(tratto da Osservazioni cliniche sui bagni termominerali del Manganella ai Bagnuoli con notizie storiche compilate da Emmanuele Rocco, Napoli,1863)
giovedì 24 giugno 2010
mercoledì 16 giugno 2010
Antologia della Reazione, parte IV. Macerone, 20 ottobre 1860
Ottobre 1860: Francesco II è un dead man walking, già condannato dal consesso internazionale; il governo immalinconisce a Gaeta; l’esercito borbonico, demotivato più che debole, è disseminato alquanto disordinatamente tra Abruzzo, Molise, l’area del Garigliano e la Terra di Lavoro, impegnato per lo più in una logorante guerra per bande. Garibaldi, da Napoli, controlla lo stivale che fu duosiciliano, nell’attesa di dare tutto al Re di Sardegna, asso-piglia-tutto.
Il 12 ottobre, dopo aver lanciato un proclama alle popolazioni meridionali, ma non una rituale dichiarazione di guerra al Borbone, Vittorio Emanuele II passa il fiume Tronto, in testa all’Armata piemontese ed entra in “Affrica”, come dice Farini. L’invasione procede come una parata: le armi rimangono fredde. La fortezza di Pescara si consegna senza opporre resistenza; quella, imprendibile, di Civitella del Tronto – che cadrà dopo Gaeta, come ultimo baluardo – viene aggirata senza problemi.
L’Armata d’occupazione delle Marche e dell’Umbria, al comando di Manfredo Fanti, ministro della Guerra e della Marina nel dicastero Cavour, avanza con due corpi d’armata: il V° C.A., con in testa il tenente generale Enrico Morozzo della Rocca; e, in avanguardia, il IV° C.A., comandato dal generale Enrico Cialdini, uno che, a partire dal puntuto pizzo, è il Risorgimento italiano fatto a icona; uno che quando
«... l' 11 settembre gli è dato finalmente di varcare il confine pontificio, lo fa dirigendo ai suoi soldati questi detti memorabili che attestano dell'energia dell'anima sua, interamente e veramente italiana: “Soldati! Vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicarii e, per mano vostra, sentano l'ira d'un popolo che vuole la sua nazionalità e la sua indipendenza.”
Stefano Siccoli, “Enrico Cialdini”, in Almanacco illustrato della nuova italia, Firenze 1866, p. 78.
(Più tardi, fatta l’Italia, sui nastri della corona d’alloro che gli decreterà, come senatore del Regno, la magnanima città di Torino si leggerà:
Il 12 ottobre, dopo aver lanciato un proclama alle popolazioni meridionali, ma non una rituale dichiarazione di guerra al Borbone, Vittorio Emanuele II passa il fiume Tronto, in testa all’Armata piemontese ed entra in “Affrica”, come dice Farini. L’invasione procede come una parata: le armi rimangono fredde. La fortezza di Pescara si consegna senza opporre resistenza; quella, imprendibile, di Civitella del Tronto – che cadrà dopo Gaeta, come ultimo baluardo – viene aggirata senza problemi.
L’Armata d’occupazione delle Marche e dell’Umbria, al comando di Manfredo Fanti, ministro della Guerra e della Marina nel dicastero Cavour, avanza con due corpi d’armata: il V° C.A., con in testa il tenente generale Enrico Morozzo della Rocca; e, in avanguardia, il IV° C.A., comandato dal generale Enrico Cialdini, uno che, a partire dal puntuto pizzo, è il Risorgimento italiano fatto a icona; uno che quando
«... l' 11 settembre gli è dato finalmente di varcare il confine pontificio, lo fa dirigendo ai suoi soldati questi detti memorabili che attestano dell'energia dell'anima sua, interamente e veramente italiana: “Soldati! Vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicarii e, per mano vostra, sentano l'ira d'un popolo che vuole la sua nazionalità e la sua indipendenza.”
Stefano Siccoli, “Enrico Cialdini”, in Almanacco illustrato della nuova italia, Firenze 1866, p. 78.
(Più tardi, fatta l’Italia, sui nastri della corona d’alloro che gli decreterà, come senatore del Regno, la magnanima città di Torino si leggerà:
AD ENRICO CIALDINI
A Palestro — Castelfidardo — Isernia
Gaeta
Vincitore Sempre 1861.)
