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La Reazione nel “Museo della Memoria”
Gabriele
Venditti
«La memoria non
è ciò che ricordiamo,
ma ciò che ci ricorda.»
Octavio Paz
Lo
scorso sabato 7 aprile – colmando una lacuna presente nella primo allestimento
e confermando, in pieno, il senso di un’istituzione che si presenta quale
“Museo della Memoria” di una comunità – è stata finalmente inaugurata la
sezione del Museo Civico di Isernia dedicata ai fatti della Reazione borbonica consumatisi nell’autunno tragico del 1860.
Grazie
all’intuizione e all’impegno profuso dal direttore del Museo, Duilio Vigliotti,
e alla collaborazione dell’Associazione “Scapoli 1943/1944” e della Biblioteca
comunale “Michele Romano”, nelle due sale seminterrate che finora hanno
ospitato la sezione Celestino V (ora
traslata ai piani superiori) è stata allestita un’esposizione permanente con il
fine non soltanto di far conoscere quanto accaduto in città in quei giorni di
fine estate e inizio autunno del 1860 – ed è funzione fondamentale per fatti
che, in gran parte, nella narrazione consolidata del Risorgimento italiano sono
stati pudicamente omessi o riportati
in forma unilaterale, partigiana, misconoscendone la reale portata – ma anche
di far comprendere, per empatia, grazie alla capacità suggestiva e
immediatamente evocativa dei materiali in mostra, il clima che allora si
respirava in città, al Macerone, a Pettorano, nel confuso Contado di Molise che, provincia del Regno duosiciliano,
traumaticamente cambiava colore e ai gigli dei Borbone sostituiva
repentinamente lo scudo sabaudo.
Se
parlo di lacuna che si è colmata è perché la Reazione connota Isernia più di altri suoi già celebrati
accadimenti. In quell’annus horribilis la
città, luogo spesso periferico nella geografia della Storia, si è trovata suo
malgrado ad esserne – seppure per venti giorni in tutto – il centro. Si è
scritto, nell’immediato, che «il di lei
nome disonorato fe’ il giro d’Europa», e davvero se ne parlò – magari male
– a Londra come a Vienna, e non è accaduto altre volte. È a Isernia che si
mostrò quanto difficile a realizzarsi fosse il progetto di Italia e Vittorio Emanuele; è a Pettorano che i garibaldini di
Nullo, per disarmante ingenuità e spocchia, prendono la prima sonora sconfitta,
per mano, essenzialmente, degli irregolari molisani di Salzillo; è al Macerone
che per la prima volta si incrociano le lame dei Piemontesi e dei Napoletani,
eserciti con ranghi e divise, battaglia risorgimentale come Pastrengo o
Solferino.
La
funzione di introdurre il visitatore ai fatti del 1860 viene affidata al grande
pannello che occupa un’intera parete della prima sala e riporta la densa
cronologia di quei giorni. Se la Reazione
– l’insorgenza popolare che, per paradosso, esplode violenta per la
conservazione del vecchio regime, e non contro di esso, per un suo
sovvertimento – deflagra e si spegne nell’arco di pochi giorni (30 settembre –
20 ottobre), occorre partire almeno dal maggio di quello stesso anno, dallo
sbarco di Garibaldi a Marsala, per avere un quadro chiaro di quegli eventi. Con
l’avanzata delle Giubbe rosse lungo
lo stivale cresce progressivamente – specie tra le élite borghesi – la scelta
di campo per l’opzione unitaria. Comitati spontanei sorgono nelle città del
regno: mazziniani e repubblicani alcuni; altri, la maggior parte, per
l’annessione all’Italia dei Savoia.
Con Francesco II in malinconica clausura a Gaeta, il 7 settembre 1860,
Garibaldi entra a Napoli da dittatore. Pochi giorni e, nei territori al di qua
del Volturno, che fa da nuovo limes,
si instaurano governi insurrezionali guidati dai comitati unitari. Isernia fa
subito la sua professione di fede: «Cittadini,
Municipio, Clero, Guardia Nazionale e Autorità tutte di Isernia» scrivono
al dittatore Garibaldi rendendo «consenziente
omaggio per l’annessione al Regno italiano sotto lo scettro di Vittorio
Emanuele». Sulla bontà della dichiarazione è lecito dubitare. L’élite cittadina sceglie la via – italianissima – dell’attendismo. Si è
al tracollo di un regno secolare, ma qui e là segnali di ripresa vengono
avvertiti: e se dovesse ritornare il Borbone? Allora, se è vero che
sottoscrivono per Garibaldi, gli ottimati impegnano comunque la seconda metà
del mese di settembre a fare intelligenze con la corte di Gaeta, preparando nelle
cantine la sollevazione della città.
