venerdì 21 settembre 2018

La Reazione nel “Museo della Memoria”

Articolo pubblicato su ArcheoMolise n. 32, anno IX, 


La Reazione nel “Museo della Memoria”

Gabriele Venditti





«La memoria non è ciò che ricordiamo, 
ma ciò che ci ricorda
Octavio Paz      

Lo scorso sabato 7 aprile – colmando una lacuna presente nella primo allestimento e confermando, in pieno, il senso di un’istituzione che si presenta quale “Museo della Memoria” di una comunità – è stata finalmente inaugurata la sezione del Museo Civico di Isernia dedicata ai fatti della Reazione borbonica consumatisi nell’autunno tragico del 1860.
Grazie all’intuizione e all’impegno profuso dal direttore del Museo, Duilio Vigliotti, e alla collaborazione dell’Associazione “Scapoli 1943/1944” e della Biblioteca comunale “Michele Romano”, nelle due sale seminterrate che finora hanno ospitato la sezione Celestino V (ora traslata ai piani superiori) è stata allestita un’esposizione permanente con il fine non soltanto di far conoscere quanto accaduto in città in quei giorni di fine estate e inizio autunno del 1860 – ed è funzione fondamentale per fatti che, in gran parte, nella narrazione consolidata del Risorgimento italiano sono stati pudicamente omessi o riportati in forma unilaterale, partigiana, misconoscendone la reale portata – ma anche di far comprendere, per empatia, grazie alla capacità suggestiva e immediatamente evocativa dei materiali in mostra, il clima che allora si respirava in città, al Macerone, a Pettorano, nel confuso Contado di Molise che, provincia del Regno duosiciliano, traumaticamente cambiava colore e ai gigli dei Borbone sostituiva repentinamente lo scudo sabaudo.
Se parlo di lacuna che si è colmata è perché la Reazione connota Isernia più di altri suoi già celebrati accadimenti. In quell’annus horribilis la città, luogo spesso periferico nella geografia della Storia, si è trovata suo malgrado ad esserne – seppure per venti giorni in tutto – il centro. Si è scritto, nell’immediato, che «il di lei nome disonorato fe’ il giro d’Europa», e davvero se ne parlò – magari male – a Londra come a Vienna, e non è accaduto altre volte. È a Isernia che si mostrò quanto difficile a realizzarsi fosse il progetto di Italia e Vittorio Emanuele; è a Pettorano che i garibaldini di Nullo, per disarmante ingenuità e spocchia, prendono la prima sonora sconfitta, per mano, essenzialmente, degli irregolari molisani di Salzillo; è al Macerone che per la prima volta si incrociano le lame dei Piemontesi e dei Napoletani, eserciti con ranghi e divise, battaglia risorgimentale come Pastrengo o Solferino. 


La funzione di introdurre il visitatore ai fatti del 1860 viene affidata al grande pannello che occupa un’intera parete della prima sala e riporta la densa cronologia di quei giorni. Se la Reazione – l’insorgenza popolare che, per paradosso, esplode violenta per la conservazione del vecchio regime, e non contro di esso, per un suo sovvertimento – deflagra e si spegne nell’arco di pochi giorni (30 settembre – 20 ottobre), occorre partire almeno dal maggio di quello stesso anno, dallo sbarco di Garibaldi a Marsala, per avere un quadro chiaro di quegli eventi. Con l’avanzata delle Giubbe rosse lungo lo stivale cresce progressivamente – specie tra le élite borghesi – la scelta di campo per l’opzione unitaria. Comitati spontanei sorgono nelle città del regno: mazziniani e repubblicani alcuni; altri, la maggior parte, per l’annessione all’Italia dei Savoia. Con Francesco II in malinconica clausura a Gaeta, il 7 settembre 1860, Garibaldi entra a Napoli da dittatore. Pochi giorni e, nei territori al di qua del Volturno, che fa da nuovo limes, si instaurano governi insurrezionali guidati dai comitati unitari. Isernia fa subito la sua professione di fede: «Cittadini, Municipio, Clero, Guardia Nazionale e Autorità tutte di Isernia» scrivono al dittatore Garibaldi rendendo «consenziente omaggio per l’annessione al Regno italiano sotto lo scettro di Vittorio Emanuele». Sulla bontà della dichiarazione è lecito dubitare. L’élite cittadina sceglie la via – italianissima – dell’attendismo. Si è al tracollo di un regno secolare, ma qui e là segnali di ripresa vengono avvertiti: e se dovesse ritornare il Borbone? Allora, se è vero che sottoscrivono per Garibaldi, gli ottimati impegnano comunque la seconda metà del mese di settembre a fare intelligenze con la corte di Gaeta, preparando nelle cantine la sollevazione della città.


