Pochi – credo davvero
pochi – sanno che il primo romanzo in lingua italiana sul gioco del calcio è
stato scritto da un misconosciuto avvocato isernino e pubblicato da “La Gazzetta
dello Sport” nel 1932, anno X dell’Era Fascista e secondo del Quinquennio d’oro juventino, mesi prima
che Umberto Saba pensasse alla palla maculata per le sue cinque poesie e quasi mezzo secolo avanti a quell’Azzurro Tenebra (1977) di Giovanni
Arpino che la rete troppo frettolosamente accredita di un primato che
– fino a querela di falso – spetta a Franco Ciampitti col suo Novantesimo minuto [1].
Libro e moschetto,
calcio e fischietto.
Il contesto
Non più bizzarro
passatempo per seminaristi inglesi[2],
nei primissimi anni ‘30, il calcio parlato e giocato è già passione matura del
popolo italiano: il campionato 1929-30 è il primo a disputarsi col Girone unico
nazionale (la Serie A, per come la conosciamo ora), più organico alla sensibilità
fascista di unità della patria rispetto alle precedenti formule divisionali che
tracciavano una discriminante Gotica tra le élite
del calcio settentrionale e le arrangiate schiere romano-napoletane. Il
Fascismo è già entrato prepotente – qui come altrove – nel mondo del calcio. Nel
1927, per sterilizzare inopportune rivalità stracittadine, promuove la reductio ad unum tra società presenti nella stessa città. Nascono così, per
fusione, club moderni – la
Fiorentina, la Roma – e fossili come l’Ambrosiana, vincitrice di quel primo
campionato unitario. Resistono, invece, i due club torinesi, protagonisti, nel
1928, del primo scandalo del calcio italiano – altro sintomo della raggiunta maturità. È l’affaire Allemandi, terzino della Juventus avvicinato
da emissari granata per assicurare il risultato nel derby; scandalo modesto, quasi
ingenuo se visto, in prospettiva, dagli anni di Calciopoli e a scoppio ritardato [3],
intervenuto cioè quando si stava già giocando il campionato successivo. Ne seguì
una pilotatissima inquisizione federale per mano di Leandro Arpinati, a un
tempo presidente Federcalcio e podestà di Bologna, guarda caso squadra seconda
classificata, con conseguente revoca dello scudetto assegnato al Torino.
Il rapporto tra calcio e Fascismo è, come visto, molto stretto. Il Regime, in questo lungimirante, mostra di aver ben compreso che la fascinazione popolare per il calcio, per lo sport in generale, può, deve essere usata come collante del consenso e, per altri versi, controllabile valvola di sfogo del conflitto sociale. Allora come ora, il calcio è oppio dei popoli, acquavite dello spirito. Si punta all’identificazione, anche subliminale. Sulle maglie attillate dei campioni, accanto al tricolore sabaudo che si dà alla squadra vincitrice del campionato – lo scudetto – compare immancabile il fascio littorio. La cosa funziona anche con altri sport. Nel bene come nel male, il regime s’identifica con i suoi figli sudati. I Mussolini boys alle Olimpiadi californiane del ’32. Vietato pubblicare in patria il gigante Carnera abbattuto al suolo.
Serve, a questo punto, una mitopoiesi. In quegli anni in orbace sono molti gli intellettuali che rispondono alle sollecitazioni del Regime a impegnarsi fascisticamente a creare letteratura sportiva. Lo sport deve farsi verbo; si devono conciliare gli opposti, dopo che il Futurismo – unica avanguardia culturale autenticamente italiana del ‘900 – ha celebrato il guizzo d’atleta e il muscolo sudato come antitetici al piagato sedere degli intellettuali e predicato – non senza un’intima contraddizione, avendolo fatto su carta – il predominio della ginnastica sul libro [4]. Del resto, nello stesso anno in cui Ciampitti pubblica il suo romanzo breve, Benedetto Croce riconferma l’impossibilità della sintesi, dolendosi di come la diffusione del demone sportivo tra le masse abbia costituto, nella seconda metà del secolo decimonono, un falso ideale capace di distruggere ogni fine cultura [5].