Isernia,
c’è da dire, non è un posto a caso sulla mappa. È uno snodo fondamentale,
importante retrovia del fronte garibaldino. Così, far sollevare la città in
concomitanza con la grande battaglia sul Volturno (che ci sarà infatti il 1° di
ottobre e che vede, per la prima volta da Marsala, l’esercito di Francesco II
finalmente mostrare i denti) assume un significato strategico ben preciso e non
casuale, come vuole la vulgata. Con Isernia, e il suo circondario, in mano ai
lealisti si accendono fuochi alle spalle dei garibaldini, che devono essere
spenti: si distraggono così forze che dovrebbero servire altrove.
Tutto questo, però, cova sotto la cenere: fino
al 30 di settembre, la città appare tranquilla e convintamente liberale e
unitaria: il nuovo corso è stato ben evidenziato con la nomina a sindaco di Stefano Jadopi,
che dal 1848 in poi non ha mai nascosto il suo impegno nella causa unitaria:
per uno scherzo del destino, che avrà presto tragici connotati, è genero del
cavalier Gennaro De Lellis, che invece è il campione cittadino dell’ortodossia
borbonica. Di Stefano Jadopi, del suo rapporto di amore-odio con la città che
poi rinnegherà, in un volontario esilio napoletano, il museo civico reca ampie
testimonianze: di proprietà della famiglia Jadopi (venne acquistato dall’ultimo
erede, negli anni sessanta del ‘900) è la Storia
d'Isernia al cadere de' Borboni nel 1860, opera miscellanea che raccoglie i
pamphlet di don Stefano – sebbene pubblicati come anonimo; volume prima
conservato in biblioteca e ora esposto in teca, aperto sull’elenco dei
condannati al processo di Santa Maria Capua Vetere; il lasciapassare a lui
accordato per recarsi a Napoli a firma del sottintendente di Isernia, Giacomo
Venditti; l’arme di famiglia, vergata a tempera su carta (pure acquistata
dall’ultimo erede).
Arriviamo alla notte del 30 settembre; già
all’imbrunire, centinaia di cafoni armati
di ronche, falci e pochi fucili, in parte rubati al presidio della Guardia
Nazionale, si radunano a Largo Fiera, fuori dall’abitato (la Guardia, sia detto en passant, è la milizia civica istituita nel 1806 da Giuseppe
Bonaparte, sull’esempio della Garde
nationale della Rivoluzione francese: soppressa nel 1848, era stata
ricostituita, in fretta, nel luglio del 1860, e con Garibaldi dittatore
riconfermata nel settembre 1860, seppure
purgata dagli elementi più apertamente filoborbonici; in esposizione c’è sia la
bella divisa turchina da milite della G.N., con giubba e buffetteria, sia un
fucile ad avancarica e innesco a pietra focaia, contemporaneo agli eventi qui
narrati). Torniamo ai fatti: l’orda
attende un segnale, che arriva col buio dai servi di don Gennaro; come un fiume
che abbia rotto gli argini, si riversa
in piena lungo lo stretto budello che, ab
urbe condita, attraversa Isernia correndo da nord a sud, da capammonde a capabballe, fino al
Convento dei Celestini, sede della Sottointendenza, che cinge d’assedio,
mettendo in fuga i pochi garibaldini del presidio cittadino, agli ordini del maggiore
Ghirelli. Rivolge, quindi, forconi e attenzione verso palazzo De Baggis, che è
di fronte, ed è ultimo riparo dei liberali cittadini. Qui i cafoni uccidono Cosmo de Baggis,
feriscono a morte il figlio ventenne di don Stefano, Francesco di Paola Jadopi,
e credono di uccidere pure quel Ferdinando Boccia, giudice mandamentale, che si
salva solo perché ha la prontezza di fingersi morto. Di Francesco Jadopi il
museo espone, in pannello, la riproduzione delle lapidi funerarie, una volta
collocate nella cappella di famiglia, abbattuta già fatiscente quando
l’espansione edilizia della città – per allineare quello che, per ironia,
nell’odonomastica cittadina è Corso Risorgimento – ne richiese un nuovo,
definitivo sacrificio. C’è pure una poco umoristica vignetta uscita su un
giornale dell’epoca durante la celebrazione del processo di Santa Maria Capua
Vetere per i fatti della Reazione isernina, in cui si vede uno Stefano Jadopi,
agghindato à la Cavour, con barbetta
neroniana e pince nez, che chiede in
ristoro ai giudici tanto oro quanto pesi il cadavere del figlio, ritratto in
aula, sotto un sudario.