L’Armata, lasciatasi alle spalle le rose e viole della costa adriatica, deve
«sospingersi a lungo cammino attraverso li montuosi Abruzzi; nè più che due vie si offerivano, facile quella che risale la Val di Pescara, disagevole ed aspra l'altra che da Chieti piega a Casoli e Roccaraso, entrambe poi convergenti a Castel di Sangro alle falde della maggiore giogaja appenninica, la quale si doveva dal passo del Macerone superare per discendere ad Isernia nella valle dell'alto Volturno.»
Luigi Zini, Storia d’Italia dal 1850 al 1866, Milano 1869, p. 788.
È la Via degli Abruzzi: la stessa strada che percorsero i Francesi nel 1799, per portare la rivoluzione a Napoli; la stessa percorsa dagli Austriaci nel 1821, per chiudere il neonato Parlamento duosiciliano. Adesso viene percorsa dai Piemontesi.
«Man mano che si addentravano nella parte più interna degli Abruzzi (…) si cominciarono a scorgere i segni dei recenti scontri tra liberali e reazionari: case bruciate, campi devastati, cadaveri frettolosamente sepolti o abbandonati ai lati della strada. Tutto testimoniava della violenza di una lotta feroce che sotto il velo del conflitto ideologico, aveva i caratteri di un’esplosione di odio selvaggio tra classi sociali: i “galantuomini” o borghesi e i “cafoni” o contadini. Le popolazioni non erano più festose; ma accoglievano i piemontesi in silenzio, con il cupo sospetto di chi, avendo sopportato dure prove, non è affatto convinto che il momentaneo vincitore sia venuto a portare una pace duratura.»
Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone – L’ultimo re di Napoli, Milano 1982, p. 151.
Si avvicina il 20 ottobre, data della prima battaglia campale tra Piemontesi e Duosiciliani, al Macerone.
«18 Ottobre. Sereno. L’Avanguardia da Palena va a far tappa presso Roccaraso. La 4ª Divisione da Lama va ad accamparsi sotto Rivisondoli; la 7ª da Casoli a Palena. Il Quartier Generale è a Roccaraso. L’Avanguardia viene aumentata di una Sezione rigata della 4ª Divisione. Giunge notizia di una colonna di garibaldini disfatta dai Borbonici a Pettorano, poche miglia da Isernia.»
Diario delle operazioni del IV° Corpo d’Armata
Da parte borbonica, intanto, ci si prepara a resistere:
«Il maresciallo Luigi Scotti-Douglas, da vecchio carbonaro diventato reazionario, che si trovava con una colonna di gendarmi e volontari da lui armati a San Germano, appoggiato dai partigiani e dal clero locali, e il De Liguoro, promosso tenente colonnello per le recenti gesta, ch’era ad Isernia per tenere a freno come si è visto i liberali del paese e per fronteggiare i garibaldini, furono rinforzati, in previsione dell’invasione piemontese, dalle truppe della brigata Grenet fino a Venafro»
Tito Battaglini, Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie, I, Dalla catastrofe siciliana al Volturno, Modena, 1938 p. 192
Scotti-Douglas compie un grossolano errore di valutazione scambia per i pochi volontari di Pateras e Fanelli – i Cacciatori del Vesuvio – l’avanguardia piemontese di Cialdini:
«Era a S. Germano il maresciallo Scotti con poche truppe; il più di volontarii e soldati raccogliticci, con carico piuttosto politico che militare, per proteggere le popolazioni contro i faziosi. Dipendevano da lui quei che ad Isernia avevano il 5 e il 16 ottobre sperperati i due corpi garibaldesi; e là s'era rimasto il maggiore De Liguoro, spiando il Pateras che si diceva scendesse d'Abruzzo co'suoi ribaldi, per punirli delle rapine. Colà recatosi anche lo Scotti non so perché, ebbe a sera del 19 notizia di grosse colonne di truppe regolari accampate nella valle Vandra, di là dal Macerone; però parecchi, asseverando fossero Piemontesi, istigavano lo Scotti a occupare la sera stessa la forte posizione del Macerone, dove si potea contrastare il passo; ma egli, duro, si stette, e lasciò il nemico v'arrivasse primo. Al mattino gli giunse da Teano il 1° di linea, minorato di due compagnie, ch'erano ad Itri; reggimento capitolato a Melazzo, poi dal Brigante a Reggio disciolto, che per alacrità di soldati accorsi volonterosi s'era ricomposto a Capua in 800 uomini col maggiore Auriemma; corpo certamente fievole di coesione, dopo tante peripezie. Adunque con questi stanchi del cammino, con poche centinaia di gendarmi, certi volontarii e due pezzi da montagna, lo Scotti il mattino del 20 mosse incontro a tutta l'oste Sarda, dicendo fosse il Pateras con la sua masnada.»
