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Articolo pubblicato su ArcheoMolise n. 28, anno IX,
numero monografico dedicato a Carpinone
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Il 1860 a Carpinone
di Gabriele Venditti
«Pettorano,
Carpinone, Isernia, meritereste che su voi non venisse più né pioggia né
rugiada, fin che durerà la memoria dei nostri, ingannati e messi in caccia e
uccisi pei vostri campi e pei vostri boschi!».
Se dopo l’autunno del 1860 la
pioggia ha continuato – per fortuna – a cadere su Carpinone, lo ha fatto a
dispetto della maledizione scagliata dalla camicia rossa Giuseppe Cesare Abba e
affidata al suo memoriale Da Quarto al
Volturno, edito nel 1891.Fu grazie a
simili sentenze che Carpinone, come altri centri della Reazione, si guadagnò
cattiva fama agli occhi dei regnicoli e si creò a mezzo stampa il mito del cafone – «straccioni,
con sandali di pelle di capra, con feltro a tronco di cono, messi sossopra da un
vescovo per riavere il Borbone e la schiavitù» (Mario) – che uccide a roncolate al grido di Viva Francesco e viva Maria!, nemico
perfetto – come oggi lo jihadista – contro cui riversare l’odio, mastice unificante
della nuova nazione italiana.
Cosa successe di tanto aberrante, qui da
noi, in quell’ottobre del 1860? Esistono momenti in cui la Storia accelera
bruscamente e paesi in cui per decenni non si è registrato nulla di rilevante
vengono scossi dall’immobilità e si condensano in giorni eventi tali da qualificare
un secolo intero, straordinari nel senso letterale del termine. Nel 1860, a
Carpinone come altrove, si combatté una guerra civile che esplose rapida,
bruciò per pochi giorni e lasciò lutti, rancore e miseria – morale e materiale
– ad aggiungersi alla miseria già conosciuta. Pochi pagarono per tutti, con la
morte o con condanne a vita ai lavori forzati. Dopo il diluvio, si tornò presto
all’usuale torpore, al lento scorrere dei giorni.
Con Garibaldi entrato trionfalmente a
Napoli il 7 di settembre 1860 e Francesco II arroccato a Gaeta, le sorti del
Regno delle due Sicilie sono segnate. Anche in periferia è tutto un adeguarsi
al nuovo corso. I liberali di vecchia e nuova data alzano la testa; nelle
province e circondari al di qua del Volturno si mutano insegne e il tricolore del
Governo provvisorio sostituisce i gigli dei Borbone. Ovunque gli ottimati, salvo
le limitate estreme frange di quanti per tempo si sono già apertamente schierati,
rimangono attendisti, ipocritamente aderenti al nuovo, poiché il nuovo avanza, ma pronti a
riabbracciare il vecchio regime. Così, sotto la cenere di una rivoluzione rapida e, apparentemente,
assimilata, cova pronto il fuoco dell’insorgenza legittimista.
C’è un’unica regìa dietro il conflagrare
violento della Reazione, a Carpinone come altrove, nella notte del 30 settembre
1860. La data non è scelta a caso: si è appena prima della grande Battaglia del
Volturno, del 1 di ottobre, che vede per la prima volta l’Esercito duosiciliano
in chiave offensiva contro i garibaldini dell’Esercito meridionale, da troppo tempo
fermi sulla linea del fronte e stanchi
a dover sostenere il peso di una campagna che si trascina da un semestre.
Questa stasi viene impegnata dagli strateghi di Francesco II per apprestare e
tradurre in atto un articolato piano politico-militare che prevede la riorganizzazione
dell’esercito, l’attacco frontale ai garibaldini per riprendere Napoli e – questa
la parte che ci interessa – castigare attraverso l’insorgenza popolare i traditori
che hanno alzato la bandiera del governo provvisorio in Irpinia, nel Sannio, in
Molise e Abruzzo. I torbidi vengono, dunque, sollecitati da Gaeta per distrarre
a Garibaldi uomini e mezzi. Ovunque si appiccano fuochi alle spalle delle
Camicie rosse.
