Mille e molti più di Mille (Secc. X - XIII)
«Quando i mille anni saranno compiuti, Satana
verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti
della terra.» (Apocalisse, 20, 7-8)
Intorno al Mille,
Isernia rimane sede vacante per lungo tempo. La cronotassi riapre con il nome
di Gerardo. Qualche altro nome – un vescovo Lucio, benedettino, nell’896 e un
Landolfo, attestato nel 1027 – appaiono nel solo inedito manoscritto di Giovan
Battista Ricci, che è anche la fonte utilizzata dal curatore dell’elenco dato
dal Capitolo per il volume celebrativo edito nel 1968.
Gerardo viene
consacrato nel 1032 da Atenolfo II, arcivescovo metropolita di Capua, come vescovo
di Isernia, ma anche di Venafro e Bojano, oltre che abate del Monastero di S.
Vincenzo. Una tale concentrazione di cattedre tradisce tempi di spopolamento e
crisi demografica, seguita a carestie e incursioni saracene (la distruzione
dell’abbazia di S. Vincenzo per mano dei saraceni è dell’anno 881; i monaci
ritorneranno a insediarsi solo nel 914). Già nel privilegio di papa Stefano IX,
del 1058, la diocesi di Bojano non è più associata a Isernia e Venafro e, per
di più, è indicata come suffraganea dell'arcidiocesi di Benevento, e non di
Capua. Tra Isernia e Venafro, invece, l’unione aeque principaliter (cioè
tra diocesi riconosciute “ugualmente importanti”, dunque conservando ciascuna
cattedrale e capitolo) si conserverà – come vedremo – fino al 1207, allorché papa
Innocenzo III, per porre fine ai dissidi fra i capitoli dei canonici delle due
cattedrali (ruggini tra cipollari e trippaverdi risalgono quindi almeno
al Mille, se non prima), stabilì nuovamente la separazione delle due diocesi.
Dipinto di Meo da Siena raffigurante un vescovo (dal web) |
Gerardo segue Pietro da Ravenna, monaco benedettino
proveniente da Montecassino, consacrato da papa Niccolò II vescovo di Isernia e
Venafro nel 1059 o 1060. Ciarlanti indica nella Città della Cerra il
luogo della consacrazione; Antonio Maria Mattei corregge in Acerra; altra fonte,
più probabile, lo dà proprio in Montecassino: Niccolò II «venne alla Badia
di Monte-Cassino, e pieno l’animo di que’ provvedimenti da prendersi, intese a
vedere se erano tra i Cassinesi monaci acconci ai pastorali uffici, mondi di
costumi, e tali quali erano necessari ad eseguire i canoni del Romano Concilio,
e ne trovò qualcuno. Consagrò vescovo di Aquino Martino da Firenze monaco
Cassinese uomo fornito di prudenza e di santi costumi, scacciando da quella
sede Angelo già scomunicato da papa Leone IX per incontinenza e gitto che
faceva del patrimonio della sua Chiesa; alle Chiese d’Isernia e Venafro prepose
vescovo Pietro da Ravenna altro monaco; ed ordinò diacono cardinale il preposto
o priore del monistero Oderisio figlio di Oderisio conte dei Marsi.» (Luigi
Tosti, Storia della Badia di Monte-Cassino, Napoli, 1842). Il nome di
Pietro vescovo è contenuto nell’atto di donazione con cui Bernardo conte di
Isernia beneficia i benedettini cassinensi del monastero di San Marco di
Carpinone, dallo stesso lì fondato «nel luogo detto Aquasonula», perché vi insisteva una
sorgente; del pari, Pietro si incontra, nel 1080, quale destinatario in un
diploma del metropolita di Capua, arcivescovo Erveo, di assenso alla fondazione
in città del monastero di Santa Maria delle Monache (così il Dizionario
biografico degli italiani, voce Erveo). Ora, la fondazione della
chiesa di S. Maria è senz’altro precedente al 1080: addirittura, una bolla di
papa Giovanni IV († 642) sarebbe prova di una fondazione sotto i longobardi di
Arechi I (594-604), ma è affermazione da assumere col beneficio del dubbio. In
ogni caso, evidenze archeologiche e documentali (la donazione di Godescalco) ne
sostengono l’edificazione intorno all’VIII secolo, che coincide poi con lo
stesso arco temporale indicato per l’edificazione della Cattedrale: i due
massimi edifici religiosi isernini sarebbero pertanto sorti nello stesso periodo).