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 323
De Sivo, per ridimensionare la debacle, sottostima il numero dei borbonici, regolari e non («800 uomini (…) poche centinaia di gendarmi, certi volontarii»). In ogni caso, malgrado quello che dirà la storiografia risorgimentale – che, col fine opposto d’incensare il primo scontro tra Piemontesi e Duosiciliani, parla di seimila armati con Scotti-Douglas – il numero dei combattenti era favorevole ai Piemontesi: al Macerone, i Regi non superano le 3.000 unità (cioè due battaglioni del 1° reggimento di linea, un migliaio di gendarmi e il rimanente di cafoni); con Cialdini sono invece circa 5.000 uomini.
In avanguardia, con i bersaglieri e gli zappatori del Genio, c’è il magg. generale Paolo Griffini, lodigiano (nell’Isernia postunitaria sarà intitolata a Paolo Griffini la caserma dell’Esercito ospitata in Santa Maria delle Monache).
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«Distaccato dal IV Corpo a vanguardia precedeva di uno alloggiamento il Generale Paolo Griffini con due battaglioni di bersaglieri, due compagnie di zappatori del Genio, due reggimenti di cavalli e quattro cannoni: al quale come nel giorno 19 giusta i computi toccasse a Rionero, che è al piede del Macerone, era ingiunto di accampare ed aspettarvi lo arrivo dello intiero Corpo, perché il Comandante Cialdini intendeva impadronirsi del passo e delle alture, e farsi forte colassù prima che li Borboniani, che si sapevano già in marcia da Venafro ad Isernia precorrendo occupassero la montagna; donda quasi da immane fortezza anco pochi facilmente potrebbero contrastare il passo ed arrestare in quelle gole tutto lo sforzo de' Sardi. La qual cosa considerando il Griffini e il pericolo dello indugio, e dall'altro il rischio di avventurarsi a disubbidienza ed a fronteggiare il nimico in maggior forza, stato alquanto sopra di sé gittossi al partito animoso; e tolti con sé li Bersaglieri e traendosi appressa le artiglierie, lasciato giù nella valle la Cavalleria e li Zappatori a guardia del ponte sul torrente della Vandra, alla prima luce fu sull'alto del giogo e vi si afforzò: e di colà speculando vide movergli incontro grossi stuoli nemici che partitisi in tre colonne accennavano ad investirlo di fronte e girarlo da' fianchi. — Seppesi di poi che duce a quelle schiere (tremila soldati di ordinanza, fanti di linea e gendarmi, forse altrettanti partigiani, con una batteria) era il Generale Douglas Scotti di Piacenza agli stipendj di Francesco lI, inviato con nome di Luogotenente del Re nelli distretti di Terra di Lavoro a sollevare que' popoli per la causa regia e fare arme (come già un tempo per l'antica fede e li gesti di Fra Diavolo, di Mammona, di Sciarpa, di Pronio e di Rodio); e così raccolte quante forze gli venisse fatto a chiudere il varco principale dello Appennino.»
Luigi Zini, Storia d’Italia dal 1850 al 1866, Milano 1869, vol. I, parte II, p. 789-790.
«I Piemontesi procedevano a grosse colonne l'una sull'altra insieme a' pochi faziosi che raggranellavano tra via; guidava l'avanguardia il generale Griffini con due battaglioni bersaglieri e due cannoni della 4a divisione. Presso al Macerone, lasciata la strada si gittò sull'alture, e vi si postò, mandando i faziosi avanti a insultare i Borboniani. Lo Scotti al veder questi divise i suoi in tre, sulla strada, e su' lati alle montagne, e gridò: «Date la caccia a quei mascalzoni». Infatti furono respinti sino alla vetta; ma là i Napolitani si sentirono improvvisamente colti da scaglie non viste, eppure procedendo baldi, già due compagnie eran per pigliare i due abbandonati cannoni, quando sbucando di dietro al monte il 3° d'infanteria Sarda, perduti alquanti uomini ebbero a piegare. In quella sopraggiungeva il Cialdini con la brigata Regina, che sulla via maestra corse alla carica, mentre prolungando l'ale accennava a circuire i nostri. Questi resistettero mezz'ora; morì il tenente Mattiello, fu ferito il tenente Giordano; ma visto aver da fare con un esercito, prima i volontarii e i gendarmi s'allontanarono, percossi dal 7° Bersaglieri, e da uno squadrone di Lancieri; e poi il resto del 1° di linea rimasto solo e circuito, e per istanchezza del cammino fatto da Teano inabile a' movimenti, ordinandolo lo Scotli, pose giù l'arme. Tutti gli altri se la svignarono pe' monti a Venafro. Restarono prigionieri da seicent'uomini, e molti uffiziali, con lo Scotti, che parve esservi ito a posta, né s'era mosso di dentro la carrozza. Il Cialdini lo mandò con un suo uffiziale a Solmona; e notò nel dispaccio ch'ei vi consentiva volentieri. Costui vecchio carbonaro, fatto nel ‘49 il reazionario inviperato, ora non so se traditore o imbecille, a scusarsi d'aver combattuto pel re, stampò una umile lettera al Cavour, vantandosi liberale. Certa gente in tutte fortune va a galla, perché vacua.»
