L’Archivio storico comunale, ospitato presso la
Biblioteca “Michele Romano”, per quanto sia – come le antiche cave di Lampsaco,
Atarneo e Cremaste – miniera conosciuta e già ampiamente sfruttata, offre sempre
la sorpresa di nuove vene aurifere, che si rinvengono appena dietro il
cartoncino increspato di un faldone.
In busta 3, fascicolo 67, c’è un’inedita pagina di
storia cittadina che racconta di un contrasto – tuttavia molto terreno – tra
autorità civili e religiose, consumatosi nell’Universitas isernina del 1790, sotto il regno di Ferdinando IV di
Napoli. Da una parte, i canonici del Capitolo della Cattedrale, arciprete e
primicerio in testa; dall’altra i membri del Consiglio, espressione del
notabilato cittadino. Oggetto di contesa, le taverne della Fiera di San Cosmo.
L’atto di ricorso ha data 24 settembre 1790, appena
prima dell’inizio della fiera intitolata ai Santi medici (26, 27 e 28 settembre).
Dinanzi alla Regia Corte cittadina – che agisce in città come organo della napoletana
Camera della Sommaria – compaiono «gli
attuali governanti di essa Università» per lamentare che «né devono né possono senza taccia di
malgoverno vedere con occhio indifferente» ciò che ritengono un abuso dei
canonici, perpetrato ai danni degli isernini tutti. È successo che, modificando
una consuetudine che si ripete di anno in anno, il Capitolo – da cui dipende
l’amministrazione dell’Eremo dei SS. Cosma e Damiano – ha vietato agli isernini,
in occasione della fiera, «di poter
formare extra moenia taverne amovibili a pubblica comodità del numerosissimo
popolo» che allora, come oggi, nei giorni di festa si riversa verso l’eremo.
Per avere un’idea di cosa siano le taverne oggetto di causa – sull’assunto che poco più di centocinquant’anni
siano lasso di tempo che non scalfisce il costume di un popolo, in assenza di
televisione e altri media – riportiamo ciò che scrive Franco Ciampitti
riferendosi alla sua Fiera, quella degli anni ’40 del Novecento, nella quale
isernini e forestieri «vanno e vengono in
flusso continuo dal paese all’eremo e dall’eremo al paese e affollano le
baracche di frasche dove si mangia e si beve (…) Truculenti trofei di polli e
di agnelli invitano la gente, l’aspro odore di diabolici peperoni giunge alle
nari e sveglia famelici appetiti e dai barili spilla bianco o rosso lo zampillo
del nettare e canestri di uve giungono dai campi ed enormi collane di biscotti
duri pepati s’infrangono sulle tavole»[1].
E anche in questo nuovo millennio, pur se le baracche di frasche hanno ceduto
spazio ai ridondanti porchettari autofurgonati e più rara è la scampagnata, la fiera non appare così dissimile da come
doveva essere a fine Settecento: chi ne ha esperienza sa che anche oggi il
percorso dei pellegrini verso l’eremo è scandito, nel centro storico, da un
continuo di banchi e bancarelle che si protendono, dalle botteghe, sulla strada;
vetrinette e piastre e griglie che compaiono per l’occasione fuori da bar e
alimentari; prezzi per panini pret-a-manger
che scritti a penna su coperchi di scatole di scarpe, istoriati di santini, e
ovunque il tortano, il pane ritorto del pellegrino facile da portare per via,
indossato come un manicotto.
Ma a fine Settecento, l’anatema dei canonici verso
le taverne di frasche significa qualcosa di più che togliere agli isernini il
movente di una scampagnata: i tre giorni di fiera e gli improvvisati stazzi
frascati costituiscono occasione per far quadrare i magri – se non magrissimi –
bilanci domestici di una popolazione che vive essenzialmente di povera agricoltura:
l’arrivo in città di popolo numerosissimo
consente agli isernini di mettere su taverna e vendere, nei tre giorni di
fiera, a paesani e forestieri, il misero street
food loro accessibile, pane e vino e poco di più; non certo l’olio santo o
quegli ex voto di cera tanto celebri
che turbarono nel suo britannico aplomp
sir William Hamilton e la cui vendita doveva rimanere appannaggio dei religiosi.
