenti a Venafro, salvo poi involarsi a Teano per conferire, appunto, col maggiore borbonico De Liguori «per veder modo di fomentare una reazione in Venafro ed in Isernia». Non sappiamo quanto ci sia di consapevole pratica d'infiltrazione, quanto di lucro e personale interesse. Certo è che sceglie il partito sbagliato. La penna avvelenata di Jadopi così ce lo descrive:
«Nel giorno 2 ottobre il Salzilli recossi in Pozzilli (…) e convocato il popolo lo spinse a saccheggiare l’arbusto e il Casino de’ signori Lucenteforte, perché parteggianti pel nuovo ordine politico (…) Ne’ giorni 4 e 5 ottobre fu il Salzilli presente al saccheggio della Casa de’ signori Jadopi d’Isernia e della Sotto-Intendenza prendendone la sua parte, ed il pianoforte del Sotto-Intendente sig. Giacomo Venditti fu recato a Pozzilli in casa Salzilli, l’onde lo riprendeva il Governatore Nicola de Luca e lo restituiva al padrone dopo la venuta delle truppe Italiane. Ne’ giorni seguenti fino al 20 ottobre (…) non altro occupavasi che di recarsi di casa in casa alla requisizione di armi e munizioni ed estorquendo denaro dai più gonzi. (…) Nel giorno 22 ottobre (…) fuggì in Gaeta, e di là si rifuggiò in Roma dove ora esercita l’ufficio di arrolatore di briganti, e quando scrive alla moglie si firma col titolo di Cavaliere».
Anonimo [ma Stefano Jadopi], Reazione d‘Isernia, Il Giudizio innanzi la Corte d‘Assise ed i ricorsi in Cassazione, in Storia d‘Isernia al cadere dei Borboni nel 1860,s.l. [Italia], s.d., p. 160
Dopo le note vicende, passati piume in testa i bersaglieri per il valico del Macerone, Salzillo segue Francesco II nella sua malinconica ultima Thule. Caduta Gaeta seguirà la corte in esilio a Roma, al pari di altri campioni nostrani della causa lealista: il duca D'Alessandro, il ricevitore Gennaro De Lellis. Segue una breve parentesi a Malta, dove pubblicherà il citato "Roma" (1863), quindi di nuovo a Roma. Quando, col 1870, non avrà più senso offrirsi di spalle all'odiato nemico, tornerà a Venafro, città italiana. Qui muore il 20 giugno 1904.
[Alcune opere di Teodoro Salzillo sono integralmente presenti su Google Books: per chi voglia, qui trova il volume sull'assedio di Gaeta, pubblicato nel 1865 col nom de plume di Lucio Severo; qui invece c'è il citato "Roma (...)" e qui invece c'è il volume sull' invasione garibaldesca dello Stato Pontificio del 1867.]
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