mercoledì 28 luglio 2010

Antologia della Reazione, Parte V. Isernia 22-23 ottobre 1860

Con Cialdini a presidiare la piazza (mercato), Re Vittorio

«...la mattina del 22 [ottobre] partì per Isernia (...) dopo Ponte Zittola il viaggio non ebbe più nulla di quelle esuberanti e liete accoglienze dei giorni innanzi. I primi paesi della provincia di Campobasso erano stati teatri di reazione e di atrocità. Cialdini aveva fatto fucilare parecchi cafoni colti con armi alla mano e ne aveva dato avviso al governatore di Campobasso col neroniano telegramma “faccia pubblicare che fucilo tutt’i paesani armati che piglio, e oggi ho incominciato”.
(...) A Isernia si vedevano ancora i resti della terribile reazione, che insieme a quella di Ariano e Matera rappresentò quanto di più truce e di più iniquo fu potuto compiere in quel periodo di profondo perturbamento politico e sociale.
«Non so come io e Ricciardi, separati dal seguito del re, passammo per Isernia», ricorda il Visconti Venosta; «mi sono ancora presenti agli occhi la piazza, le rovine e gli avanzi dell’incendio; e dietro una cancellata, chiusi come belve, alcuni briganti prigionieri.»
Raffaele de Cesare, La fine di un regno, Milano 1969, p. 962.

Penne contemporanee ai fatti ricostruiscono ad usum delphini, offrendo apologetiche unilaterali in cui le atrocità vanno ascritte ad una sola parte.

«Qui è mestieri far parola delle atrocità commesse dai reazionarii del Borbone, i quali guidati dal Dougles-Scotti erano andati a far nucleo a Castel-Sangro e ad Isernia. Il re di Napoli, l'impiccolito, non potea persuadersi di dover perdere. Tolti dalle galere e dalle prigioni i malfattori aveali spediti colà, e dietro ad essi le sue truppe onde suscitassero il partito per la restaurazione. Che se le dimostrazioni benevole e i danari non bastassero, dovessero usar la forza.
Duro trovarono lo scoglio; laonde in numero di quattrocento diedersi alle rapine. Né ciò solo: attaccarono l'incendio a due casamenta e fecer macello di quanti incontrarono. Che se in mezzo a quella carnificina i garibaldini, i soldati di re Vittorio e la guardia nazionale, non fossero in tempo accorsi, tutta quella popolazione sarebbe rimasta vittima della rabbia reazionaria. Quei ribaldi mandavan le teste di quegl'innocenti a re Francesco in Gaeta, ed egli dava in premio dieci ducati per ciascheduna.
Ma gli sgherri del re di Gaeta inferocirono anche maggiormente in Isernia. Era allora Vittorio Emanuele per via da Sulmona a Castel Sangro. Ad un tratto un uomo con aria di forsennato si presenta al re d' Italia dicendo:
«Maestà! Ucciso è mio fratello dai galeotti del Borbone; due figli m'han presi che a quest'ora giaccion trafitti. Sire! questo é un pugnale ch'io tengo da qualche tempo per ficcarlo in core a Francesco. Spiacemi che ormai mi va fallita questa speranza. Maestà! prendete voi questo acciaro, e voi o Sire, vendicatemi.»
E re Vittorio dette consolanti parole all'infelice, accottò il pugnale per conservarlo con iscrupolo di religione.
Giunti pertanto i regii di Vittorio Emanuele a Isernia trovarono quella città in pianto e squallore; avvegnaché tutti lamentassero la perdita di qualcheduno dei lor più cari. Chi piangeva il padre, chi il figlio chi la fidanzata e chi la sposa, chi il fratello o la sorella, imperocché su quanti i borbonici avean potuto metter le mani altrettanti aveano barbaramennte uccisi. Molte eran le case tuttora in fiamme, molte altre poste a sacco; e quel ch'era ancor più barbaro, vedeansi masserizie di valore, arse o spezzate, per non averle seco loro potute trarre. I borboniani teneano in una Casa sette garibaldini prigionieri. Ebbene, pria della partenza furono tutti tagliati a pezzi!
Ma vuole il lettore udire una crudeltà degna dei tempi di Nerone, o di Procuste? Gli sgherri di Francesco ebbero un capo di liberali nelle lor mani. Lo uccisero: ed ecco come. Gli misero in bocca il morso d'un cavallo, e per le briglie a furia di bastonate lo fecer correre per le vie: e tanti colpi gli menarono addosso che al fine cadde morto per le percosse.»
Antonio Mugnaini, I martiri per l’Indipendenza d’Italia – Storia degli sconvolgimenti italiani dal 1815 all’annessione dell’Italia centrale al Piemonte, corredata di brevi cenni storico-biografici sulla Real Casa di Savoia, Firenze 1862, vol. III, p. 310 e ss.