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 287-288.
La battaglia del Macerone è conclusa. I Borbonici, in rotta, vengono inseguiti fin dentro Isernia, dove la battaglia prosegue con una carica di cavalleria.
«Il Griffini, alla testa dello squadrone dei lancieri, si lanciò irruentemente sulla strada sbaragliando il nemico e giungendo in Isernia prima dei fuggiaschi. I reparti borbonici del 1° reggimento di linea si difesero e cercarono di retrocedere combattendo su Isernia; ma circondati caddero in gran parte prigionieri, mentre gli altri, con i volontari reazionarii e gendarmi, si sbandarono su per i monti, raggiungendo poi Teano.»
Tito Battaglini, Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie, I, Dalla catastrofe siciliana al Volturno, Modena, 1938 p. 192
«Isernia è una città traversata da una strada lunga e stretta. Il Cialdini dette ordine al capitano Montiglio di caricare con uno squadrone, che aveva ordine di prendere la piccola batteria che era in testa della colonna de' Napoletani. Questi, attoniti, non impedirono nè punto nè poco la carica, nè osarono neanche tirare contro i cavalieri. Un solo soldato osò, e fu steso morto per terra da un colpo di lancia d' un piemontese. Il Montiglio riuscì, quindi, senza perdita, a seguire l'ordine avuto. I cannoni e i cannonieri furono presi, lo Scotti fatto prigioniero, e con lui il de Liguoro e 800 soldati. Due soli contadini, colti colle armi alla mano furono fucilati. Gli altri, nel numero di 700, eran rimasti lontani dal combattimento.»
Anonimo, Della guerra d’Italia, vol. III, Rieti 1861, p. 481.
Isernia muta colore per la quarta volta in venti giorni. A sera, ospita il quartier generale dell’Armata piemontese.
«20 Ottobre. Le truppe borboniche divise in tre colonne, partite il mattino da Isernia attaccano i nostri avamposti sul Monte Macerone. Il generale Griffini fa avanzare i battaglioni bersaglieri e 4 pezzi d’artiglieria per la difesa della posizione. Il generale comandante il Corpo d’Armata giunge poco dopo nel sito alla testa della Brigata “Regina” ed ordina di prendere vivamente l’offensiva. Un battaglione del 9° è ispedito sulla sinistra e con una brillante carica mette in fuga il nemico, in pari tempo il 7° bersaglieri al centro ed il 6° bersaglieri sulla destra caricano e mettono in fuga i Borbonici; uno squadrone di Lancieri di Novara carica ed insegue il nemico sulla strada facendo molti prigionieri. Rimasero nelle mani il generale Scotti, due colonnelli, 35 uffiziali e 700 soldati, la Bandiera del 1° Reggimento di Linea “Re”, e due pezzi d’artiglieria. Il 7° battaglione bersaglieri si spinge fino al Volturno e prende posizione oltre il Ponte. Le altre truppe dell’Avanguardia si accampano presso Isernia. La 4ª Divisione dietro la città ad eccezione del 10° reggimento che con due pezzi rigati ed uno squadrone dei Lancieri di Novara prende posizione a due miglia da Isernia a cavallo della strada che tende a Venafro. La 7ª Divisione da Rivisondoli e Rocca raso va a far notte a Rionero; il Quartier Generale è a Isernia».
Diario delle operazioni del IV° Corpo d’Armata.
La sera del 20 ottobre Cialdini riunisce a Isernia il V° Corpo d’Armata; il resto dell’esercito sabaudo, quella stessa sera, è a Sulmona, insieme con Vittorio Emanuele.