Isernia, c’è da dire, non è un posto a caso sulla mappa. È uno snodo fondamentale, importante retrovia del fronte garibaldino. Così, far sollevare la città in concomitanza con la grande battaglia sul Volturno (che ci sarà infatti il 1° di ottobre e che vede, per la prima volta da Marsala, l’esercito di Francesco II finalmente mostrare i denti) assume un significato strategico ben preciso e non casuale, come vuole la vulgata. Con Isernia, e il suo circondario, in mano ai lealisti si accendono fuochi alle spalle dei garibaldini, che devono essere spenti: si distraggono così forze che dovrebbero servire altrove.
Tutto questo, però, cova sotto la cenere: fino al 30 di settembre, la città appare tranquilla e convintamente liberale e unitaria: il nuovo corso è stato ben evidenziato  con la nomina a sindaco di Stefano Jadopi, che dal 1848 in poi non ha mai nascosto il suo impegno nella causa unitaria: per uno scherzo del destino, che avrà presto tragici connotati, è genero del cavalier Gennaro De Lellis, che invece è il campione cittadino dell’ortodossia borbonica. Di Stefano Jadopi, del suo rapporto di amore-odio con la città che poi rinnegherà, in un volontario esilio napoletano, il museo civico reca ampie testimonianze: di proprietà della famiglia Jadopi (venne acquistato dall’ultimo erede, negli anni sessanta del ‘900) è la Storia d'Isernia al cadere de' Borboni nel 1860, opera miscellanea che raccoglie i pamphlet di don Stefano – sebbene pubblicati come anonimo; volume prima conservato in biblioteca e ora esposto in teca, aperto sull’elenco dei condannati al processo di Santa Maria Capua Vetere; il lasciapassare a lui accordato per recarsi a Napoli a firma del sottintendente di Isernia, Giacomo Venditti; l’arme di famiglia, vergata a tempera su carta (pure acquistata dall’ultimo erede).