Così, tutta una serie di cronisti sportivi e scrittori laureati si impegna in uno stretto giro di anni a confezionare opere a tema, romanzi, poemi, e i gazzettieri ci riescono, in genere, meglio degli accademici. Sono gli anni in cui si pubblica Re Pallone (Bologna, 1933) romanzo di Bruno Roghi, direttore della Gazzetta prima e del Corriere dello Sport-Stadio poi; in cui un magistrato piemontese, Romolo Moizo, dà alle stampe la biografia futurista di un pallone di cuoio (Hansa Scrum, Milano, 1935). Prima di loro, c’era stato Osvaldo Giacomi (1931) con Storie di forti: due fratelli fiorentini, pugile l’uno, centravanti l’altro. Per tacere delle altre opere di narrativa che, in quegli stessi dinamici anni, vengono scritte sul mondo dell’automobilismo, dell’ippica, della boxe [6]. Anche le liriche che Umberto Saba dedica agli alabardati della sua Triestina sono della partita: c’è anche il suo di autografo sulla copertina azzurra della Prima antologia degli scrittori sportivi, curata dal nostro Ciampitti insieme all’abruzzese Giovanni Titta Rosa – altro esule adriatico nella Milano dell’editoria – e uscita per i tipi dell’editore Carabba nel 1934.
«La Milano degli anni trenta» – ricorda Ciampitti in un dattiloscritto fortuitamente edito [7] – «mi aveva avvicinato ad uno scrittore di chiara fama, ad un critico competente e onesto: Giovanni Titta Rosa. Egli dirigeva allora l’attività della Casa Carabba (…), abitava in un appartamento pieno di luce in via della Spiga, dove mi invitò a pranzo molto spesso per aver modo di parlare con me. Fu lui a propormi di affiancarlo nella compilazione (…) della “Prima antologia degli scrittori sportivi”. Lavorammo intensamente ed il libro arrivò presto nelle librerie con un’originale copertina: esso ebbe buon successo di pubblico e di polemiche. Se gli ambienti letterari dedicarono un certo interesse all’antologia, quelli sportivi scoprirono che non ero il solo a raccontare i fatti di un mondo così entusiasmante e passionale. Il volume presentava ventidue nomi di narratori e di poeti tutti già affermati. A me però era toccato un primato particolare.»
Il primato cui accenna
Ciampitti è di aver vinto, da principiante
assoluto nel 1931, la prima edizione del concorso nazionale indetto dalla
F.I.G.C., con giuria presieduta da Massimo Bontempelli. Il romanzo breve, che
sarà poi pubblicato come Novantesimo
minuto dalle edizioni della “Gazzetta dello Sport”, era stato presentato al
certame col titolo più ermetico di Io
cammino e arriverò. «Era stata una
della federazioni del C.O.N.I. a bandire la competizione letteraria, destinata
nelle previsioni della vigilia ad un autore di chiara fama. Non mi conosceva
nessuno; nessuno poteva pensare a me.»
Il mio nome è Nessuno. Chi è Ciampitti
Questo signor nessuno nasce nel 1903 a Isernia – allora come ora, punto sulla mappa,
luogo di ossimori: città a sud del nord, e a nord del sud, al centro della
Penisola ma periferica; perfetta per
dare i natali a ignoti. Il padre di Franco è Giovanni Ciampitti, avvocato
liberale e massone, poi deputato costituente per la Democrazia cristiana e
senatore nella prima legislatura della Repubblica, tanto noto da meritarsi una
voce biografica su Wikipedia. Dopo il liceo – al Fascitelli è allievo di
Michele Romano – si iscrive a Giurisprudenza a Napoli, dove – come side project della carriera forense cui è
irrimediabilmente destinato per calco paterno e che gli darà da vivere nel
dopoguerra – approccia da avventizio il mondo delle redazioni sportive, fino alla
stabile collaborazione, da cronista, nel “Mezzogiorno Sportivo” di Felice Scandone,
celebre per aver cantato l’epifania del “Ciuccio
fa’ tu” sulle curve partenopee. «Scavalcai
ogni tirocinio quando egli scoprì che ero presuntuoso e disinvolto. I lettori non
volevano resoconti aridi di tecnica e di dati, preferivano conoscere
avvenimenti raccontati e vissuti come gli altri fatti della vita.»
