Articolo pubblicato su ArcheoMolise n. 30, anno IX,
numero monografico dedicato a Isernia
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Dei Palazzi storici di Isernia
Gabriele Venditti
Tragica cesura nella storia contemporanea della città di Isernia è il devastante terremoto del
26 luglio 1805, che sconvolge abitanti e abitato in misura tale che, può dirsi,
esista un’Isernia precedente e una diversa città dopo di esso: come riporta il
regio ispettore Giannoccoli a Ferdinando IV, che lo ha inviato nel cratere
proprio perché ne riferisca, «Isernia, Maestà, non
è più Isernia, e le fabbriche tutte o son cadute o stanno per cadere al suolo».
Se l’incipit è stato lasciato alla drammatica memoria
del gran tremuoto è perché dei quattro,
più rappresentativi, palazzi storici di Isernia – di cui qui tracceremo un
profilo confidenziale – tutti, per
effetto del sisma, furono o distrutti ed ex
novo riedificati (il Seminario, Palazzo d’Avalos) o seriamente lesionati e,
più o meno celermente, riattatti (Palazzo San Francesco) ovvero costruiti là
dove il terremoto aveva fatto pulizia di precedenti, anonime fabbriche (Palazzo
Jadopi).
Progetto del 1829 «per la riduzione dell' ex convento di S. Francesco [...] in diverse officine di Amministrazioni», arch. D. Rispolimoncada (?) (ASCI, b. 14, f. 368 - rielaborazione dell'originale) |
Palazzo San
Francesco
Palazzo San Francesco, ora sede del Comune, era – al
tempo – un convento francescano. La tradizione cittadina – un esempio nella breve monografia scritta dal
can. Vincenzo Piccoli nella prima metà del XIX sec. – vuole che sia stato lo stesso santo di
Assisi, di passaggio per la città nel 1222, a fondarvi una chiesa intitolata a
Santo Stefano, sulla quale, meno di cinquant'anni dopo, sarebbe stata eretta la
chiesa di San Francesco, con annesso convento (1262 o, al più tardi, 1267). Il
terremoto recò danni ingenti alla struttura: crollata per un terzo (l’ala a
meridione, che dava verso il giardino) e prossima a farlo per i restanti due.
C’è da dire che nessuno, all’epoca, spingeva per una celere ricostruzione:
passato il Regno di Napoli dai Borbone a Gioacchino Murat, anche qui trovò
applicazione il decreto imperiale del 25 aprile
1810 che stabilì la soppressione di tutti gli stabilimenti, corporazioni,
congregazioni, comunità ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura e
denominazione. Così, la proprietà del convento fu tolta, dal 1811,
all’Ordine dei Frati Minori Conventuali, e nel 1812 un tale Giovanni Lemercier
ne ottenne addirittura l’uso gratuito, per cinque anni, per impiantarvi una
conceria. Tornati i Borbone a sedere sul trono, per l’ex convento non ci fu
reintegra ai francescani. Il Concordato stipulato fra
il Regno di Napoli e la S. Sede nel 1818 istituì una Commissione mista amministratrice del patrimonio ecclesiastico regolare,
per occuparsi, appunto, della gestione dei beni sottratti dai miscredenti
francesi alla Chiesa cattolica, e fu con atto rogato dal notaio isernino Filippo Senerchia in data 14 giugno 1823 che
il Comune di Isernia acquisì da detta Commissione, in enfiteusi perpetua, verso
un canone annuo di 60 ducati, «un vasto
locale, con cortile, fontana nel mezzo e giardino attaccato tutto cinto di
muri; consiste esso in corridoi, sottani, mezzani e stanze superiori, porzione
di detto locale alla parte del giardino già crollata, altra porzione verso la
strada nuova è tutta lesionata e prossima a crollare e porzione poi verso la
Città è in mediocre stato […] esso locale è appunto quello che prima era il
convento de’ minori Conventuali di San Francesco di questa città (Archivio
storico comunale di Isernia-ASCI, b. 14, f. 368)». Arriviamo al 1829: un documento
dal titolo “Rischiarimenti relativi alla
perizia del 28 feb. corrente anno per la riduzione dell’ex convento di S.