«Isernia presentava, all'entrata de' Piemontesi, un aspetto di desolazione e di lutto. I Borbonici v'avevano commesso eccessi gravi.»
Anonimo, Della guerra d’Italia, vol. III, Rieti 1861, p. 481.
Altri eccessi sta per compierli Cialdini, che darà il meglio di sé da qui a qualche mese, da plenipotenziario nella lotta al brigantaggio, allorché
«...comandò una dura repressione messa in atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro centri abitati: cannoneggiamento di Mola di Gaeta (oggi è un rione di Formia) del 17 febbraio 1861, eccidio di Casalduni e Pontelandolfo, nell'agosto 1861.»
Wikipedia, voce “Enrico Cialdini”.
«In quel suo rapporto ufficiale sulla cosiddetta "guerra al brigantaggio", Cialdini dava queste cifre per i primi mesi e per il solo Napoletano: 8 968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10 604 feriti; 7 112 prigionieri; 918 case bruciate; 6 paesi interamente arsi; 2 905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13 629 deportati; 1 428 comuni posti in stato d'assedio.»
Luigi Zini, Storia d’Italia dal 1850 al 1866, Milano 1869, vol. I, parte II, p. 789-790.
«I Piemontesi procedevano a grosse colonne l'una sull'altra insieme a' pochi faziosi che raggranellavano tra via; guidava l'avanguardia il generale Griffini con due battaglioni bersaglieri e due cannoni della 4a divisione. Presso al Macerone, lasciata la strada si gittò sull'alture, e vi si postò, mandando i faziosi avanti a insultare i Borboniani. Lo Scotti al veder questi divise i suoi in tre, sulla strada, e su' lati alle montagne, e gridò: «Date la caccia a quei mascalzoni». Infatti furono respinti sino alla vetta; ma là i Napolitani si sentirono improvvisamente colti da scaglie non viste, eppure procedendo baldi, già due compagnie eran per pigliare i due abbandonati cannoni, quando sbucando di dietro al monte il 3° d'infanteria Sarda, perduti alquanti uomini ebbero a piegare. In quella sopraggiungeva il Cialdini con la brigata Regina, che sulla via maestra corse alla carica, mentre prolungando l'ale accennava a circuire i nostri. Questi resistettero mezz'ora; morì il tenente Mattiello, fu ferito il tenente Giordano; ma visto aver da fare con un esercito, prima i volontarii e i gendarmi s'allontanarono, percossi dal 7° Bersaglieri, e da uno squadrone di Lancieri; e poi il resto del 1° di linea rimasto solo e circuito, e per istanchezza del cammino fatto da Teano inabile a' movimenti, ordinandolo lo Scotli, pose giù l'arme. Tutti gli altri se la svignarono pe' monti a Venafro. Restarono prigionieri da seicent'uomini, e molti uffiziali, con lo Scotti, che parve esservi ito a posta, né s'era mosso di dentro la carrozza. Il Cialdini lo mandò con un suo uffiziale a Solmona; e notò nel dispaccio ch'ei vi consentiva volentieri. Costui vecchio carbonaro, fatto nel ‘49 il reazionario inviperato, ora non so se traditore o imbecille, a scusarsi d'aver combattuto pel re, stampò una umile lettera al Cavour, vantandosi liberale. Certa gente in tutte fortune va a galla, perché vacua.»
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 287-288.
La battaglia del Macerone è conclusa. I Borbonici, in rotta, vengono inseguiti fin dentro Isernia, dove la battaglia prosegue con una carica di cavalleria.
«Il Griffini, alla testa dello squadrone dei lancieri, si lanciò irruentemente sulla strada sbaragliando il nemico e giungendo in Isernia prima dei fuggiaschi. I reparti borbonici del 1° reggimento di linea si difesero e cercarono di retrocedere combattendo su Isernia; ma circondati caddero in gran parte prigionieri, mentre gli altri, con i volontari reazionarii e gendarmi, si sbandarono su per i monti, raggiungendo poi Teano.»