Arriviamo alla notte del 30 settembre; già all’imbrunire, centinaia di cafoni  armati di ronche, falci e pochi fucili, in parte rubati al presidio della Guardia Nazionale, si radunano a Largo Fiera, fuori dall’abitato (la Guardia, sia detto en passant, è la milizia civica istituita nel 1806 da Giuseppe Bonaparte, sull’esempio della Garde nationale della Rivoluzione francese: soppressa nel 1848, era stata ricostituita, in fretta, nel luglio del 1860, e con Garibaldi dittatore riconfermata nel settembre 1860,  seppure purgata dagli elementi più apertamente filoborbonici; in esposizione c’è sia la bella divisa turchina da milite della G.N., con giubba e buffetteria, sia un fucile ad avancarica e innesco a pietra focaia, contemporaneo agli eventi qui narrati). Torniamo ai fatti: l’orda attende un segnale, che arriva col buio dai servi di don Gennaro; come un fiume che abbia rotto gli argini, si riversa in piena lungo lo stretto budello che, ab urbe condita, attraversa Isernia correndo da nord a sud, da capammonde a capabballe, fino al Convento dei Celestini, sede della Sottointendenza, che cinge d’assedio, mettendo in fuga i pochi garibaldini del presidio cittadino, agli ordini del maggiore Ghirelli. Rivolge, quindi, forconi e attenzione verso palazzo De Baggis, che è di fronte, ed è ultimo riparo dei liberali cittadini. Qui i cafoni uccidono Cosmo de Baggis, feriscono a morte il figlio ventenne di don Stefano, Francesco di Paola Jadopi, e credono di uccidere pure quel Ferdinando Boccia, giudice mandamentale, che si salva solo perché ha la prontezza di fingersi morto. Di Francesco Jadopi il museo espone, in pannello, la riproduzione delle lapidi funerarie, una volta collocate nella cappella di famiglia, abbattuta già fatiscente quando l’espansione edilizia della città – per allineare quello che, per ironia, nell’odonomastica cittadina è Corso Risorgimento – ne richiese un nuovo, definitivo sacrificio. C’è pure una poco umoristica vignetta uscita su un giornale dell’epoca durante la celebrazione del processo di Santa Maria Capua Vetere per i fatti della Reazione isernina, in cui si vede uno Stefano Jadopi, agghindato à la Cavour, con barbetta neroniana e pince nez, che chiede in ristoro ai giudici tanto oro quanto pesi il cadavere del figlio, ritratto in aula, sotto un sudario.
L’orribile notte termina coi saccheggi e gli arresti arbitrari di quanti vengono riconosciuti come liberali. Il giorno dopo, 1° di ottobre, a una città che è in piazza, con le armi ancora calde in pugno, fa da contraltare un’altra città, attonita, sgomenta che inizia a nascondersi, a fuggire. Intanto il sinedrio reazionario che si instaura nelle stanza del vescovato comincia a lavorare: occorre inviare dispacci a Gaeta; invitare l’esercito regio a occupare la città, prendere contatti coi lealisti del distretto, perché si armino e si sollevino dovunque; rinominare sindaci e capi urbani. Occorre soprattutto frenare gli animi, già tanto esacerbati, della plebaglia, ché non pensi di potersi muovere in autonomia, senza ossequio a corona e altare, trasformando la Reazione in Terrore anarchico. Finita la festa, insomma, va ristabilito l’ordine.
Ma l’ordine è destinato a durare poco: in poco più di venti giorni, Isernia viene riconquistata e ripersa più volte e come un osso, che via via si consuma, si divide tra due cani ringhiosi. La spedizione garibaldina del neonominato governatore della provincia di Molise, Nicola De Luca, giunge a Isernia la sera del 4 ottobre e aggiunge nuovo sangue a quello già versato. De Luca è avido e come primo, punitivo atto impone – come fosse un Totila o un Genserico che espugni l’assediato – una pesante tassa di guerra. Nella notte, poi, ci si abbandona allegramente al saccheggio delle case dei vinti, quella del cavalier De Lellis per prima. La città, tuttavia, si conserva  libera e liberale per una sola notte: la mattina di venerdì 5 ottobre, da Venafro, ripartono i borbonici del maggiore De Liguori e i molti cafoni del contado, che dopo un nuovo scontro nell’abitato, casa per casa, riprendono Isernia, che conserveranno fino alla Battaglia del Macerone. Chissà se le punte di baionetta esposte ordinatamente nella seconda teca dell’esposizione museale sono proprio quelle usate dalla gendarmeria borbonica alle spalle dei garibaldini di De Luca per spingerli alla disordinata fuga lungo la consolare per gli Abruzzi. Con l’ingresso dei regi in città, riemerge l’anima nera dell’isernino. Si recuperano i ferri, le zappe, le ronche rimaste all’orto solo per un giorno, e si scatena nuovamente la caccia alla camicia rossa. Nuovi (vecchi) padroni e nuovo sangue in città: come nota nel suo memoriale Giuseppe Buttà (pur se legittimista e filoborbonico), «I liberali d’Isernia all’arrivo del governatore de Luca, saccheggiarono le case de’ borbonici, e costoro al giungere di de Liguori, saccheggiarono le case de’ liberali. Di modo che, la disgraziata Isernia, in 24 ore fu saccheggiata ed insanguinata due volte!».  