Francesco, in questa città di Isernia in diverse officine di Amministrazioni”
dà notizia della volontà del nuovo enfiteuta di valorizzare il bene per farne –
diremmo oggi – un centro direzionale:
Municipio, Sottointendenza, Ispettorato di Polizia, Tribunale e Uffici del
dazio. Ma l’ingente somma necessaria allo scopo (6799 ducati) fece arenare il
progetto, che era a firma di quell’architetto Domenico Rispolimoncada, Controloro de’ dazi diretti del Distretto,
già abituato, peraltro, a veder naufragare le sue idee per una nuova città,
come accaduto tre anni prima per la sistemazione di Piazza Mercato, con
pavimentazione a losanghe e fontana centrale a quattro getti. Qualche anno più
tardi, nel febbraio del 1834, l’Intendenza della Provincia di Molise stanzia
fondi per urgenti riparazioni all’ex
convento «ove trovasi casermata la
Gendarmeria Reale», uno squadrone a cavallo (con il Regno d’Italia, ai
Gendarmi si sostituirono i Carabinieri;
a questi, nel 1865, i bimbi dell’Asilo d’Infanzia). Le condizioni di
Palazzo San Francesco, tuttavia, producono continue querele inoltrate dalla Sottointendenza
al Comune: infiltrazioni d’acqua, solai che non reggono. La corrispondenza dura
fino al 1837. Intanto, nel 1835 – come vedremo meglio parlando di Palazzo
d’Avalos – l’Amministrazione comunale decise la vendita del Palazzotto, fino ad allora sede del
municipio. Si ebbe così la necessità di
ricollocare la Casa comunale e si pensò, allora, all’ex convento. Da una nota
datata 1840 si trae notizia, per la prima volta, di lavori necessari a
sistemare l’ex convento per stabilirvi gli uffici dell’Amministrazione
comunale. Sindaco, eletti e decurioni vi si impiantarono due anni più tardi,
nel 1842 (quest’anno, dunque, si compie il 175° anno di Palazzo San Francesco
quale sede del Comune). Insieme con gli uffici municipali, dal Palazzotto si
spostò nell’ex convento anche il Teatro comunale. A
ricordarcelo è Stefano Jadopi nella sua
monografia municipale del 1858: descrivendo la città
nelle sue luci e ombre, dice che nell’«antico soppresso Monistero de’
Conventuali si pensò di costruire un teatro, e se ne ottenne l’autorizzazione
col Real Decreto del 18 Agosto 1835; ma non si diede principio ai lavori prima
del 1839, lavori che rimasero sospesi nel 1845. Fu poscia proseguito nel 1847;
e la decorazione si è alla fine portata a termine a spese particolari
nell’anno 1855.» Quella del teatro comunale di Isernia è storia a
sé, che meriterebbe spazio che qui non abbiamo. Va detto che venne realizzato
(con i tempi e le cesure individuate da Jadopi) nel locale più ampio tra quelli
che si affacciavano sul chiostro dell’antico convento e si sviluppava, in
altezza, fino al tetto. I disegni – del 1855, a firma dell’architetto Luigi de
Cesare – mostrano un tipico teatro con pianta a
ferro di cavallo, platea per ottanta posti e due ordini di palchi (il teatro,
poi Cinema Italia, si conservò fino
alla metà del Novecento). Palazzo S. Francesco ebbe per tutto l’Ottocento
vocazione polifunzionale: sulla
scheda consegnata dal Comune di Isernia all’agente delle Imposte relativa
all’anno 1891 – si era da poco (1889) introdotta l’imposta sui fabbricati e i
Comuni pagavano quanto i comuni
cittadini – si legge che all’epoca il palazzo ospitava «Teatro comunale quasi sempre chiuso, Scuola, magazzino, Casa comunale e
Corte d’Assise».