Va seguito Ciarlanti, che nell’atto di assenso di Erveo (che lo storico scrive Herveo)
vede semplicemente un beneficio accordato al monastero femminile, non un
atto di fondazione. Qualcuno (p.es. d’Apollonio, nel suo catalogo) considera
questo Pietro del 1080 un nuovo e distinto vescovo rispetto a Pietro da
Ravenna. Tuttavia non si hanno sufficienti elementi per confortare tale
affermazione. Nelle cronotassi più accreditate, all’unico Pietro da Ravenna,
segue un Leone vescovo, menzionato
per l’anno 1092: in quella data, col proprio sigillo, approvò il passaggio ai
benedettini di Montecassino della Chiesa di S. Croce di Pesche (Pescla),
offerta da Rodolfo de Moulins (o de’ Molinis, con Ciarlanti, latinizzato
in de Molisio), primo conte normanno che unificò nell’unica contea
eponima (Molise) le preesistenti realtà comitali longobarde (Isernia, Bojano
ecc.).
Pius Bonifacius Gams, Series episcoporum Ecclesiae Catholicae, Leipzig 1931, pp. 939–940 |
Del successivo
pastore isernino, Mauro, sappiamo
fosse vescovo prima del 1105 e fino al 25 ottobre 1126, data della morte; era amalfitano
e già abate di S. Vincenzo al Volturno. Sottoscrisse quale vescovo suffraganeo
un documento del metropolita di Capua, Senne (1098-1118), di ridefinizione dei
confini dell’arcidiocesi campana. Lo troviamo anche come testimone, insieme con
Bernardo vescovo di Bojano, dell’atto di donazione con cui Ugo I, conte di
Molise, beneficiò Oderisio di Montecassino del castello di Viticuso, della
chiesa di San Benedetto a Monteroduni, e di quella di San Pietro a Sesto
Campano.
Incerto il prosieguo:
la cronotassi sedimentata apre dopo Mauro (deceduto per il 1126) una
lunga lacuna fino a Rainaldo (circa
1170). Il catalogo del Capitolo della Cattedrale colma questo spazio con un
Guglielmo di Capua, per l’anno 1126, che avrebbe «messo pace tra la diocesi
di Capua e Montecassino» (così d’Apollonio) prima di essere traslato come
pastore a Caiazzo, nella cui serie dei vescovi, in effetti, negli anni
considerati, si danno un Guglielmo I (1155-1166) e un Guglielmo II (ante 1170-
9 gennaio 1181). Altro problema si apre per Rainaldo: per la cronotassi
pubblicata dal Capitolo, e per d’Apollonio, con questo nome vi sarebbero stati
due distinti pastori: un primo Rainaldo nel 1170; un successivo nel 1179. Anche
qui non si comprende bene su quali elementi fondare la crasi. Semplifichiamo in
un unico Rainaldo, vescovo di Isernia e Venafro (altro Rainaldo verrebbe indicato
come vescovo nel primo ventennio del 1100, ma anche qui, siamo in terra abitata
da leoni). Durante il mandato dell’ultimo Rainaldo, l’acredine tra le due
diocesi aeque principaliter raggiunse il punto di rottura: a nulla servì
avere un unico pastore se i due riottosi greggi tenevano ad mantenersi separati
e a brucare ciascuno la propria erba. Si litigava per tutto: per chi dovesse
benedire l’olio di giovedì santo; dove l’unico vescovo-duplex dovesse
celebrare la festività del patrono, quel San Nicandro che era (o è?) patrono di
entrambe le città. Si litigava pure per i confini interdiocesani e fu così che una
disputa per l’appartenenza di Fossaceca, ora Fontegreca, si arrivò a ottenere
l’intervento del pontefice, nella persona di papa Alessandro III, che concesse
a Rainaldo come vescovo di Venafro privilegi a scapito dello stesso Rainaldo
vescovo di Isernia («a nessuno è lecito temerariamente turbare la diocesi di
Venafro, appropriarsi dei suoi beni …», detto per bolla papale). Fontegreca
venafrana era, evidentemente, boccone amaro e gli isernini non potevano
ingoiarlo facilmente: spinsero così sul medesimo vescovo Rainaldo, perché si
muovesse con Roma per tutelare anche loro, i loro olii e il loro patrono.
L’occasione venne con la partecipazione di Rainaldo al concilio ecumenico del
1179, il Lateranense III. Qui il vescovo conobbe il futuro papa Lucio III e,
una volta indossata al tiara, gli riportò le istanze del Capitolo isernino. Ma
Lucio non si spinse a ribaltare quanto già detto da Alessandro III e ne uscì
fuori con una decisione salomonica: Fossaceca, così come tutti gli altri paesi
delle diocesi indicati in bolla erano sotto il vescovo Rainaldo, che lo fossero
in quanto vescovo di Isernia o di Venafro, poco rilevava (la bolla di Lucio III
è conservata nell’Archivio capitolare in copia del 1625, ne parla diffusamente
Mattei). Ma la salomonica decisione non attenuò livori e recriminazioni.