Quando le due colonne di cronaca iniziano a stargli strette, l’urgenza di «raccontare la gente» [8] si esprimerà a pagine. C’è tuttavia piena continuità tra il giornalista e il narratore: la novità portata da Ciampitti è trasfondere l’ambiente di panchine e spogliatoi frequentati per mestiere sulla pagina del romanzo. Dove gli accademici suoi contemporanei falliscono la prova perché relegano lo sport a un’occasione, un fondale su cui proiettare vicende da romanzo d’appendice e i cronisti-cronisti, di contro, non riescono a decollare dalla piattezza dell’arbitro severo e del granitico terzino, Ciampitti prova una terza via narrativa, una via «tutta sua, solitaria, che consiste nell’intrecciare e fondere insieme le ragioni umane dei suoi personaggi con la rappresentazione del loro impegno nella realtà sportiva». [9]
«[Gli] argomenti più congeniali ebbero carattere sportivo: e fu
un’autentica fortuna. I primi decenni del secolo, mentre vedevano notevolissimi sviluppi dello sport,
lasciarono indifferenti o quasi il mondo degli scrittori; un tale divario
facilitò l’inizio della mia attività di narratore. (…) Quando la gente vide nelle librerie il mio primo romanzo forse cominciò
a pensare che la narrativa italiana si era accorta finalmente dell’importanza
di un giuoco che abbisognava soltanto di un pallone per scatenare entusiasmi.»
Si arriva, così, alla stesura del romanzo breve, che sarà poi Novantesimo minuto. Come già detto, l’opera prima di Ciampitti vince il Concorso nazionale indetto dalla F.I.G.C.; l’ambitissimo premio è fissato a diecimila lire e, soprattutto, la possibilità di seguire come embedded journalist la Nazionale italiana di Vittorio Pozzo nel biennio successivo, epifanico della conquista della Coppa Rimet ai Campionati mondiali di Roma, del 1934.
Ciampitti è raggiante, è
il treno che passa una sola volta nella vita, e lui l’ha preso. «Avrei
collezionato, come spettatore, un buon numero di divertenti avventure e di
appassionanti confronti, in compagnia di comitive dei più celebrati giuocatori
e dei più qualificati tecnici sportivi, senza contare i viaggi, soggiorni,
eventi di altissimo interesse». Per di più – e qui viene fuori l’anima
molisana – tutto questo «senza spendere
un soldo di tasca mia».
L’ingresso nel circo azzurro, tuttavia non è dei più facili. I soggiorni in ritiro sono reclusioni in alpeggio, dove il massimo del divertimento è cantare Ta pum: Pozzo è stato tenente degli alpini nella Grande guerra, fascista di regime, non di rivoluzione – il che significa «uno che apprezza i treni in orario ma non sopporta gli squadrismi» [10], né la goliardia del s’è mangiato, s’è bevuto e s’è scopato[11] . Ciampitti è un outsider, per di più meridionale in una compagine che – a parte il romano Ferraris e i molti oriundi latinoamericani – vede gli altri nati oltre la linea del Po. Ci sarebbe per la verità pure un abruzzese, Mario Pizziolo, che però preferisce dirsi fiorentino; a rivelare la cosa è proprio il giornalista: «Che nella Nazionale azzurra Pozzo avesse ficcato un abruzzese, non lo sapeva nessuno, ma a Capodanno sono giunti tanti telegrammi da Pescara, che Pizziolo ha dovuto confessare. Altro che Toscana! Pizziolo è dell’Abruzzo forte e gentile.» [12]
L’ingresso nel circo azzurro, tuttavia non è dei più facili. I soggiorni in ritiro sono reclusioni in alpeggio, dove il massimo del divertimento è cantare Ta pum: Pozzo è stato tenente degli alpini nella Grande guerra, fascista di regime, non di rivoluzione – il che significa «uno che apprezza i treni in orario ma non sopporta gli squadrismi» [10], né la goliardia del s’è mangiato, s’è bevuto e s’è scopato[11] . Ciampitti è un outsider, per di più meridionale in una compagine che – a parte il romano Ferraris e i molti oriundi latinoamericani – vede gli altri nati oltre la linea del Po. Ci sarebbe per la verità pure un abruzzese, Mario Pizziolo, che però preferisce dirsi fiorentino; a rivelare la cosa è proprio il giornalista: «Che nella Nazionale azzurra Pozzo avesse ficcato un abruzzese, non lo sapeva nessuno, ma a Capodanno sono giunti tanti telegrammi da Pescara, che Pizziolo ha dovuto confessare. Altro che Toscana! Pizziolo è dell’Abruzzo forte e gentile.» [12]
Il giornalista embedded ha accesso a tutte le
indiscrezioni. «Presero a considerarmi
amico e io feci del mio meglio per confermarli nella loro opinione. Nei servizi
giornalistici che curavo, le loro previsioni, le loro confidenze mi fornirono
sempre primizie interessanti ed agevolarono costantemente il mio lavoro».