Atto sovrano di assenso all'alienazione di Palazzo d'Avalos a Ippolito Laurelli, 18 agosto 1835. (ASCI, b. 14, f. 370) |
Palazzo
d’Avalos
Come anticipato, prima del 1835 un teatro
comunale a Isernia c’era già, annesso all’ «antica Casa comunale» in Palazzo d’Avalos, lì da «epoca bastantemente remota»,
come può leggersi in una nota al Sottointendente del distretto di Isernia del
14 agosto 1847. Allorché venne decisa la vendita del Palazzotto a Ippolito Laurelli
per 2100 ducati, con delibera del 3 marzo 1835, l’atto venne recato, via
Intendente provinciale, all’approvazione superiore di re Ferdinando II, che
il 18 agosto 1835 vi appose, sì, la firma, ma «a condizione che si ergesse
altra Casa e più commodo teatro».
Palazzo d’Avalos, Palazzo del Principe
(come si incontra nella pianta a volo d’uccello di Giovan Battista Pacichelli
del 1703 e conservato nell’uso fino a metà Ottocento) o più familiarmente ru Palazzotte, è tra i palazzi più
importanti – se non il più importante – della città. Ci ricorda l’esistenza
dell’effimero titolo di Principe di
Isernia: quando il Viceregno decise di infeudare la fino ad allora fidelissima città regia di Isernia, la
spuntò, nel 1643 Carlo Greco, duca di Montenero; ma tenne Isernia per poco e
appena un anno dopo, cedendo alle pressioni della potente famiglia spagnola, la
città venne ceduta (per 28.000 ducati!) a Diego d’Avalos, figlio secondogenito
di Inigo III e Isabella d’Avalos, V marchesa del Vasto. Avuto il feudo, occorreva
ora un titolo nobiliare adeguato, che Diego chiese alla Corona e subito
ottenne: ecco il Principe di Isernia.
Titolo effimero, poiché fu portato, oltre che da Diego, solo da suo figlio
Cesare Michelangelo e sempre posposto ad altre e più importanti dignità che la
casata ebbe, per finire poi dimenticato nella vicenda successoria che interessò
l’ultimo d’Avalos, e quindi formalmente cancellato con regio Assenso del 6
aprile 1745, con il ritorno della città al Demanio.
Quella attuale, sobriamente neoclassica, è la versione ottocentesca del palazzo, interamente ristrutturato dai Laurelli dopo – lo sappiamo – il terremoto del 1805.
L’originale seicentesco, riferibile ai
d’Avalos, era certamente ad un solo piano. Così viene riportato nella stampa
della città di Giovan Battista Pacichelli che si rinviene in «Il regno di Napoli in prospettiva», del
1703: qui il “palazzo del Principe”, come indicato, ha pianta a “L”, coprendo
due dei tre lati della piazza come l’attuale, ma dopo il piano nobile presenta
già il solaio.
Non si conosce la data di costruzione.
Atti di compravendita stipulati dal principe per acquisire case e terreni su
cui edificare datano dal 1651. Certo è che quando Giovan Vincenzo Ciarlanti
scrive, nel 1644, le sue «Memorie
Historiche del Sannio» non c’è né palazzo, né piazza, dal momento che nella
descrizione della città il primicerio isernino individua nella piazzetta
davanti palazzo San Francesco (l’attuale Piazza Marconi) lo spazio più ampio
aperto, dopo quello della Cattedrale, lungo il decumano cittadino; del resto, nel
1644, era appena stato vergato l’atto di vendita della città tra il duca Greco
e Diego d’Avalos e un palazzo del principe era ancora da venire.