L’orribile
notte termina coi saccheggi e gli arresti arbitrari di quanti vengono
riconosciuti come liberali. Il giorno dopo, 1° di ottobre, a una città che è in
piazza, con le armi ancora calde in pugno, fa da contraltare un’altra città,
attonita, sgomenta che inizia a nascondersi, a fuggire. Intanto il sinedrio reazionario che si instaura
nelle stanza del vescovato comincia a lavorare: occorre inviare dispacci a
Gaeta; invitare l’esercito regio a occupare la città, prendere contatti coi
lealisti del distretto, perché si armino e si sollevino dovunque; rinominare
sindaci e capi urbani. Occorre soprattutto frenare gli animi, già tanto
esacerbati, della plebaglia, ché non
pensi di potersi muovere in autonomia, senza ossequio a corona e altare,
trasformando la Reazione in Terrore anarchico. Finita la festa, insomma, va ristabilito l’ordine.
Ma
l’ordine è destinato a durare poco: in poco più di venti giorni, Isernia viene
riconquistata e ripersa più volte e come un osso, che via via si consuma, si
divide tra due cani ringhiosi. La spedizione garibaldina del neonominato
governatore della provincia di Molise, Nicola De Luca, giunge a Isernia la sera
del 4 ottobre e aggiunge nuovo sangue a quello già versato. De Luca è avido e
come primo, punitivo atto impone – come fosse un Totila o un Genserico che
espugni l’assediato – una pesante tassa di guerra. Nella notte, poi, ci si
abbandona allegramente al saccheggio delle case dei vinti, quella del cavalier
De Lellis per prima. La città, tuttavia, si conserva libera
e liberale per una sola notte: la mattina di venerdì 5 ottobre, da Venafro,
ripartono i borbonici del maggiore De Liguori e i molti cafoni del contado, che dopo un nuovo scontro nell’abitato, casa
per casa, riprendono Isernia, che conserveranno fino alla Battaglia del
Macerone. Chissà se le punte di baionetta esposte ordinatamente nella seconda
teca dell’esposizione museale sono proprio quelle usate dalla gendarmeria
borbonica alle spalle dei garibaldini di De Luca per spingerli alla disordinata
fuga lungo la consolare per gli Abruzzi. Con l’ingresso dei regi in città, riemerge
l’anima nera dell’isernino. Si recuperano i ferri, le zappe, le ronche rimaste
all’orto solo per un giorno, e si scatena nuovamente la caccia alla camicia
rossa. Nuovi (vecchi) padroni e nuovo
sangue in città: come nota nel suo memoriale Giuseppe Buttà (pur se legittimista
e filoborbonico), «I liberali d’Isernia
all’arrivo del governatore de Luca, saccheggiarono le case de’ borbonici, e
costoro al giungere di de Liguori, saccheggiarono le case de’ liberali. Di modo
che, la disgraziata Isernia, in 24 ore fu saccheggiata ed insanguinata due
volte!».
È
in questa occasione che si registra, probabilmente, l’episodio più
agghiacciante, quell’osceno sabba che si officia dopo la resa degli ultimi
garibaldini in Palazzo Jadopi, con l’incendio, il saccheggio, le teste spiccate
di netto che rotolano giù per le scale, finendo in piazza a fare da palla
(gioco nel quale eccellono i carpinonesi, come si dirà nelle carte processuali)
o inastate come trofei da portare in processione.