Dovette interessarsene anche il successore di Rainaldo, quel Gentile che, nato a Aversa intorno al 1150, fu consacrato vescovo delle due riottose
diocesi nel 1192 ma fece presto ritorno nella sua città di origine, andando a reggerne
la chiesa forse già nel 1193, sollevato per non doversi più occupare delle
beghe di campanile. Per vero, la rinuncia a Isernia e Venafro non fu proprio
tranquilla: sono gli anni della transizione del Regno di Sicilia dai normanni
di Guglielmo II d’Altavilla agli svevi di Enrico VI, transizione tutt’altro che
pacifica: in punto di morte Guglielmo, privo di eredi diretti, avrebbe passato
la corona a Costanza, sua zia, (perché sorella di Guglielmo I e figlia di
Ruggero II d’Altavilla) e moglie dell’imperatore svevo. Ma un altro nipote di
Ruggero II, il duca di Lecce Tancredi rivendicò la corona e si fece eleggere
(novembre 1189) Rex Siciliae da
papa Clemente III, che non vedeva favorevolmente un unico monarca dalla
Germania alla Sicilia. Nella lotta che ne seguì, Isernia e Venafro videro gli
eserciti imperiali scesi per sostenere Costanza ed Enrico; Venafro venne conquistata dai cavalieri tedeschi di
Bertoldo di Kunig (1192) e abbandonata al saccheggio. In quell’occasione il
vescovo Gentile che, come il papa, probabilmente sosteneva il partito di Tancredi,
riparò ad Aversa e non fece più ritorno nelle diocesi assegnate, che rimasero
per lungo tempo sede vacante: solo ne 1197 papa Celestino III traslò formalmente
Gentile alla cattedra aversana, liberando la cattedra per Isernia e Venafro
(una nutrita scheda biografica di Gentile, vescovo aversano, è data nel
Dizionario biografico degli Italiani). Intanto, nel 1199, è la volta di Isernia
ad essere saccheggiata e rasa al suolo dall’esercito imperiale guidato da
Marcovaldo di Annweiler, nominato nel 1197 conte di Molise da Enrico VI: ce ne
parla icasticamente Ciarlanti: «Tornò l’empio Marcovaldo con i suoi ladroni
al contado di Molise, e vedendo che co’l suo esercito ritener non potea la
città d’Isernia, la fé crudelmente saccheggiare e spogliare di quanto vi era da
quei malvagi che vi fecero ogni possibile danno». Nessun vescovo fugge,
questa volta: la sede è ancora vacante, e allorché si colmò il vuoto lasciato
da Gentile sulla cattedra di Isernia si
creò nuovo esasperante conflitto. Successe che il Capitolo venafrano si scelse,
in autonomia, quale vescovo un certo R.
(è conosciuto con la sola iniziale) e quando R. fu inviato a Roma per riceverne
la convalida dal papa, Celestino III – che aveva tutt’altri pensieri – sbrigativamente
lo indicò anche quale vescovo di Isernia. Di nuovo un unico vescovo e per di
più scelto dai venafrani. Nuove insistenti richieste a Roma. Tentativi di
mediazione assegnati a questo o quel cardinale o notaio pontificio. Fino ad
arrivare alla decisione tombale di papa Innocenzo III di tenere finalmente separate
le due rissose greggi. È il 1208 e a Isernia, e solo a Isernia, c’è un
nuovo vescovo, Dario.
Il vescovo Dario nel manoscritto inedito di Gio: Vincenzo Ciarlanti |
Dario viene
indicato da Ciarlanti – che trae l’inciso da una scrittura a suo tempo
conservata in Isernia, in Cattedrale o in Santa Maria delle Monache, ma ora
ignota – come «Darius Civis Ep’us Iserniensis»; sarebbe quindi nato ad
Isernia e divenuto vescovo per elezione «…e può essere, perché in que’ tempi si eliggevano i
vescovi dai Capitoli e poi da’ Superiori si confirmavano e consegravano».
Antonio Maria
Mattei, di contro, dà per ignota l’origine del vescovo; riporta, invece, che
certamente la sua nomina a vescovo si ebbe per intercessione di Pietro da
Celano, Conte di Molise, strenuo oppositore di Federico II (e, ça va sans
dire, difensore del Papato contro lo Svevo). Il figlio di Pietro, Rainaldo,
negli stessi anni è arcivescovo metropolita di Capua, e Dario insieme a
Rainaldo partecipò come suffraganeo al Concilio Lateranense IV (1215).