In un anonimo manoscritto che si conserva
nell’Archivio d’Apollonio (presso la Biblioteca Michele Romano), intitolato Ricordo, o sia notizia sugli interessi del
principe della Città d’Isernia, si legge: «D. Cesare d’Avalos, per farsi una abitazione da domiciliarci, si prese
da Cittadini alcune case vicino alla ven. Chiesa della Ss.ma Annunziata di
detta Città e specialmente dalla detta Chiesa due casette […] ed un giardino
contiguo ad essa chiesa, per le quali casette ed orto si obbligò il succitato
marchese corrispondere carlini otto l’anno, come in tutti i libri delle
economie di detta Chiesa si trovano esemplati detti stabili». Non ci
troviamo con le date: don Cesare è principe di Isernia dal 1697. Il Palazzotto
risale probabilmente ad anni prima, edificato da don Diego, con le linee di
solida grazia del palazzo marchesale di Vasto, sede del ramo maggiore del casato.
Prospetto del Seminario vescovile, di Nicola Sabbelli (tratto da Viti, Note di diplomatica ecclesiastica [....], 1972) |
Palazzo
del Seminario
Il sito ospitava una chiesa altomedievale
intitolata a San Paolo, che gemellava, dal lato opposto della torre campanaria
(l’arco di San Pietro). Nel XIV secolo, sui ruderi di questa fu costruita la
casa palazzata dei della Castagna, famiglia appartenente al notabilato
cittadino: ad un Onofrio della Castagna, che aveva militato con valore nel
campo aragonese durante la battaglia di Sessano (28 giugno 1442), re Alfonso
concesse per gratitudine il titolo di barone in perpetuum su Sessano.
Arriviamo al 1704: Mons. Biagio Terzi,
vescovo di Isernia, aveva stabilito di erigere in città un’ulteriore casa
religiosa, questa volta per le Orsoline; essendo scaduto il termine temporale
senza che si fosse stabilito il monastero, gli amministratori del Comune proposero e, verso l’assegnazione di 200 ducati di rendita annua, ottennero, nel
1728, con mons. Giovanni Saverio De Leoni, la fondazione del seminario
diocesano sotto il titolo di San Francesco Saverio (va rilevato che, all’epoca,
Isernia e Venafro erano diocesi separate e autonome; in Venafro esisteva un
seminario diocesano almeno dal 1568). Fu, allo scopo, utilizzato proprio il
palazzo dei signori Castagna, all’epoca, famiglia già estinta. Come altre
fabbriche, anche il seminario venne seriamente danneggiato – si è detto – dal
terremoto del 1805: «[…] l’è
notabilissimamente patito, per cui vi occorrono delle grandissime riparazioni»,
annota Fortini. Nel 1827 si cominciò l’opera di riedificazione nel medesimo
posto per volere del vescovo Gomez-Cardosa e condotto a termine intorno al
1842; di quegli anni è il disegno neoclassico della facciata, che si conserva
nell’attualità, opera dell’architetto Nicola Sabbelli.
Palazzo Jadopi, litografia di Wenzel, 1860 |
Palazzo
Jadopi
Prima che in Regione Molise se ne
decidesse l’acquisto per farne una sede istituzionale in città, iniziando un
malaugurato, infinito restauro che lo ha spogliato del nitido basolato calcareo
della corte interna per arricchirlo, beffardo contraccambio, di un’orrida
corona in cemento armato, Palazzo Jadopi era tra gli edifici più belli e rappresentativi di Isernia; e
dire che rovina e sciagura il palazzo l’aveva già esperite in quell’inizio di
autunno del 1860 allorché, il 4 di ottobre, fu assediato, saccheggiato e dato
alle fiamme dai cafoni del partito borbonico, che dalle sue scale vanvitelliane
fecero rotolare teste di garibaldini in un’orgia di sangue che fu presto
risolta dal martello piemontese, sceso in città dal Macerone, il 20 ottobre
1860. La famiglia Jadopi, fino al tremuoto del 1805, aveva case nel vicolo a
lato della fontana della Fraterna (oggi vico Concezione). Distrutte queste,
dovendo ricostruirsene di nuova, anche per sottolineare la nuova dignità
pubblica cui la famiglia era ascesa, Vincenzo Jadopi, già sindaco di Isernia
scelse un terreno fuori dall’abitato storico, nell’allora periferico borgo di
San Rocco, e avviò l’edificazione del grande palazzo su progetto dell’ingegner
Crescenzio Pirozzi, adornato in gusto neoclassico dall’architetto Orazio
Dentice. Più noto di Vincenzo fu suo figlio Stefano che continuò l’impegno
pubblico, assumendo più volte la carica di sindaco, quella di consigliere
distrettuale e deputato, sia a Napoli, nel 1848, che nel primo parlamento
unitario di Palazzo Carignano a Torino.