All’alba,
Isernia si sveglia nauseata dai postumi di questa nuova ubriacatura. Alle carceri
dell’Annunziata si procede al cambio della gurdia: escono gli arrestati del 4
ottobre, entrano gli ultimi liberali
rastrellati in città. Ma che le cose vadano al peggio è ben rappresentato dal
fatto che i topi abbandonino già la
nave: De Lellis figlio, nominato da Gaeta nuovo sottointendente tarda ad accettare
l’incarico e lascia per cautela la città; anche il vescovo Saladino, da tutti
ritenuto il papa nero della Reazione (benché con l’energia di un ottuagenario),
mette al sicuro le terga sulla più stabile cattedra di Venafro.
Fuori
città è pure Jadopi, che da Napoli richiama l’attenzione di Garibaldi sulla
odiata citta natale. Per suo interessamento, e per quello del bojanese Pallotta
che millanta un contributo di tremila volontari, si fa muovere oltre il Matese
una colonna armata, con l’intento di riprendere Isernia. A guidarla, un
garibaldino della prima ora, il colonnello Francesco Nullo. A Bojano, però, dei
tremila uomini promessi ne trova meno di cinquanta. Maggiore prudenza
suggerirebbe di lasciar perdere, aspettare i Piemontesi in rapida discesa lungo
Marche e Abruzzi. Ma gli oltre mille garibaldini di cui complessivamente dispone
vengono ritenuti da Nullo un numero comunque sufficiente a tentare l’impresa, e
così la Colonna, il 16 ottobre, si
mette in movimento. È un suicidio: hanno di fronte le tremila baionette dei
regolari al comando del generale Luigi Scotti Douglas, conte di Vigoleno; ma quella che Nullo sottostima davvero è la forza e ferocia del
migliaio di partigiani di Teodoro
Salzillo che s’accompagnano all’esercito regolare duosiciliano. Salzillo, sia detto en passant, è personaggio da romanzo, tuttavia misconosciuto:
primula rossa della Reazione, metà
Pancho Villa e metà James Bond, è ubiquo nell’estate del 1860, sostenendo la
causa lealista ovunque serva. Lo troviamo a fare da corriere per Gaeta;
battersi contro le giubbe rosse alle pendici del Matese campano; tramare a
Isernia facendo doppiogioco, e poi scoprirsi guidando in campo aperto i suoi
irregolari contro la Colonna De Luca; determinante a Pettorano contro Nullo,
meno sul Macerone, contro i bersaglieri. Eppure, di Salzillo e dei suoi nella
storia ufficiale non c’è menzione (nel catalogo della mostra “Molise 1860 - I giorni dell'unità”,
Salzillo, che pure è autore di una decina di monografie, viene indicato come “un contadino di Pozzilli”). È il destino
degli sconfitti, certo; ma la damnatio
memoriae nei confronti dei vinti del Risorgimento ha operato probabilmente
con maggiore energia e più difficile si mostra l’impresa di recuperare memoria.
Così,
il 17 di ottobre, nella piana di Pettoranello, la gendarmeria borbonica e la
fucileria dei cafoni di Salzillo chiudono
a tenaglia gli smarriti garibaldini della Colonna Nullo, ed è strage, durante e
dopo la battaglia: a notte la campagna si riempie degli sbandati, che prendono
a vagare senza direzione e, quando presi, subiscono sevizie e morte per
decapitazione. Tra gli sbandati, c’è
anche Domizio Tagliaferri, la cui camicia rossa – donata alla Biblioteca
“Michele Romano” dalla famiglia Lemme – fa ora miglior mostra di sé nella prima
teca, insieme con la berretta garibaldina e una sciabola da ufficiale. Domizio,
farmacista di Matrice, era sottotenente del 1° Btg. Cacciatori Irpini,
inquadrato nella Brigata Carbonelli al seguito di Nullo (ce lo dice la lettera
d’ingaggio, in originale, pure in mostra); ci ha lasciato un memoriale, La spedizione di Isernia, dai toni molto
critici verso lo stato maggiore garibaldino, attribuendo ogni responsabilità al
comando di Nullo, che inavvedutamente derogò agli ordini
ricevuti, ed espose i rossi a quella «tremenda
carneficina, che la storia stigmatizza con parole di fuoco, e da cui pochi
soltanto, ed a mala pena» scamparono.