Per tutti gli anni ’30, Ciampitti scrive di sport, da giornalista e novelliere. Il suo secondo romanzo – Cerchi, edito da Carabba nel 1934 – sebbene mediocre, e più vicino al feuilleton, sarà scelto a rappresentare la narrativa italiana alle Olimpiadi di Berlino del 1936, quelle di Goebbels e Leni Riefensthal, che Ciampitti incontrerà annotandone «la semplicità [del] sorriso, che ai lineamenti marcati dà un’espressione di luminosa dolcezza» [13]. Gli appunti presi nel suo soggiorno berlinese daranno vita a Campioni del mondo, una raccolta di idealtipi d’atleta che, pur vincendo il Premio San Remo per la narrativa sportiva nel 1940, rimarrà inedita, come orfano di editore rimarrà anche lo scomodo La rete bianca, del 1940, in cui si racconta, sì, di automobilismo e Mille Miglia intrecciandone però le vicende a sanatori e malattia di mente. La rete bianca – che è quella che separa i sani dai malati, nell’Ospedale psichiatrico di Cogoleto – riceverà il secondo piazzamento al concorso letterario indetto da “Il Popolo di Brescia”, dovendo cedere il primo perché, sostanzialmente, non allineato ai dettami del Min.Cul.Pop. Cotronei, a capo della giuria, dirà nella motivazione del premio: «Franco Ciampitti ha offerto un romanzo denso e originale, ma non ha letizia né luce. Si tratta di un’avventura dolorosa [in cui] le ferneticazioni, i patimenti, gli incubi le illuminazioni improvvise affermano le doti dello scrittore, ma dicono anche che il suo sport è più nero che roseo; certamente non fonte di ottimismo e di dinamismo.»
Novantesimo minuto. La solitudine del terzino
sinistro
Inorganico all’idea
fascista di sport – come «fatto di
agonismo e militarismo, di azionismo e spettacolarità massificata» [14] – è, se si vuole, anche Novantesimo
minuto, romanzo del disagio interiore e della solitudine che affligge il
calciatore di terza linea chiamato a
giocare contro la sua squadra, contro la sua città, sotto gli occhi della sua
ex.
Nel calcio d’antan, il terzino è un killer ruminante
asservito al catenaccio che pascola
sulla trequarti in attesa di frangere altrui tibie e peroni. Osserva il Codice
Rocco (Nereo, non Alfredo): «Colpisci tutto
quello che si muove a pelo d’erba. Se è il pallone, pazienza». Mario, invece, protagonista del romanzo di
Ciampitti, che ci coinvolge nel suo monologo interiore à la Schnitzler – come rileva Bontempelli nell’introduzione alle
due edizioni italiane, 1932 e 1960 [15] – è un terzino sui generis, malinconico e deponente. Mario è un proletario
romano non pasoliniano, che il calcio ha elevato a certa fama nazionale,
sebbene transeunte, e che dopo aver giocato con successo nella Fortitudo [16],
dopo essere diventato intimo del presidente Vandelli e dei suoi figli – Walter,
giocatore mediocre che deve al cognome il suo posto in squadra; e Marta, che
con lui amoreggia, gioca al gatto e al topo, lo illude fino a determinarne
l’imbarazzante richiesta di matrimonio, platealmente rifiutata – viene scaricato
a un club milanese, la Juventus [17],
e deportato in quella metropoli del Nord. Questo e altro lo si apprende come
antefatto, poiché il romanzo – in questo molto moderno – si svolge tutto in una
domenica capitolina di campionato, dalle otto alle sedici e quarantacinque.
