venerdì 21 gennaio 2011

Del tornare a casa in due cd. Storia di tre codici del '700

Questa è una storia di fortunate coincidenze.
Da un po' (due anni?) mi interesso di San Giacomo del Tempio di Isernia, fantomatica
commenda templare, finita agli Ospitalieri di San Giovanni dopo il 1312 e, va da sé, ai Cavalieri di Malta dopo il 1530. Inutile cercarla nel centro storico: l'antica fabbrica - collocata verosimilmente tra Santa Maria delle Monache e San Francesco - era diruta già prima che il tremuoto del 1805 ne sbriciolasse anche solo il ricordo (di tutto questo, prometto, ne riparleremo).
Più o meno un anno fa, facendo web surfing m'imbatto in
questo sito americano, (Hill Museum and Manuscript Library di Collegeville, Minnesota) dove trovo un prodigioso «electronic finding aid for the archives of the Sovereign Military Order of Malta in Valletta (...)». Do come chiavi di ricerca il mantra della mia ossessione - "Isernia" e "San Giacomo" - e apriti sesamo: trovo che sono almeno tre, nell’Archivio centrale dell’Ordine di Malta (AOM), i documenti riferiti alla commenda isernina di San Giacomo: il primo è un cabreo di 105 fogli del 1636; il secondo è del 1708, intitolato “Miglioramenti della commen­da d’Isernia e Settefrati”; il terzo, stesso titolo, è del 1789.
Mmmh. Ma ora? Ok, esistono: sono a Malta, nella Biblioteca nazionale della Valletta. Bella notizia, e fine delle trasmissioni.
Passano i mesi: "San Giacomo" è solo il titolo di un file di appunti in formato .odt che non apro neanche più. M'interesso di Risorgimento nostrano, adesso. La vita del bibliotecario procede senza brividi. A giugno 2010, Danilo comincia a fare qui alla Michele Romano il suo tirocinio formativo postlaurea. Un giorno di settembre mi dice che ha l'opportunità di andare a Malta a fare uno stage di tre mesi in un qualche museo dell'isola. Mi chiede se può partire, interrompendo il tirocinio. «Se puoi? Vuoi perdere l'occasione di passarti l'inverno a 28°, tra le palme e i fichi d'india, preferendo fare assistenza al prestito coi termosifoni mezzi mezzi? Devi partire». Danilo parte, ma prima mi dice che lo stage è non più al qualche museo ma alla
National Library of Malta. Mi si riaccende una spia nel cervello e via mail gli invio i tre numeri di targa dei codici raminghi (AOM6198, AOM 6158 e AOM6158a).
Stamattina Danilo è tornato con due buone notizie: la prima è che la National Library sta messa peggio della Michele Romano; la seconda, che ha riportato a casa, in due cd maxell, i tre cabrei perduti.
Credo, per il futuro, di riaprire il file battezzato "San Giacomo".
Stay tuned.

martedì 18 gennaio 2011

Grandguignol. La reazione di Isernia agli occhi dei contemporanei

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(«Una scena della reazione di Isernia»,
illustrazione tratta da "Il Mondo Illustrato - Giornale universale", Torino, 1861)

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venerdì 7 gennaio 2011

Isernia, profondo sud

Ne parlò da Fazio qualche tempo (che fa) fa. Giorgio Bocca raccontò di Isernia, della locanda (quale?), delle due prostitute: la donna gatta e la donna cagna. (Il corsivo su profondo sud è mio).


«Ho conosciuto il profondo sud molti anni fa, alla fine degli anni cinquanta, quando lavoravo all' "Europeo". C'era stata una sommossa in una città del Molise di cui sentivo per la prima volta il nome, Isernia: voleva diventare capoluogo di provincia, di una provincia sassosa e povera e il governo di Roma non capiva perché. Neppure io capivo quando ci arrivai su una corriera sgangherata che andava a carbonella, su per una strada in terra battuta verso quella città abbandonata a sé, dimenticata da dio e dalla Provvidenza, che voleva diventare provincia. Un bombardamento a tappeto delle fortezze volanti americane l'aveva distrutta, pare l'avessero scambiata per Montecassino, estrema difesa dei tedeschi, chi è nato con la jella addosso non se ne libera né in pace né in guerra. Sulla vicenda della provincia negata e desiderata, uno dei sogni che fa la gente povera dimenticata fra montagne povere, c'era poco da capire, quelli con cui parlavo negli uffici o per strada vivevano una loro esaltazione che ora ricordo vagamente. Ma ricordo bene lo sgomento di quel primo incontro con il profondo sud, l'unica locanda, i suoi ospiti di rispetto, le due prostitute.

Per entrare nella locanda si scendevano cinque gradini sotto trofei di cipolle e peperoncini e si era nello stanzone del camino e del pranzo, separato dalla cucina da una tenda rossa. La donna gatta con gli occhi grigi nel volto pallido, affilato, stava accucciata al suo posto, vicino al camino non ospite della locanda ma parte della locanda, come le sedie, i tavoli, le tovaglie a scacchi bianchi e blu, i bicchieri di vetro spesso, la tenda rossa sulla porta della cucina, l’odore di grasso e di spezie. Era passato da poco il mezzogiorno e gli ospiti di rispetto erano già ai loro tavoli, un breve saluto e poi ognuno alla sua melanconia: il sostituto procuratore della repubblica che andava e veniva da Napoli, un professore di ginnasio, due tecnici del genio civile, un commesso viaggiatore, il cronista del nord venuto per la rivolta. Lei e noi come la sparuta guarnigione di un forte rimasto in piedi nella rovina. Che lei facesse parte della locanda era chiaro, noi potevamo prendere la caraffa del vino forte e resinato, la minestra di ceci, l’olio, il pane come potevamo servirci di lei, senza parlare, senza chiedere, bastava uno sguardo e lei che conosceva le camere al primo piano saliva leggera ad aspettare come una gatta che non fa rumore, conosce tutto della casa, passa inavvertita fra il gemere di un tavolato, lo scricchiolio di una porta, lo sbattere di un’anta e il soffio gelido del vento che in quell’inverno e in quella rovina mi rabbridiva fin dentro le ossa. Così pallida, così rassegnata, cosa fra le cose di una locanda povera, ma sembrò che le si gonfiasse il pelo, che sprizzassero scintille dai suoi occhi grigi la sera che entrò nella locanda la donna cagna, l’altra prostituta di Isernia, olivastra, non brutta, non vecchia ma ferina, che si era presa come abitazione una delle case semidistrutte un po’ fuori città, senza porte e senza vetri alle finestre, un graticcio di canne come porta, pezzi di lamiera alle finestre e per le fessure si vedeva il braciere al centro della stanza e il pagliericcio posato sulla terra fredda. Ma nelle notti gelide e ventose lei attizzava il fuoco, faceva alzare la fiamma che la vedessero dalla città, quelli che la odiavano e sbeffeggiavano, era sempre lì, non era ancora morta, piaceva ancora ai suoi visitatori notturni. Entrò la donna cagna con un suo mugolio minaccioso, si alzò pallidissima la donna gatta e sembrava le fosse gonfiata la groppa e la coda e noi, gli ospiti di rispetto, capimmo che la donna cagna poteva rivendicare qualcosa dall’oste che sbucò subito dalla cucina, rimandò al suo posto vicino al camino la donna gatta e si portò l’altra dietro la tenda rossa per un piatto di minestra, uscì poi come da una incursione vittoriosa, con uno sguardo di trionfo, ancora viva nella sua vita perduta.
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(Giorgio Bocca, L'Inferno - Profondo sud, male oscuro, Milano 1993, p. 3.)