Il forsennato che offre il pugnale per il regicidio viene da altri visto sulla piazza d’Isernia:

«Da Isernia erano fuggiti all’appressarsi dell’esercito italiano quasi tutti i maggiorenti. Temevano di esser chiamati responsabili degli eccidi e delle ferocie avvenute. Alcuni cercarono rifugio a Gaeta. Il re alloggiò nella casa di Vincenzo Cimorelli. Dalla folla partivano grida di dolore e di vendetta. un uomo smarrito nel volto, quasi frenetico, gridava al re che a lui era stato ucciso un fratello nella reazione; gli erano stati condotti prigionieri a Capua i nipoti; spogliato di tutto non gli rimaneva che quel pugnale e con esso aveva giurato di uccidere Francesco II. E il pugnale consegnava a Vittorio Emanuele perché facesse le sue vendette. Un ufficiale d’ordinanza prese l’arma per acquetare l’infelice. Si ricorda che Vittorio Emanuele rimanesse così fortemente colpito dallo spettacolo d’Isernia che esclamasse: «Se non fosse città italiana l’avrei trattata da re barbaro».
Raffaele de Cesare, La fine di un regno, Milano 1969, p. 963.

Da re barbaro la trattò successivamente, insieme a tutto il Sud oggetto di conquista. Ma questa è altra storia. [O, meglio, storia altra, che non s’incontra sui sussidiari e non si legge dal palco delle celebrazioni.]
A Isernia, re Vittorio dorme una notte, lascia una tabacchiera in ricordo e se ne parte lesto a incontrare Garibaldi. La città è prostrata, non pacificata, soggetta a legge di guerra. I fatti di Isernia hanno dato alla città triste fama: se

«... nel 1799 Isernia si era difesa contro i Francesi con tanto valore, che il di lei nome, al principiar del secolo, andava celebre sulle bocche europee (...) nel 1860 Isernia ebbe a palesare tali abominevoli vergogne, che tutte quante le sue passate glorie ne rimasero spente. Il di lei nome disonorato fe’ il giro d’Europa, e quantunque l’opera nefanda fosse compita da pochi retrivi, pure, l’essere questi fra i primarii della terra, fe’ si, che la colpa si spandesse sulla maggioranza de’ cittadini, che pur non era meritevole di biasimo.»
Cletto Arrighi, I 450 deputati del presente e i deputati dell’avvenire per una società di egregi uomini politici, letterati e giornalisti, Milano 1864, vol. II, p. 33.

A distanza di mesi, i morti rimanevano insepolti:

«In fondo d'Isernia v'era un' altra cosa che doveva attirare l'attenzione di ogni cristiano. Un cimitero, o meglio un recinto da un muricciuolo, in cui stava una fossa ripiena di cadaveri, e la maggior parte erano Garibaldini. Infelici! Non avendo udito il segnale di tromba che li chiamava alla ritirata, furono d’ogni parte sorpresi dai borboni e miseramente uccisi.
Dopo mesi agitava ancora il vento e bagnava la pioggia le insepolte loro ossa, quando alcuni caritatevoli del nostro battaglione gli fecero porre sulla fossa una pietra, ed un altro vi fece scolpir sopra, onde insegnarli ai posteri, le seguenti parole:

AI FIGLI
DEL PADRE GARIBALDI
DELLA MADRE ITALIA
I MILANESI
PACE
1861

Al disopra di tutti i cadaveri vi stava quello di un uomo che doveva essere sul fiore della vita: il costume che vestiva era quello del luogo. Fra tutti, il suo corpo era ancora il men disfatto. Questi, riconosciuto per un abitante di Miranda, paese poco lontano, lo rinvennero morto in prigione e levatolo, in quella fossa assieme agli altri lo calarono.»
Carlo Tedeschi, I Milanesi a Venafro, Milano, Libreria di F. Sanvito, 1861, p. 58

giovedì 1 luglio 2010

Scansafatiche. Gli Isernini agli occhi di un milanese, 1861

Carlo Tedeschi scese in Molise nel gennaio del 1861, intruppato nel contingente milanese della Guardia Nazionale. I nordici pensavano di essere venuti a cementare l'idea d'Italia, recuperando alla nazione una e indivisibile questa parte di Affrica che fu borbonica, con fanfare, parate e cene di gala; presto si chiarì che la loro era una discesa all'inferno, in un paese prostrato e non (ancora) pacificato, retto da leggi di guerra e atterrito da pogrom e esecuzioni sommarie.
«I milanesi a Venafro» - titolo che pare evocare esperienze tipo «La mia prigionia tra i cannibali» di Hans Staden, o «La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara» di Claude Lévi-Strauss - è il diario di quei giorni. La pagina su Isernia si apre con un abusato luogo comune; protoleghista, verrebbe da dire:

«Gli abitanti d'Isernia, di forte complessione e robustissimi, pare che abbiano sortito dalla natura le doti necessarie al lavoro faticoso; ma per loro grave danno non avendo mai saputo come la libertà costi molto sudore, e libertà che sia, non hanno mai voluto quanto dovrebbero assoggettarsi ad un giornaliero e costante lavoro. Ci conforta il pensiero che la colpa maggiore non è loro, ma del governo che ebbero, il quale, a diversità dell'Austria, che spendeva i milioni nel mantenere un'armata onde reprimere gli slanci del regno Lombardo-Veneto, trovava più conveniente senza mantenere truppa, che del resto non Io avrebbe potuto fare senza destar sospetti e malumori, mandarle invece delle granaglie e non dargli maestri: astuzia che l'Austria non potè esercitare presso i Lombardo-Veneti.»
«I milanesi a Venafro - descrizione di Carlo Tedeschi ; con aggiunta di discorso, ordini del giorno e lettere», Milano, Libreria di F. Sanvito, 1861, p. 56.