Novanta
minuti in uno solo (sinossi & florilegio)
Mario si sveglia nella
cattività dell’albergo, dove divide la stanza con Lewis, il mister, fermamente deciso
a non scendere in campo contro i suoi,
quelli della Fortitudo, Vandelli padre e figli.
«–
Chi lo ha rotto?
L’allenatore che sta rovistando
nella valigia ha tirato fuori dalla guaina di cuoio lo specchio che è rotto. Mi
stringo nelle spalle, chè non so nulla e resto muto. Ecco un cattivo presagio!
– No, mister, io non voglio giuocare oggi.
Lewis rimette piano l’oggetto al
suo posto, si volge a guardarmi e viene verso di me. Sono in piedi presso il
vano della finestra e per darmi un contegno guardo gli alberi del giardino
fatti più verdi dal sole già alto.
Sento la mano di lui sulla mia
spalla, così come mi par di sentire su di me il suo sguardo.
– Mario…
Lewis mi chiama per nome quando
deve dirmi una cosa importante.
Parla, parla, amico, quando avrai
finito, ti ripeterò la mia decisione, ti annunzierò di nuovo che non voglio
giuocare.»
Se deciderà di giocare
sarà solo dopo aver visto i giornali del mattino, sui quali legge un’intervista
all’ex presidente in cui viene chiamato con disprezzo “il fabbro di San Lorenzo”. Sul punto, Mario ha i nervi scoperti:
sente ancora aperta la ferita del rifiuto di Marta, dovuta proprio alle sue
origini proletarie.
Alle quindici è negli
spogliatoi. Ciampitti ci riporta la fotografia di un atleta di altro secolo.
«Sulle calze metto i parastinchi, poi
i calzettoni e poi le cavigliere. Prima di calzare le scarpe, muovo il piede in
modo che si adatti bene nella stretta elastica delle cavigliere. Quindi mi
metto le scarpe e cammino un poco prima di legarle con la fettuccia bianca, che
passa negli occhielli e gira sotto la pianta due o tre volte, prima di essere
annodata intorno alla caviglia. Uso sotto la maglia dai colori sociali una
canottiera di lana bianca e niente altro. Dopo aver messo il sospensorio,
infilo il calzoncino che un elastico mi assicura alla vita. Ho bisogno di
ravviarmi i capelli prima di stringere attorno al capo un fazzoletto bianco,
che lego dietro l’occipite. Così la mia toeletta di gioco è completa.»
Entrano in campo. Mario
incrocia lo sguardo di Vandelli figlio, che gli era amico fraterno, e ora è
idolo polemico. La scena viene costruita efficacemente, procedendo dall’interno
verso l’esterno, con un rapido ribaltamento nel finale, in cui si sterilizza
l’odio di Mario nell’ipocrisia decoubertininana
della stretta di mano e scambio dei gagliardetti.
«Qualche stretta di mano viene
scambiata, e l’arbitro chiama i capitani: due nomi detti con rapidità, nel
silenzio che d’improvviso si è fatto: il mio e quello di Vandelli.
Fo un passo e sono davanti al
capitano della Fortitudo. Mi sembra di essere solo, assolutamente solo, di
fronte a Walter Vandelli. L’arbitro, i compagni, la folla sono spariti
d’incanto, lasciandoci soli col nostro insanabile odio. (…)
Odio te e tuo padre che un giorno
mi mise alla porta, mi scacciò come un cane e gridava il disprezzo per me, ch’ero
un fabbro.
Odio. Odio anche quella tua
cattiva sorella , che sembrava bruciasse d’amore ed invece preparava una beffa,
che sapeva tanto baciare e poi, una sera, rideva chiamandomi pazzo.
Ecco… ora… io… e…
Ma che vuole quest’arbitro?