Il manoscritto
inedito di Ciarlanti sui vescovi di Isernia chiarisce oltre la specialità
di Dario vescovo: «In tempo del suo governo nell’anno 1215 fu qui il
felicissimo nascimento del nostro S. Pietro Celestino papa V (…) A suo tempo
ancora venne qui S. Francesco di persona
nell’anno 1222 e vi fondò il luogo detto sotto il nome di S. Stefano con
l’autorità e consenso di detto vescovo». Ora, entrambe le affermazioni
vanno staccate dall’album della Storia per essere considerate sul diverso piano
della tradizione popolare: qui una memoria consolidata, secoli di fede
popolare, possono valere più di una stringa di codice. Non entro nella diatriba
anche un po’ noiosa sul luogo di nascita di Celestino, né sulla bontà della
data indicata da Ciarlanti (il 1215) che non sarebbe compatibile con l’età alla
data di morte. Quanto al viaggio di Francesco e alla sua tappa in città, siamo
lontanissimi dall’aver fonti a conferma. Francesco d’Assisi viaggiò molto; la
tradizione lo vuole in tante parti del Centro Italia, le biografie parlano di
viaggi a Santiago di Compostela e in Egitto, per far pace con l’Islam
(1219-1220). C’è traccia anche di un pellegrinaggio per raggiungere il santuario
di San Michele Arcangelo, a Monte Sant’Angelo, sul Gargano (nel 1216 o,
appunto, 1222). Potrebbe essere stato in questa occasione, che il santo di
Assisi si sia fermato in città. Va da sé che sono tanti i luoghi nei quali si
ha tradizione di una chiesa o convento fondato da Francesco. Per Isernia,
potremmo anche essere davanti ad un calco, creatosi per mimesi rispetto a
notizie di altre fondazioni. Ma anche no.
En passant, tanto per legare avvenimenti
noti al nostro catalogo di pastori, va detto che nel 1223 Federico II, in una
fase acuta della lotta che lo oppone a Tommaso da Celano, conte di Molise, fa
distruggere le mura di Isernia e incendiare parte dell’abitato.
Torniamo a noi: al
vescovo Dario, segue Teodoro,
attestato nel 1230. Mattei, nel suo Isernia, una città ricca di
storia ne dà per il 27 settembre 1230 la data di consacrazione. Appena
nominato, entra in conflitto – per questioni di mensa vescovile – con la
badessa del convento di Santa Maria (delle Monache) che scrive al papa Gregorio
IX.
Nello stesso lasso
di tempo, tuttavia, ci sarebbe stato pure un Teodoro vescovo di Venafro (che
non compare però nella cronotassi di quella diocesi), che paga la sua fedeltà
al papato e contrarietà a Federico nel peggior modo, finendo impiccato in
carcere nel 1236 (lo narra nel suo diario il cardinale Nicolò d’Aragona); un
dubbio: che quel Teodoro pastore di Isernia sia in realtà questo Teodoro
venafrano?
Segue Ugo, vescovo «dal 17 febbraio 1233
al 28 febbraio 1244» (Mattei). È lui che nel 1241 consegna i beni delle
chiese di Isernia allo spoliatore, scomunicato, Federico II.
Item Teodino, attestato
dopo il 1244 è, che contemporaneamente è anche abate benedettino dell’antico
monastero di San Vito della Valle, posto tra Isernia e Macchia (di San Vito,
già nel 1597, era venuta meno la comunità monacale, tanto che l’abazia e i suoi
beni vennero dal vescovo Numai attribuiti al Capitolo della Cattedrale).
Item Giovanni nel 1250 e uno, o
più vescovi, di cui non si riporta alcun nome per gli anni 1255 e 1257. Non
conviene ritenere sia Giovanni questo anonimo del 1522 e/o 1257 perché già nel
1254 c’è un indizio che farebbe propendere per una sede vacante: l’assenza del
vescovo Giovanni, o di altro presbitero, si nota nella pergamena del 19 ottobre
1254, nella quale Ruggero di Celano, figlio di Tommaso, riconferma alla città
di Isernia i privilegi già affermati dai suoi predecessori. Il fatto che, come
testimone dell’atto, anziché il vescovo, sottoscriva l’arciprete della
Cattedrale, Matteo («Domini Mathei, dicte Civitatis Archipresbyteri»),
farebbe – si è detto – sostenere che la diocesi fosse, al tempo, retta dal vicario.