Nei giorni neri della Reazione isernina, allorché infiammò l’insorgenza filoborbonica e i pochi liberali venivano presi casa per casa, Stefano era a Napoli; fu suo figlio Francesco a pagare per procura: gli vennero cavati gli occhi nella notte del 30 settembre 1860, e dopo, essere stato rifiutato dal nonno, quel don Gennaro de Lellis campione cittadino del partito lealista, aver passato una notte in agonia al carcere dell’Annunziata e raggiunto finalmente la madre, donna Olimpia de Lellis, morirà nel pomeriggio del 1° di ottobre. Fu così che quando la folla assaltò il palazzo il 4 di ottobre, e saccheggiò corredi e stoviglie, mise fuoco ai libri della vasta biblioteca che lì si conservava pensando contenessero registrazione dei molti crediti vantati verso i concittadini, in casa non c’erano Jadopi, ma poche Giubbe Rosse che lo elessero, loro malgrado, a ultima Alamo. Davanti alle rovine fumanti del palazzo sostò anche Vittorio Emanuele II, giunto in città il 23 di ottobre. A cinque anni da quell’incendio, un livido Stefano Jadopi, ormai cittadino napoletano, si vide recapitare dal sindaco Delfini un’ordinanza di abbattimento per il palazzo che, pericolante, costituiva minaccia per la pubblica incolumità. Ne seguì un duello di carte bollate, molto italiano, che culminò nella relazione dell’ingegnere Luigi De Cesare che stabilì quali parti andassero abbattute, quali conservate. Centocinquant’anni dopo, si è tornati all’inizio: non molto diverso è l’attuale abbozzo da quel combusto scheletro dell’ottobre 1860.
Gli altri palazzi
Nei giorni neri della Reazione isernina, allorché infiammò l’insorgenza filoborbonica e i pochi liberali venivano presi casa per casa, Stefano era a Napoli; fu suo figlio Francesco a pagare per procura: gli vennero cavati gli occhi nella notte del 30 settembre 1860, e dopo, essere stato rifiutato dal nonno, quel don Gennaro de Lellis campione cittadino del partito lealista, aver passato una notte in agonia al carcere dell’Annunziata e raggiunto finalmente la madre, donna Olimpia de Lellis, morirà nel pomeriggio del 1° di ottobre. Fu così che quando la folla assaltò il palazzo il 4 di ottobre, e saccheggiò corredi e stoviglie, mise fuoco ai libri della vasta biblioteca che lì si conservava pensando contenessero registrazione dei molti crediti vantati verso i concittadini, in casa non c’erano Jadopi, ma poche Giubbe Rosse che lo elessero, loro malgrado, a ultima Alamo. Davanti alle rovine fumanti del palazzo sostò anche Vittorio Emanuele II, giunto in città il 23 di ottobre. A cinque anni da quell’incendio, un livido Stefano Jadopi, ormai cittadino napoletano, si vide recapitare dal sindaco Delfini un’ordinanza di abbattimento per il palazzo che, pericolante, costituiva minaccia per la pubblica incolumità. Ne seguì un duello di carte bollate, molto italiano, che culminò nella relazione dell’ingegnere Luigi De Cesare che stabilì quali parti andassero abbattute, quali conservate. Centocinquant’anni dopo, si è tornati all’inizio: non molto diverso è l’attuale abbozzo da quel combusto scheletro dell’ottobre 1860.