Ci ha messo le braccia sulle
spalle e ci avvicina.
Io non ho ascoltato le parole che
diceva in principio, ma ora le sento, le intendo. Egli dice che lo sport è un
campo fatto per gli uomini leali. Per incontrarsi su quel campo, bisogna
dimenticare i rancori. Distruggere ogni ruggine e battersi a viso aperto,
serenamente.»
Alle quindici e
quindici, il calcio di inizio. Comincia la partita, decisiva per le sorti del
campionato. Lo stile narrativo è asciutto, mimetico di una radiocronaca.
«Castellani tocca la palla e la
lascia a Benelli. Un colpo di tallone la manda indietro a Bianchi. Il mediano
attende da fermo Munegati e poi allunga a Viotti, che fugge lungo la linea,
pressato da Fanelli.»
Siamo a metà del
romanzo. Le cento pagine che seguiranno, sono tutte per la partita: si
alternano monologo interiore e descrizione
puntuale delle concitate fasi di gioco, in chiasmo.
Mario tocca la sua
prima palla. Contro di lui – infame, venduto – bordate di fischi, che «entrano
in testa, dànno fastidio, ma non mi turbano»; e però è distratto,
lascia che il gioco si svolga lontano dai suoi piede, dalla sua testa. Cerca
Marta sugli spalti, là dove l’ha sempre vista salutarlo durante altri incontri,
ma non c’è.
«Lonati ferma
Vandelli e mi lascia il pallone sul quale piomba Guarnisi. Ma gli rubo il tempo
(…) allungo a Faldi, che dribbla il mediano e fila lungo la linea…
Può darsi che…
Marta…
È qui… vicinissima, appoggiata
alla rete di ferro che cinge il campo… è qui… l’ho vista, l’ho riconosciuta. Io
lo sapevo che sarebbe venuta , che non poteva mancare… la guardo: ha un sorriso
sprezzante che dà più fredda luce al suo viso. (…) Ma è bella… Dio!, com’è
bella!... Io la guardo e…
–
Mario! Mario!
Dove?
Dove? Qui? Lì?
Ma
dov’è il pallone?... Ah! Carpi… Ma
Carpi è fermo e Guarnisi è passato.
Ma perché Cardeni non para Munegati…»
La Fortitudo va in rete. Colpa di Mario, della sua distrazione. Si riprende,
cerca il riscatto: doppiamente ferito nell’orgoglio, dà il massimo, spinge,
suda; sa di giocare sotto gli occhi di Lewis, dei suoi compagni di squadra,
soprattutto sotto quelli, freddi, di Marta. L’odiata, amata Marta.
Nulla da fare: il primo
tempo si chiude sotto di un gol.
Nella ripresa, la
Juventus ottiene subito il pareggio.
«L’incontro ritorna sulla linea
di partenza, riprende tutta la sua incertezza».
Il riscatto passa per
la presa di coscienza di ciò che si è.
«… che si sappia che io mi sono
battuto come una belva, che si dica che se abbiamo segnato e se segneremo
ancora si deve a me. Infatti nessun uomo dell’attacco ha dovuto ripiegare per
difendere e la nostra mediana sovlge quasi esclusivamente un indiavolato lavoro
di sostegno: sono otto uomini schierati in permanenza di fronte alla rete
romana (…).
Ecco: Lewis ci ha detto di
insistere con le finte a sinistra ma di manovrare a destra le azioni risolutive…
e va bene… ma … bisogna attaccare, attaccare, non dare respiro all’avversario (…)
Tutto questo è stato possibile, sarà possibile perché io sto a metà campo.
Bisogna aver fatto del foot-ball
per sapere che cosa significhi un terzino a metà campo. Vuol dire dare del
coraggio ai propri compagni, dell’avvilimento agli avversari, costringere
questi a lavorare con precipitazione, con orgasmo (…)
Ma per questo lavoro il terzino
deve essere di classe, perché ogni tanto sboccia da periodi siffatti uno
spunto, uno scatto, una folata che può essere pericolosa per la sua porta. È in
questi casi che brilla la classe del terzino: la prontezza dell’istinto, la
tempestività dello scatto, la velocità degli spostamenti, la caparbietà
dell’uomo, la calma sul pallone, la sicurezza nel dribbling, la potenza dei
rimandi, l’astuzia nei passaggi, lo sconcertante lavorìo delle finte, tutto
occorre in un uomo che giuochi in terza linea. E se ne hanno di soddisfazioni a
fare il terzino: siamo due soltanto e gli attaccanti sono cinque.»