A Carpinone, l’abbrivo, il 30 settembre, segue la voce che truppe
borboniche sono in rapido avvicinamento a Isernia provenienti dalla Terra di
Lavoro. Verso mezzogiorno, giunge in paese una carrozza proveniente da
Maddaloni, dalla quale scendono vari galantuomini,
ospiti del canonico don Giuseppe Iamurri. Per strada rimane il calessiere ed è da lui probabilmente che
Giovanni Tamasi, detto Pasticcio, ha
la notizia dei reggimenti in marcia. Nel pomeriggio, poi, conferme vengono
raccolte da quanti, spaventati, hanno lasciato Isernia e per riparare a
Campobasso. A quel punto «un cupo fremito
di popolo incominciò a serpeggiare per le vie di Carpinone; i liberali
presentivano la procella.» (Valente)
Quella sera, al quartiere della Guardia Nazionale – a la Croce, sotto Palazzo Iamurri – è di
turno il capo sezione Gaetano Fazio, di professione notaio. Con lui, il
secondo, Leonardo Di Giovanni, e pochi altri uomini: molti dei mobilitati,
fiutato il pericolo, non si sono presentati. Entra, con altri sodali, Giovanni
Tamasi – quello stesso del calessiere
– e, con portamento da gradasso, ordina
in nome di Francesco II la mobilitazione generale: tutti devono armarsi per
proclamare e festeggiare il ritorno del re e fare la pelle ai galantuomini – cosa che viene prontamente
eseguita, poiché chi lo segue si impadronisce dei fucili del corpo di guardia. Pasticcio dice a Fazio che il sindaco, Gabriele Valente, lo ha fatto chiamare e
nelle sue mani di contadino ha rimesso la carica; continua dicendo che ha
rinunciato anche il secondo eletto, Gabriele Venditti; che da quel momento ogni
contadino può andare a suo bell’agio
a dividersi la Montagna e la tenuta comunale di Selvapiana. Poi minaccia:
corrono tempi procellosi ed è brutto mondo, in cui ognuno può incorrere in un malanno.
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L'arresto dei briganti (via web) |
Il 30 non muore nessuno: fino qui è tutto limitato a una
carnascialesca, sguaiata festa di piazza. Gli atti processuali, vergati già in
inchiostro sabaudo, parlano di orge
invereconde e di un mastro Pietro Venditti – mastro perché ciabattino – che
in quella sera e nei giorni successivi ne è il cerimoniere, giacché
«innalzato un altare in mezzo a largo Croce, esponeva alla venerazione
quell’effigie, alle quali col turibolo dava l’incenso; ed onde apparisse chiaro
il concetto di quei baccanali, lo stesso cerimoniere erasi provveduto di una
quantità di budella d’agnello, e quelle mostrando diceva: “A canne si
debbono vendere, come queste, le budella dei liberali”. E quasi non bastassero tali eccitamenti vi si aggiungeva la danza, i
ribelli vi si atteggiavano a cannibali accennando a stragi e saccheggi.» (Valente)
Per inciso, mastro Pietro Venditti è l’autore della celebre lettera a Francesco
II in cui, vantando l’uccisione di un tenente garibaldino, chiede al sovrano,
in premio, di aver per sé e progenie la licenza da rivenditore di sale e
tabacchi.
Il giorno successivo, primo di ottobre, i nuovi padroni del paese
prelevano di forza l’arciprete Michelangelo Scioli scortandolo fino in chiesa;
qui gli impongono la recita solenne del Te
Deum per Francesco II; ne segue una processione accompagnata dalla banda,
come fosse il 16 di agosto, San Rocco.
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Pietro Valente p., Il 1860 a Isernia, Pettoranello e Carpinone - Notizie storiche, inedito. Copia in manoscritto di Erminia Testa (1932), Archivio privato Venditti. - Frontespizio |
Le cose cominciano a farsi sul serio solo successivamente: nella notte
tra il 3 e 4 ottobre, arrivata la notizia che, finalmente, Isernia ha visto
l’ingresso della compagnia di gendarmi regi comandata dal maggiore De Liguori,
la Reazione carpinonese dà un nuovo giro di vite: per ordine del noto Giovanni
Tamasi viene fatta
la requisizione di armi nelle case dei galantuomini (vengono disarmati, fra
gli altri, Giovanni De Simone, Emilio Di Blasio, Nicolangelo Sassi, Giacinto
Carnevale, Gabriele Venditti). L’occasione è colta per altro genere di requisizioni – a casa di Gennaro Ciccone, possidente, si involano 2000
ducati e vengono incendiate le carte di famiglia; al notaio De Simone «asportate tutte le carte dello studio, la
intera libreria del valore di ducati 1800, tomoli 60 di grano». Quella
stessa notte, in undici vengono arrestati – «furono strappati dai domestici lari i signori Costanzo Petrunti,
Saverio De Blasio, Saverio Antenucci, Domenico Ciccone, i giovani figli di
Gennaro Ciccone, Vincenzo e Federico, Francesco De Dominicis, Fiorangelo Tamasi
e altri» (Valente) – che, a
piedi, vengono avviati verso le carceri di Isernia, subendo lungo la via
sevizie e minacce di morte. La loro prigionia dura poco: il Governatore di
Molise, Nicola De Luca, giunto in città nella notte del 4 di ottobre con i suoi
ottocento militi, libera tutti i detenuti; quando poi, meno di un giorno dopo, le
truppe borboniche e i cafoni di
Salzillo, da Venafro, riconquisteranno nuovamente la città, si uniranno alla
fuga scomposta dei liberali isernini e dei garibaldini di De Luca, lungo la via
degli Abruzzi, per Rionero e Castel di Sangro; chi rimane attardato, verrà raggiunto
e trucidato: fra questi, i carpinonesi Saverio De Blasio, suo figlio Gaetano e
Francesco Sassi.