Tito Battaglini, Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie, I, Dalla catastrofe siciliana al Volturno, Modena, 1938 p. 192
«Isernia è una città traversata da una strada lunga e stretta. Il Cialdini dette ordine al capitano Montiglio di caricare con uno squadrone, che aveva ordine di prendere la piccola batteria che era in testa della colonna de' Napoletani. Questi, attoniti, non impedirono nè punto nè poco la carica, nè osarono neanche tirare contro i cavalieri. Un solo soldato osò, e fu steso morto per terra da un colpo di lancia d' un piemontese. Il Montiglio riuscì, quindi, senza perdita, a seguire l'ordine avuto. I cannoni e i cannonieri furono presi, lo Scotti fatto prigioniero, e con lui il de Liguoro e 800 soldati. Due soli contadini, colti colle armi alla mano furono fucilati. Gli altri, nel numero di 700, eran rimasti lontani dal combattimento.»
Anonimo, Della guerra d’Italia, vol. III, Rieti 1861, p. 481.
Isernia muta colore per la quarta volta in venti giorni. A sera, ospita il quartier generale dell’Armata piemontese.
«20 Ottobre. Le truppe borboniche divise in tre colonne, partite il mattino da Isernia attaccano i nostri avamposti sul Monte Macerone. Il generale Griffini fa avanzare i battaglioni bersaglieri e 4 pezzi d’artiglieria per la difesa della posizione. Il generale comandante il Corpo d’Armata giunge poco dopo nel sito alla testa della Brigata “Regina” ed ordina di prendere vivamente l’offensiva. Un battaglione del 9° è ispedito sulla sinistra e con una brillante carica mette in fuga il nemico, in pari tempo il 7° bersaglieri al centro ed il 6° bersaglieri sulla destra caricano e mettono in fuga i Borbonici; uno squadrone di Lancieri di Novara carica ed insegue il nemico sulla strada facendo molti prigionieri. Rimasero nelle mani il generale Scotti, due colonnelli, 35 uffiziali e 700 soldati, la Bandiera del 1° Reggimento di Linea “Re”, e due pezzi d’artiglieria. Il 7° battaglione bersaglieri si spinge fino al Volturno e prende posizione oltre il Ponte. Le altre truppe dell’Avanguardia si accampano presso Isernia. La 4ª Divisione dietro la città ad eccezione del 10° reggimento che con due pezzi rigati ed uno squadrone dei Lancieri di Novara prende posizione a due miglia da Isernia a cavallo della strada che tende a Venafro. La 7ª Divisione da Rivisondoli e Rocca raso va a far notte a Rionero; il Quartier Generale è a Isernia».
Diario delle operazioni del IV° Corpo d’Armata.
La sera del 20 ottobre Cialdini riunisce a Isernia il V° Corpo d’Armata; il resto dell’esercito sabaudo, quella stessa sera, è a Sulmona, insieme con Vittorio Emanuele.
«Isernia presentava, all'entrata de' Piemontesi, un aspetto di desolazione e di lutto. I Borbonici v'avevano commesso eccessi gravi.»
Anonimo, Della guerra d’Italia, vol. III, Rieti 1861, p. 481.
Altri eccessi sta per compierli Cialdini, che darà il meglio di sé da qui a qualche mese, da plenipotenziario nella lotta al brigantaggio, allorché
«...comandò una dura repressione messa in atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro centri abitati: cannoneggiamento di Mola di Gaeta (oggi è un rione di Formia) del 17 febbraio 1861, eccidio di Casalduni e Pontelandolfo, nell'agosto 1861.»
Wikipedia, voce “Enrico Cialdini”.
«In quel suo rapporto ufficiale sulla cosiddetta "guerra al brigantaggio", Cialdini dava queste cifre per i primi mesi e per il solo Napoletano: 8 968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10 604 feriti; 7 112 prigionieri; 918 case bruciate; 6 paesi interamente arsi; 2 905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13 629 deportati; 1 428 comuni posti in stato d'assedio.»
Vittorio Messori, La sfida della fede. Fuori e dentro la Chiesa: la cronaca in una prospettiva cristiana, Milano 1993.
A Isernia, comunque, Cialdini mostra subito di che pasta sono fatti i Piemontesi:
«Al momento mi giunge il seguente del Generale Cialdini da Isernia: (…) Faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e do quartiere soltanto alle truppe. Oggi ho già incominciato. Firmato: Il Generale Cialdini. Campobasso 20 ottobre ore 11,15 pomeridiane. — Trasmesso il 21 ottobre ad ore 6 antim. per linea occupata. Napoli 21 ottobre 1860.»
Dispaccio telegrafico del Governatore di Molise, Nicola De Luca, al Dittatore ed ai Ministri dello Interno e Polizia e della Guerra in Napoli, Giornale Officiale di Napoli, n. 38.
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