Tanto premere porta al
risultato. Si arriva al gol del vantaggio – «Faldi, Faldi vieni, ti voglio baciare…» – ma la stanchezza inizia a mordere lo stomaco,
si fa saliva acre nella bocca, schiuma da cavallo sfiancato. Dalla panchina si
avvicina Lewis, e dà a Mario qualcosa (droghe? Nel mondo del calcio? Suvvia…).
«Ma che cosa ho bevuto?
Il dolore è finito ed anche la
stanchezza scompare. Rifluisce nei muscoli attossicati dalla fatica un vigore
nuovo. Respiro. Non ho più l’affanno: respiro e mi sembra di essere leggero,
fresco, come quando sono uscito dal sottopassaggio. La tua medicina mi ha
risotrato , si direbbe tu mi abbia fatto rinascere…
Ma cosa ho bevuto?»
Ore sedici e
quarantacinque. Incontro, e romanzo, volgono al termine. Resta da battere un
calcio d’angolo.
«Corner, ecco il pericolo, ecco
l’insidia.
(…)
Siamo pronti. Carpi ha messo il
pallone nell’angolo e attende il fischio dell’arbitro. Intorno si è fatto
silenzio: la folla si è ammutolita di colpo. Si direbbe che preghi. Anche noi
siamo muti, pronti alla difesa, guardinghi, coi visi trasformati dalla fatica e
dall’impegno. Per i romani, questa si può considerare l’ultima carta da
giuocare. Per noi rappresenta l’ulltimo ostacolo da superare.
(…)
Il tiro è scoccato, vedo la palla
ingrandirsi, arrivare… levatevi… è mia…
(…)
Scatto, mi scompongo nella
disperata, rabbiosa, violenta folata e sono sul pallone, arrivo e un ultimo
balzo…arrivano… in tre… anch’essi arrivano… vogliono la palla… la pa…
Ahi!... Mamma mia… le gambe!
Per carità, per carità fate
piano… Ahi!...Sì, è la sinistra… la gamba… sinistra… ahi! Non la toccate… non
toccate il ginocchio… non toccate la caviglia… Signor Paredi… mister Lewis…
dite che facciano piano… ma chi è che mi fa male?... ma chi è che mi tocca?...
In nome di Dio… lasciatemi stare… una barella? E per chi?»
Niente da fare,
ginocchio e caviglia rotti. Fine della carriera professionistica e fine del romanzo.
Il
primo romanzo in lingua italiana sul gioco del calcio
Noventesimo
minuto, si è detto, dà al suo autore certa notorietà, e
fino all’entrata in guerra dell’Italia, fino alla caduta del Fascismo,
Ciampitti sarà impegnato più o meno intensamente con l’editoria. Il diritti del
romanzo vengono ceduti per edizioni in Germania, Olanda, Romania (dove verrà ristampato
fino a tutti gli anni ’40), Polonia, Cecoslovacchia, Spagna, e contatti vengono
presi anche per un edizione nel florido mercato anglosassone. Peccato che non
se ne farà nulla, così come, alla lunga, timida deve essere stata pure la
risposta del mercato italiano, se è vero che è datata giugno 1934 una nota della
«Gazzetta dello Sport» che invita Ciampitti al riacquisto dell’invenduto – 1900
esemplari, per £. 2,00 a copia – nella migliore tradizione, anche ventura, dell’editoria italiana in cui è
l’autore il primo limone da spremere [18].
Negli anni ‘60, con
Ciampitti tornato mansueto nell’alveo della provincia e impegnato in incarichi
di sottogoverno democristiano (sarà presidente dell’Ente Provinciale per il
Turismo di Campobasso)[19],
Novantesimo minuto tornerà a fare
fuoco di paglia per i tipi della Vito Bianco Editore, presentato nelle rare
veline pubblicitarie come “il drammatico
romanzo di un giocatore indeciso”.