In paese, altri liberali, scampati agli arresti 3 ottobre, provano a
sottrarsi con la fuga per i campi, come fa l’ottuagenario canonico don Giuseppe
Guerra, ma dopo giorni passati ad errare di
tugurio in tugurio – quanto gli permettono l’età e la gotta – viene
finalmente preso il 5 di ottobre e avviato in ceppi prima a Isernia, poi a
Gaeta.
Fermiamoci un attimo: conosciamo meglio gli attori di questa commedia
diventata dramma. Richiamiamo in scena quel don Gaetano Fazio che abbiamo
conosciuto come vittima del gradasso Giovanni
Tamasi. Negli atti processuali, così come da Iadopi, viene indicato come la
mente occulta della reazione carpinonese: testimonianze concordanti –
Fiorangelo Tamasi, Gennaro Ciccone – lo indicano, fin dalla metà di settembre, come
sobillatore dei più esposti Giovanni Tamasi e Felice Valente, Zaccaria: è lui a sedurli, a parole e
denaro. Altro grande accusatore di Fazio è quel Giovanni De Simone, pure lui
notaio, che abbiamo già incontrato disarmato e derubato nella notte del 3
ottobre. In una sua querela al Procuratore del Re del 26 gennaio 1861 – tra le altre
nefandezze grandi e piccole che riversa sul collega – lo accusa di aver, nella notte del 4 ottobre,
spedito
«corrieri in Sessano per chiamare in aiuto i saccheggiatori, gli
incendiarii di quel Comune, i quali in effetti accorsero organizzati in bande
armate, con tamburro, ed uniti ai Carpinonesi passarono in Isernia ove consumarono
ogni maniera di misfatto.» (Valente)
Si riferisce ai sanguinosi fatti del 5 di ottobre, quando Isernia, come
già visto, dopo essere stata presa dai garibaldini di De Luca (il giorno 4), fu
nuovamente occupata dai lealisti e si giunse ad episodi di indicibile
efferatezza che videro i carpinonesi in prima fila: Stefano Iadopi, nel
descrivere, da contumace, l’incendio del suo palazzo parla di «teschi umani recisi che erano
rotolati per la strada dai carpinonensi Antonio Fabrizio, Michele Martella La
Vacca, e molti di Pesche». Sempre De Simone denuncia che Fazio
«fuggì da Carpinone quando gli fu scritto dal fratello che la colonna
dei garibaldini, comandata da Nullo, moveva per Carpinone ed Isernia, e il
popolo allorché lo vide fuggire esclamava: “Ci ha eccitati a delinquere ed ora
ci lascia abbandonati e senza capo”.»
(Valente)
Non sappiamo quanto di vero ci
sia nella querela; quanto invece sia gonfiato per gelosia di professione. In
sede processuale, Fazio venne, in ogni caso, prosciolto da ogni accusa e
reintegrato tra gli ottimati, ora tutti riverginati
nella fede sabauda.
Torniamo alla cronaca. Riconquistata Isernia il 5 di ottobre, l’intero
distretto è saldamente in mano ai reazionari. La città in mano borbonica è una
spina nel fianco di Garibaldi: da un punto di vista strategico, è necessario
poter controllare la consolare che scende dall’Abruzzo per il valico del Macerone,
percorso obbligato per i Piemontesi che, in quei giorni, senza dichiarazione
formale di guerra, hanno superato sul Tronto il confine del Regno delle Due
Sicilie e puntano al Volturno per chiudere la partita. Così il dittatore invia oltre
il Matese una colonna di Camicie rosse comandate da Francesco Nullo; pochi, in
realtà, per l’obiettivo prefissato, ma ha la promessa dei liberali locali che
oltre tremila volontari li attendono a Boiano per marciare congiunti su
Isernia. Nullo conosce numero e valore dei regolari borbonici presenti nel
distretto; sottostima, invece, la forza dei cafoni
che s’accompagna all’esercito duosiciliano e spesso ne costituisce
l’avanguardia: quei circa mille uomini organizzati da Teodoro Salzillo che
hanno svolto ruolo determinante già nell’affrontare la Colonna De Luca; per
tacere, poi, dei non numerabili villani anarchici e feroci di Castelpetroso, Carpinone, Pettorano: uomini e donne pronti a
colpire di schioppo come di zappa, abili ad abbattere il nemico in livrea rossa
finanche a pietrate. C’è un’efficace immagine – verosimile più che vera – che
Carlo Alianello dà nel suo celebre La
conquista del Sud: uomini e donne che seguono il crocifisso e mormorando
preghiere scendono da Carpinone; la loro lenta teoria quasi ipnotizza i soldati
di Nullo, così che quando, d’improvviso, si trasformano in orda sanguinaria che,
sguainate le ronche, si abbatte sui garibaldini, li trova fermi nella sopresa, sterminandoli.