È in questa occasione che si registra, probabilmente, l’episodio più agghiacciante, quell’osceno sabba che si officia dopo la resa degli ultimi garibaldini in Palazzo Jadopi, con l’incendio, il saccheggio, le teste spiccate di netto che rotolano giù per le scale, finendo in piazza a fare da palla (gioco nel quale eccellono i carpinonesi, come si dirà nelle carte processuali) o inastate come trofei da portare in processione. 
All’alba, Isernia si sveglia nauseata dai postumi di questa nuova ubriacatura. Alle carceri dell’Annunziata si procede al cambio della gurdia: escono gli arrestati del 4 ottobre, entrano gli ultimi libe­rali rastrellati in città. Ma che le cose vadano al peggio è ben rappresentato dal fatto che i topi abbandonino già la nave: De Lellis figlio, nominato da Gaeta nuovo sottointendente tarda ad accettare l’incarico e lascia per cautela la città; anche il vescovo Saladino, da tutti ritenuto il papa nero della Reazione (benché con l’energia di un ottuagenario), mette al sicuro le terga sulla più stabile cattedra di Venafro.    
Fuori città è pure Jadopi, che da Napoli richiama l’attenzione di Garibaldi sulla odiata citta natale. Per suo interessamento, e per quello del bojanese Pallotta che millanta un contributo di tremila volontari, si fa muovere oltre il Matese una colonna armata, con l’intento di riprendere Isernia. A guidarla, un garibaldino della prima ora, il colonnello Francesco Nullo. A Bojano, però, dei tremila uomini promessi ne trova meno di cinquanta. Maggiore prudenza suggerirebbe di lasciar perdere, aspettare i Piemontesi in rapida discesa lungo Marche e Abruzzi. Ma gli oltre mille garibaldini di cui complessivamente dispone vengono ritenuti da Nullo un numero comunque sufficiente a tentare l’impresa, e così la Colonna, il 16 ottobre, si mette in movimento. È un suicidio: hanno di fronte le tremila baionette dei regolari al comando del generale Luigi Scotti Douglas, conte di Vigoleno; ma quella che Nullo sottostima davvero è la forza e ferocia del migliaio di partigiani di Teodoro Salzillo che s’accompagnano all’esercito regolare duosiciliano. Salzillo, sia detto en passant, è personaggio da romanzo, tuttavia misconosciuto: primula rossa della Reazione, metà Pancho Villa e metà James Bond, è ubiquo nell’estate del 1860, sostenendo la causa lealista ovunque serva. Lo troviamo a fare da corriere per Gaeta; battersi contro le giubbe rosse alle pendici del Matese campano; tramare a Isernia facendo doppiogioco, e poi scoprirsi guidando in campo aperto i suoi irregolari contro la Colonna De Luca; determinante a Pettorano contro Nullo, meno sul Macerone, contro i bersaglieri. Eppure, di Salzillo e dei suoi nella storia ufficiale non c’è menzione (nel catalogo della mostra “Molise 1860 - I giorni dell'unità”, Salzillo, che pure è autore di una decina di monografie, viene indicato come “un contadino di Pozzilli”). È il destino degli sconfitti, certo; ma la damnatio memoriae nei confronti dei vinti del Risorgimento ha operato probabilmente con maggiore energia e più difficile si mostra l’impresa di recuperare memoria.
Così, il 17 di ottobre, nella piana di Pettoranello, la gendarmeria borbonica e la fucileria dei cafoni di Salzillo chiudono a tenaglia gli smarriti garibaldini della Colonna Nullo, ed è strage, durante e dopo la battaglia: a notte la campagna si riempie degli sbandati, che prendono a vagare senza direzione e, quando presi, subiscono sevizie e morte per decapitazione. Tra gli sbandati, c’è anche Domizio Tagliaferri, la cui camicia rossa – donata alla Biblioteca “Michele Romano” dalla famiglia Lemme – fa ora miglior mostra di sé nella prima teca, insieme con la berretta garibaldina e una sciabola da ufficiale. Domizio, farmacista di Matrice, era sottotenente del 1° Btg. Cacciatori Irpini, inquadrato nella Brigata Carbonelli al seguito di Nullo (ce lo dice la lettera d’ingaggio, in originale, pure in mostra); ci ha lasciato un memoriale, La spedizione di Isernia, dai toni molto critici verso lo stato maggiore garibaldino, attribuendo ogni responsabilità al comando di Nullo, che inavvedutamente derogò agli ordini ricevuti, ed espose i rossi a quella «tremenda carneficina, che la storia stigmatizza con parole di fuoco, e da cui pochi soltanto, ed a mala pena» scamparono.  