Vittoria
inutile, tuttavia, quella riportata a Pettorano. A Isernia non si festeggia: la
città è intristita e contempla le sue macerie, non solo materiali. S’inizia a
realizzare l’ineluttabilità di un destino deciso altrove, che porterà gli
isernini ad essere presto sudditi di un diverso re. Vittorio Emanuele sta scendendo
col suo esercito a prendersi il Sud. Il 20 ottobre 1860, nella nebbia del
Macerone, l’avanguardia piemontese ha facile ragione delle poco motivate forze
borboniche, guidate dall’ottuagenario Scotti Douglas. C’è la resa. La
cavalleria sabauda entra al galoppo in città: sono gli uomini del 1° Squadrone
di cavalleria, i Lancieri di Novara,
che a Isernia si guadagnano una medaglia di bronzo al valor militare per la
carica che taglia la fuga ai napoletani, infilandoli in una sacca. Loro è la mantella
di panno grigioverde, l’elmo da dragone, e la sciabola a guardia aperta e pomolo a testa
d’aquila che sono esposti nella lunga vetrina al centro della prima sala.
Cialdini – che pure darà il meglio di sé da qui
a qualche mese, da plenipotenziario nella lotta al brigantaggio – si conforma
al clima plumbeo che grava sulla città, imponendo la legge di guerra. Appena insediatosi, la sera del 20, telegrafa al
governatore De Luca e dice: «Faccia
pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e do quartiere
soltanto alle truppe. Oggi ho già incominciato»; e non millanta: davanti al
plotone di esecuzione cadono in giornata i primi dieci paesani scelti tra
quelli che al Macerone gli hanno contrastato il passo (il proclama di Cialdini
è a parete, tra i reperti in esposizione).
Nessun
plebiscito si inscena a Isernia per il 21 di ottobre: l’adesione al nuovo Regno
viene data per scontata. Re Vittorio verrà in città di lì a due giorni. Dorme
una notte sola, in casa di don Vincenzo Cimorelli, prima reazionario e ora
campione cittadino di quel trasformismo nuova moda nazionale. Nel suo entourage
annotano che Vittorio Emanuele rimanga così fortemente colpito dalla città da
esclamare: «Se non fosse città italiana
l’avrei trattata da re barbaro».
Ne
seguì un difficile ingresso in Italia.
Il grande processo di Santa Maria Capua Vetere condannò i manovali della Reazione salvandone i mastri: le elité
andavano in ogni caso salvate, occorrevano a costituire l’ossatura della nuova,
fragile nazione. A scorrere i nomi dei condannati – nel lungo elenco presente
nel liblro di Jadopi, si è detto – si incontrano gli stessi soprannomi che
ancora adesso marcano le famiglie che isernine lo sono da generazioni (a
testimoniare che, in fondo, centocinquant’anni sono pochi davvero). A Isernia,
a distanza di mesi, i morti rimangono insepolti, e non è affermazione
metaforica: Carlo Tedeschi, volontario della Guardia Nazionale di Milano,
inviata nel Sud con funzioni di controllo del territorio, raccoglie questa
immagine della città nel febbraio del 1861: «In fondo d’Isernia v’era un’altra cosa che doveva attirare l’attenzione
di ogni cristiano. Un cimitero, o meglio un recinto da un muricciuolo, in cui
stava una fossa ripiena di cadaveri (…) Al disopra di tutti i cadaveri vi stava
quello di un uomo che doveva essere sul fiore della vita: il costume che
vestiva era quello del luogo. Fra tutti, il suo corpo era ancora il men
disfatto».
Bibliografia.
Anonimo [ma Stefano Jadopi] La reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20
ottobre 1860, Napoli, 1861;
Anonimo [ma Stefano Jadopi] Risposte ai fatti narrati da V.M. Briamonte e F. Marulli sulla reazione
avvenuta in Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Torino, 1862
Giacinto
de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie
dal 1847 al 1861, Trieste, 1868
Giuseppe
Buttà, Un viaggio da Boccadifalco
a Gaeta: memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, Napoli, 1892/1893
Domizio
Tagliaferri, La spedizione di
Isernia, in “La Lega
del Bene”, n. 28, giugno 1890
Carlo
Tedeschi, I Milanesi a Venafro,
Milano 1861
Gabriele
Venditti, Isernia al cadere de' Borboni : fatti di rivoluzione e
reazione nell'autunno 1860, 2011