E infatti, davanti alla Regia Corte, gli ottimati di Isernia dichiarano che il
Capitolo, nel vietare le baracche, non è mosso da motivazioni alte, il rispetto dovuto alla santità
del luogo o un savonaroliano biasimo per pappatorie e sbornie: non si tratta di
scacciare i mercanti dal Tempio, quanto, più banalmente, di difendere i
mercanti autorizzati e imporre il monopolio anche sul cibo di strada. «Quanti scandali e quante ancarie si
commettono (…) quante frodi, quanti furti sotto l’ombra caritatevole
ecclesiastica.»
Ci soccorre, per comprendere meglio gli interessi in
gioco, l’anonimo estensore della celebre “lettera
da Isernia” presentata dal già citato Sir Hamilton al presidente della
Royal Society di Londra e resa pubblica da Richard Payne Knight, cultore di
studi priapici, laddove ci dice – con riferimento all’anno 1780 – che «la Fiera è di 50 baracche a fabbrica ed i
canonici affittano le baracche, alcune 10, altre 15, al più 20 carlini l’una;
affittano ancora per tre giorni l’osteria fatta di fabbrica ducati 20 e i
comestibili sono benedetti»[2].
Il divieto posto dai Canonici e impugnato dagli ottimati isernini riguarda,
pertanto, la difesa dell’osteria fatta di
fabbrica (cioè in muratura), unica autorizzata dal Capitolo alla rivendita
di cibo ai pellegrini, contro le improvvisate baracche di frasche degli
isernini.
A leggere fin qui, il Capitolo parrebbe aver
ragione: in fondo chi erige taverna di frasche è, a stretto rigore, un abusivo rispetto ai fittajuoli. La circostanza viene riconosciuta dagli stessi
ricorrenti: anche in precedenza i canonici ponevano il divieto ai cittadini di
erigere taverne in prossimità della Chiesa: «Negli anni addietro si enunciò che le bettole non si potessero fare nel
circuito della chiesa di San Cosmo, che è di lui (= cioè del Capitolo della
Cattedrale) grancia». Legittimamente,
dunque, il Capitolo può decidere di consentire o vietare attività nel proprio
ambito; ma nel settembre 1790 i religiosi estendono il divieto a tutti i fondi
che si trovano extra moenia, vietando
l’erezione di taverne in ognidove, anche su terreni che pertengono al Demanio o
a «varij padroni».
Si perviene, così, al fondamento giuridico del
ricorso: si eccepisce che il «preteso
diritto proibitivo» esercitato dal Capitolo della Cattedrale è prerogativa
del sovrano e perciò – agendo come agisce – «esso Rev.mo Capitolo vuol porsi superiore alle Leggi ed al Principe
istesso col voler sostenere scandalosamente e illegitimamente un diritto di monopolio (…) Sotto il felicissimo governo del nostro Re
Ferdinando IV (Dio feliciti) tal sorte di diritto sembra inverisimile al solo
sentirsi». A ragione, pertanto, si adisce la competenza dell’organo
periferico della Sommaria, collegio che svolge – tra i tanti suoi compiti –
attività giurisdizionale in tutte le cause che riguardino cause finanziarie e fiscali: il patrimonio personale del
re, l'erario pubblico, la difesa di prerogative regie verso i feudatari o, come
in questo caso, verso altri poteri periferici.
Non ci è dato sapere in che modo il giudice adito risolve
la controversia: l’Archivio storico comunale non conserva copia della sentenza: c’è da comprendere, gli incendi (1799), i
terremoti (1805), i bombardamenti e le mine dell’ultima guerra hanno decimato
il numero dei documenti conservati e ora disponibili per la consultazione; ma,
come si diceva, ancora molto è da estrarre e portare alla luce.
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