La disfatta di Nullo a Pettorano è cosa nota. Meno nota è forse la
sorte dei tanti che, cercando di riconquistare la via per Boiano, cadono nella
notte tra il 17 e 18 ottobre, «vittime di
quei feroci ribelli che non pugnavano, ma da vili uccidevano uomini inermi e
sperduti in luoghi ad essi ignoti». In questa caccia al berrettuccio rosso si
distinguono particolarmente i cafoni di
Carpinone. I garibaldini vengono rastrellati nelle campagne e portati in paese;
qui cambia il mezzo e l’occasione, ma in ventotto vengono barbaramente uccisi. Sette Camicie
rosse, prese a Macchiagodena, viaggiano sotto scorta verso Isernia. Vestono
abiti borghesi e sono disarmati. Giunti a Largo Croce, vengono fermati dai cannibali di Carpinone: «Raffaele Valente, Menestrella, lanciò un colpo di pietra che ferì un
garibaldino alla bocca perché alla domanda chi Viva? Rispose: Viva Garibaldi! Dal mucchio si gridò uccidiamoli, uccidiamoli tutti!» Le
Guardie urbane riescono a sottrarre gli arrestati alla lapidazione. Si
riavviano. Vengono inseguiti e raggiunti nelle vicinanze del cimitero da
Antonio Fabrizio, Socarlo,
Michelangelo Venditti, Totaro,
Leonardo Palladino, Patana, Luigi
Cagna, Zirocco, e uno detto Cialone, e trucidati.
«Sul luogo del misfatto, arrivò ultimo tra i
cafoni Raffaele Mascieri fu Felice, Scelato,
che per sfregio e spavalderia recise due teste ai corpi già resi cadaveri e
sospese pei capelli alle canne dei fucili, come in trionfo, fra gli evviva e
gli schiamazzi dei compagni le portò in paese, a testimoniare il bieco e feroce
delitto. Le teste furono poi gittate nella fossa comune carnaria della Chiesa
della Concezione.» (Valente)
Altri quattro
garibaldini, sbandati, si trovano a percorrere la Chianella:
«Due di essi furono massacrati a colpi di
fucile (tra gli uccisori Gaetano Minchilli, lo
scarpariello); altri due si rifugiarono in casa di Leonardo Antenucci Tribazio che li tenne nascosti sotto un
grosso tino, ove stettero tre giorni. Non potendo più rimanervi, furono
costretti ad uscire e, attraverso il giardino di D. Emilio Petrecca volevano
prendere la via della Fontanella. Scovati da Domenico Martella, Cartuccia, e Maria Malerba, Caibo, raggiunti, a colpi di scure
furono uccisi e poiché coi loro movimenti, nei momenti ultimi dell’agonia,
accennavano ancora ad un fil di vita, la Malerba con un grosso sasso schiacciò
loro la testa. La scure operata era di Michele Tamasi fu Romualdo, Felicella, il quale la portava ancora
intrisa di sangue sul braccio. Visto dall’arciprete Scioli, per spavalderia,
disse che aveva fatto il suo. Ciò gli fruttò 20 anni di lavori forzati, mentre
il Martella e la Malerba, autori dell’uccisione tornarono a casa risalendo la
Maruccia, non furono denunciati e restarono impuniti.» (Valente)
Altri
diciassette – perfido numero – vengono uccisi al Largo della Croce: «I loro corpi, evirati dalle donne,
sanguinanti, maciullati, nudi, furono gettati in una fornace da calce alla
contrada Neviera, a valle della carrozzabile Aquilonia.»
Un’ultima,
inutile orgia di sangue. Due giorni dopo, la rotta dei lealisti sul Macerone.
Vittorio Emanuele entra a Isernia come ora si entra in Aleppo. Il Regno del Sud diventa Italia.
Si è già
detto: per Carpinone, dopo il diluvio, si tornò al torpore, al lento scorrere
dei giorni.
Bibliografia minima.
Anonimo [ma
Stefano Iadopi], La Reazione avvenuta nel
distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861
Alberto Mario, La Camicia Rossa, Torino, 1870.
Giuseppe Cesare Abba ,
Da Quarto al Volturno, Bologna, 1880.