Per il 1258 abbiamo l’anagnino
Nicola (che per d’Apollonio e la
cronotassi data dal Capitolo è indicato come Pietro Nicola Morra; più
semplicemente è Nicolaus per Bologna e Nic[c]olò nella cronotassi di
Ughelli e Cappelletti). Mattei indica in Nicola il vescovo che, nel 1266,
rimette il mandato nelle mani del papa Clemente IV, probabilmente per un suo
sostegno alla causa di Manfredi, sconfitto e ucciso a Benevento; potrebbero
tuttavia essere illazioni. Sepcie se si assume – come fa Michele da Bologna
nelle Constitutiones, che inserisce un vescovo Uberto già nel 1263 (è invece sconosciuto nel catalogo consolidato).
Nei primi giorni
dell’anno 1267, il Capitolo della cattedrale elegge come proprio pastore Enrico da San Germano, francescano
dell’Ordine dei frati minori. Il vescovo eletto viene confermato il 20 febbraio
dello stesso anno con bolla del pontefice Clemente IV inviata a Rodolfo,
cardinale di Albano e legato apostolico presso la corte del Rex Siciliae
che da meno di un anno – si è anticipato: battaglia di Benevento, del 26
febbraio 1266 – è retto da Carlo d’Angiò. Dovrebbe essere con Enrico che si
completa la costruzione della chiesa di San Francesco.
Papa Celestino V (web) |
Enrico, tuttavia, resse
la diocesi per pochi mesi, posto che nello stesso 1267 (10 settembre 1267,
secondo Mattei) abbiamo un nuovo e diverso vescovo, Matteo – forse lo stesso Matteo archipresbyter che troviamo
testimone dell’atto di concessione di Ruggero da Celano – il cui mandato invece
arriva fino al 1281. È con Matteo vescovo che Alferio di Isernia (del
notabilato cittadino, perché magistrato presso la Magna Curia
napoletana), a proprie spese, edifica e dona alle clarisse, il monastero di
Santa Chiara, seconda casa religiosa cittadina dell’Ordine francescano; sempre
Matteo a riconoscere al monastero di S. Spirito, di fondazione celestiniana,
l’esenzione dalla giurisdizione del vescovo, con proprio atto del 4 di
settembre del 1276 (la pergamena, come molte qui citate, è conservata presso
l’Archivio capitolare di Isernia). Poco anni prima, infatti, il 10
ottobre 1272, il giudice isernino
Filippo Benvenuto e sua moglie, donna Glorietta, devolvono a fratello
Placido, procuratore della
chiesa di S.
Spirito della Maiella,
una vigna «infra fines
civitatis Isernie a parte orientis, in loco ubi Pons de Arcu dicitur» perché
vi costruisca una chiesa dedicata allo Spirito Santo. È l’atto di fondazione del convento dei Celestini, poi
portato in città (nel luogo in cui ora rimane, orfana, la sola Chiesa di S.
Pietro Celestino) nel 1623.
Matteo è attestato
fino al 1282. Gli succede Nicolò Valenzano, Nicola II (come da altri indicato, coll’indicazione dell’ordinale,
dopo il vescovo Nicola del 1258). Nicolò Valenzano era canonico del Capitolo
della Cattedrale di Capua, e a Capua muore l’11 aprile 1287 dove si era recato
per proseguire per Roma.
Segue il vescovo Roberto, testimoniato per la prima
volta nel 1287. «Di questo vescovo» - scrive Ciarlanti - «si veggono
in Isernia molte memorie di S. Chiara e della chiesa della Fraternita». È,
infatti, Roberto ad approvare con proprio decreto del 1° ottobre 1289, i
capitoli dell’antica confraternita (la Fraternita, o Fraterna) istituita in
città per volere di S. Pietro Celestino presso la Chiesa della Concezione (en
passant, la confraternita battezza anche la, più nota, Fontana della
Fraterna). Il decreto è conosciuto per effetto di un antigrafo del XVI secolo
conservato nell’Archivio capitolare di Isernia, da qualcuno ritenuto infedele
dell’originale perché contiene un inciso pericoloso per la vexata
quaestio del luogo di nascita di Celestino: là dove dice «… per
interessamento di fra Pietro da Morrone, cittadino di questa città di Isernia»
(nella traduzione pubblicata da Valente in Isernia Origine e Crescita di una
città ). Ritroviamo Roberto anche in una scrittura del 1292 del monastero
di Santa Chiara, allorché concede il suo beneplacito di vescovo alla badessa,
madre Filippa Euricella, per la vendita di un monastero che l’Ordine aveva in
Agnone.