[1] Franco Ciampitti, Novantesimo minuto - Romanzo vincitore del primo premio nel concorso
Nazionale bandito dalla F. I. G. C., prefazione di s. E. Massimo Bontempelli,
Milano (La Gazzetta Dello Sport Edit. Tip.) 1932.
[2]«Italia piccola e triste, carica di monumenti
in redingote, nella cui capitale il gioco del calcio, italianissimo, dovevano
essere i primi a giocarlo, con gran fuga di bambinaie e contravvenzioni di
guardie municipali, i seminaristi inglesi, nei prati di Villa Borghese». (Orio Vergani, prefazione a Vita al sole, antologia di racconti di
Emilio De Martino, Milano, 1929).
Emilio De Martino, Milano, 1929).
[3] Marco Sappino (a cura di), Dizionario del calcio italiano, Milano
2000, p. 1669.
[4] Programma
politico futurista (pubblicato su Lacerba,
15 ottobre, 1913).
[5] Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1932, pp.298-303.
[6] Un esempio si
ha in Io povero negro, di Orio Vergani, edito da Treves, Milano,
nel 1927 e che racconta la vera storia di Battling Siki, boxeur senegalese, e
dell’opportunità che gli è offerta di stendere al tappeto il campione del mondo
Georges Charpentier (Rocky Balboa non si è inventato nulla).
[7] Per questo e
per gli altri corsivi senza indicazione di nota che seguono nel testo, vd. Giambattista Faralli, Franco Ciampitti, Isernia 1998, pp. 22 e
ss..
[8] Giuseppe Caroselli, Franco Ciampitti – La memoria, la pagina, Campobasso 1990, p. 76: «Su un cartoncino giallo (…) trovo vergata
dalla sua mano ferma (…) questa bellissima e compiuta definizione del suo lungo
cammino attraverso i sentieri della narrativa: “la vocazione essenziale:
raccontare la gente”»
[9] Giuseppe Caroselli, Op. cit., p. 39.
[10] Giorgio Bocca. Pozzo, Meazza e Piola. L'Italia a misura d'uomo. «La Repubblica», 7
luglio 2006.
[11] Cito il gerarca
toscano di Film d'amore e d'anarchia
ovvero: stamattina alle 10, in via dei Fiori, nella nota casa di tolleranza…
(Lina Wertmuller, 1973) interpretato magistralmente da Eros Pagni: «Bella giornata, perdio: S'è
mangiato, s'è bevuto, s'è riso... S'è ruttato, s'è scopato, scorreggiato... s'è cahato... Occosa vuoi di più, eh? Iè la domenica ideale».
[12] Franco Ciampitti, Con la carovana azzurra a Bologna, «Mezzogiorno Sportivo», gennaio
1933.
[13] Giuseppe Caroselli, Franco Ciampitti – La memoria, la pagina, Campobasso 1990, p. 116.
[14] Giambattista Faralli, Franco Ciampitti, Isernia 1998, p. 55.
[15] C’è nel
prefatore l’aristocratico distacco del letterato verso il giornalista sportivo:
«Ciampitti ha avuto l’audacia d’inquadrare
in una tecnica monolighista alla Schnitzler (“La signorina Elsa”, ma son certo
che non la conosce) (…) quel supremo raggiungimento di sanità e azione e
equilibrio che è lo sport, e specialmente uno sport ultragonistico e collettivo
quale il giouco del calcio».
[16] Una squadra di questo nome c’è stata davvero a Roma negli anni ’20 del Novecento, ma nel romanzo credo stia come nome di fantasia.
[17] Anche in questo
caso, un club milanese chiamato Juventus è esistito davvero,
ma credo che, come per l’antagonista Fortitudo, Ciampitti abbia voluto usare un
nome di fantasia.
[18] Giambattista
Faralli,
Franco Ciampitti, Isernia 1998, p.
48, in nota 18.
[19] Non può tuttavia
tacersi l’ottima prova narrativa de Il
Tratturo, Napoli, 1968 su tematiche completamente diverse, di riscoperta
del primitivo mondo dei pastori transumanti.
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