  

Vittoria inutile, tuttavia, quella riportata a Pettorano. A Isernia non si festeggia: la città è intristita e contempla le sue macerie, non solo materiali. S’inizia a realizzare l’ineluttabilità di un destino deciso altrove, che porterà gli isernini ad essere presto sudditi di un diverso re. Vittorio Emanuele sta scendendo col suo esercito a prendersi il Sud. Il 20 ottobre 1860, nella nebbia del Macerone, l’avanguardia piemontese ha facile ragione delle poco motivate forze borboniche, guidate dall’ottuagenario Scotti Douglas. C’è la resa. La cavalleria sabauda entra al galoppo in città: sono gli uomini del 1° Squadrone di cavalleria, i Lancieri di Novara, che a Isernia si guadagnano una medaglia di bronzo al valor militare per la carica che taglia la fuga ai napoletani, infilandoli in una sacca. Loro è la mantella di panno grigioverde, l’elmo da dragone, e  la sciabola a guardia aperta e pomolo a testa d’aquila che sono esposti nella lunga vetrina al centro della prima sala.
Cialdini – che pure darà il meglio di sé da qui a qualche mese, da plenipotenziario nella lotta al brigantaggio – si conforma al clima plumbeo che grava sulla città, imponendo la legge di guerra. Appena insediatosi, la sera del 20, telegrafa al governatore De Luca e dice: «Faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e do quartiere soltanto alle truppe. Oggi ho già incominciato»; e non millanta: davanti al plotone di esecuzione cadono in giornata i primi dieci paesani scelti tra quelli che al Macerone gli hanno contrastato il passo (il proclama di Cialdini è a parete, tra i reperti in esposizione).
Nessun plebiscito si inscena a Isernia per il 21 di ottobre: l’adesione al nuovo Regno viene data per scontata. Re Vittorio verrà in città di lì a due giorni. Dorme una notte sola, in casa di don Vincenzo Cimorelli, prima reazionario e ora campione cittadino di quel trasformismo nuova moda nazionale. Nel suo entourage annotano che Vittorio Emanuele rimanga così fortemente colpito dalla città da esclamare: «Se non fosse città italiana l’avrei trattata da re barbaro».
Ne seguì un difficile ingresso in Italia. Il grande processo di Santa Maria Capua Vetere condannò i manovali della Reazione salvandone i mastri: le elité andavano in ogni caso salvate, occorrevano a costituire l’ossatura della nuova, fragile nazione. A scorrere i nomi dei condannati – nel lungo elenco presente nel liblro di Jadopi, si è detto – si incontrano gli stessi soprannomi che ancora adesso marcano le famiglie che isernine lo sono da generazioni (a testimoniare che, in fondo, centocinquant’anni sono pochi davvero). A Isernia, a distanza di mesi, i morti rimangono insepolti, e non è affermazione metaforica: Carlo Tedeschi, volontario della Guardia Nazionale di Milano, inviata nel Sud con funzioni di controllo del territorio, raccoglie questa immagine della città nel febbraio del 1861: «In fondo d’Isernia v’era un’altra cosa che doveva attirare l’attenzione di ogni cristiano. Un cimitero, o meglio un recinto da un muricciuolo, in cui stava una fossa ripiena di cadaveri (…) Al disopra di tutti i cadaveri vi stava quello di un uomo che doveva essere sul fiore della vita: il costume che vestiva era quello del luogo. Fra tutti, il suo corpo era ancora il men disfatto».



Bibliografia.
Anonimo [ma Stefano Jadopi] La reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli, 1861;
Anonimo [ma Stefano Jadopi] Risposte ai fatti narrati da V.M. Briamonte e F. Marulli sulla reazione avvenuta in Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Torino, 1862
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste, 1868
Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta: memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, Napoli, 1892/1893
Domizio Tagliaferri, La spedizione di Isernia, in “La Lega del Bene”, n. 28, giugno 1890
Carlo Tedeschi, I Milanesi a Venafro, Milano 1861
Gabriele Venditti, Isernia al cadere de' Borboni : fatti di rivoluzione e reazione nell'autunno 1860,  2011