Palazzo Jadopi (erroneamente indicato in didascalia come "Iadozzi") incendiato e collassato. Illustrazione ca. 1861, tratta da periodico non noto (Archivio A. e M. Testa) |
Gli altri palazzi
Non possiamo non
menzionare, seppure brevemente, altri palazzi cittadini: fabbriche notevoli,
quasi tutte rinnovate nello stile neoclassico, causa – si è detto – il disastroso
tremuoto del 1805. Lungo Corso Marcelli, di fronte al Palazzo e
alla Chiesa di San Francesco, si incontra nitida la facciata tardo settecentesca
di Palazzo De Lellis-Petrecca,
eretto grazie all’interessamento di re Ferdinando su disegno di Carlo
Vanvitelli, figlio del più noto Luigi, l’architetto olandese della Reggia di
Caserta. Nel 1860 il palazzo divenne sede del direttorio che resse il governo
lealista nei tragici giorni della Reazione isernina (30 settembre – 20
ottobre). Vi abitava il cavaliere Gennaro De Lellis, ricevitore regio per il distretto di
Isernia, legato ai Borbone da una – pur sottile – parentela, per aver fatto
sposare suo figlio Francesco ad una delle tante figlie spurie di re Ferdinando II. Allorché Isernia si solleva contro il
governo garibaldino, viene acclamato dal popolo minuto «come se esso fosse stato un principe reale.» Col tramonto del regno
duosiciliano, mostrando una coerenza non comune tra gli ottimati, don Gennaro, seguirà Francesco II in
esilio a Roma e non farà più ritorno in città. Altro esempio di architettura
neoclassica è Palazzo Mancini-Belfiore,
che si oppone alla Cattedrale. Pur uscendo integro dal bombardamento del 1943,
che devastazione e strage aveva prodotto in tutta l’area circostante, un
progetto degli anni ’50 ne propose l’abbattimento per perseguire una risistemazione
funzionalista dell’area di Piazza Mercato: non se ne fece nulla e il palazzo, con
la sua armoniosa facciata scandita a stucchi (falsi cantonali al primo piano;
lesene doriche al secondo), è ancora tra noi. Di Palazzo Pansini-Clemente è maggiormente importante parlare di ciò
che non si vede: è stato infatti costruito là dove la tradizione pone la casa
del giurista Andrea d’Isernia; gli eredi, l’importante famiglia Rampini, ne
fecero dono alla città, che vi edificò la Chiesa dell’Annunziata e, attiguo, un
ospizio per i poveri che fu poi anche carcere. La Chiesa, già sconsacrata, si
conservò fino al 1896 (si hanno ancora affreschi in un locale commerciale a
piano strada). Nel 1926 si edificò l’attuale fabbrica in stile tardo umbertino.
Chiudiamo questa minima rassegna con uno dei più bei palazzi cittadini, se non
il più bello, Palazzo Pecori-Veneziale,
edificato nel XVII secolo dai marchesi Pecori lungo l’odierna rampa Mazzini,
l’antica Porta di Giove, accesso orientale alla città. Il Palazzo, interamente in pietra, replica le linee
solide dello stile rinascimentale toscano. I Pecori, probabilmente originari
dell'aretino, sono attestati in città nel XVII secolo ma già estinti nell’800.
Bibliografia.
Pasquale Fortini, Delle cause de’ terremoti e loro effetti. Danni di quelli sofferti dalla città d’Isernia fino a quello de’ 26 luglio 1805, a cura di Titina Sardelli, Isernia, Marinelli, 1984;
Pasquale Fortini, Delle cause de’ terremoti e loro effetti. Danni di quelli sofferti dalla città d’Isernia fino a quello de’ 26 luglio 1805, a cura di Titina Sardelli, Isernia, Marinelli, 1984;
Stefano Jadopi, Isernia
- storia edita e inedita della città, a cura di Fernando Cefalogli, Isernia, Iannone, 2009;
Franco Valente, Isernia
- origine e crescita di una città, Campobasso, Enne, 1982;
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