Intro
Che la Fontana Fraterna (o Fontana della Fraterna, se preferite), per come oggi la
conosciamo nel suo sviluppo armonioso di vuoti e pieni, archi e colonne, si
debba alla perizia di un mastro nostrano di metà Ottocento più che di un
architetto regio di una lontana e indeterminata Età di Mezzo è notizia che si
ricava da atti d’archivio, dunque sufficientemente incontroversa. Ciò malgrado,
qua e là ancora ci si imbatte in fantasiose attribuzioni che la vogliono, nel
luogo in cui è ora, autentico manufatto del XIII secolo; del resto, apodittiche
affermazioni intorno alla Fraterna ne circolano tante: ancora si legge di quell’ AE PONT come
frammento di epigrafe tratta dal sepolcro familiare del noto prefetto di
Giudea, quello che si lavò le mani.
Un primo punto da chiarire: riportarne una
fondazione ottocentesca per mano di mastro autoctono non sminuisce di una
virgola il valore del monumento, che è di un equilibrio unico, nel quale la
perfetta simmetria dell’insieme è ottenuta da una disposizione incoerente di
pietre di differente misura ed elementi (protomi, capitelli, mensole…) di
diversa provenienza ed epoca. La fontana è un unicum, sintesi mirabile della storia millenaria della città.
Altro chiarimento necessario: Fraterna è onomastica che si impone solo
col XX secolo: in tutti i documenti precedenti, la fontana pubblica posta
all'inizio del lungo decumano che attraversa la città viene indicata come Fontana della
Concezione per la vicinanza alla Chiesa dell’Immacolata, sede secondo tradizione della confraternita duecentesca fondata da Celestino. Ecco che, solo di recente, la fontana
assume il nome di Fraterna.
La Fraterna in una foto di inizio XX sec. |
Isernia
e l’acqua
Ora: una fontana pubblica, in quel luogo,
c’è da un tempo lontano e non determinato. Il rapporto di Isernia con l’acqua è
sempre stato privilegiato; ciò per effetto della particolare posizione della città, posta tra due fiumi, così come dalle infrastrutture che ne hanno sempre consentito facile accesso e abbondanza, tanto che una delle ipotesi che si fanno sul toponimo Isernia fa appunto riferimento all’acqua (dalla radice indeuropea ausa, che vuol dire appunto acqua). L’acqua in città arrivava tramite
l’acquedotto romano captato a San Martino. Al punto di
sbocco, al cd. pozzo, stranamente
collocato fuori le mura urbiche, dal tardo medioevo, ritraevano acqua sia le fontane pubbliche che
le private. Lo sappiamo per certo: vi è atto di concessione regia del 1514
rilasciato ai maggiorenti della città per avere acqua nelle case attingendo «a forma extra moenia dictae Civitatis ubi
vulgariter dicitur Inpuzo, vicino san Joanne» (Il pozzo, vicino la chiesa
gerosolimitana di San Giovanni, alla Fiera), tramite condotta da realizzarsi a
proprie spese. Già precedentemente, i regolamenti della Bagliva, del XV secolo, punivano chi lordasse le pubbliche fontane, lavando verdure o abbeverando
animali; tra di esse, particolare attenzione viene data alla fonte del Mercato,
destinataria di uno specifico articolo e sanzione: «Item volemo che non sia huomo o donna che ardisca spandere pelle sopra
la fonte del mercato, né buttarvi lordizia seu immondizia alcuna sotto pena di
grana dieci per ciascuna volta […]».
La Fraterna, come oggi la conosciamo, a lato della Cattedrale. Il quadro, di autore non reperito nelle fonti, è in Sabino d'Acunto, Isernia in Cartolina, 1990. |
La
fontana del Mercato
Se la fonte pubblica al Mercato ha
ricevuto attenzione particolare nei Capitoli della Bagliva è probabilmente
perché ritenuta fontana di rango superiore rispetto alle altre pubbliche pur esistenti.
Mercato è propriamente il largo posto davanti la
Cattedrale, spazio urbano da sempre aperto, libero da immobili (non così per
altre piazze cittadine, la cui creazione si deve alla guerra, come per Piazza
Concezione). Ma con Mercato
si identifica l’intera area: una fontana che abbia le spalle al muro della
Cattedrale e lato edificato in aderenza all’Arco di san Pietro, può senz’altro essere
definita fontana del Mercato senza destare scandalo.
Così, quando l’ingegnere camerario
Casimiro Vetromile redige nel 1744 l’apprezzo della Città di Isernia, e riguardo
alle fontane pubbliche, ci dice che ve n’è una «di cinque cannuoli, attaccata all’attrio di detta Cattedrale», ne
possiamo liberamente inferire che: a) per avere cinque cannuoli (non uno, due o
tre, come tutte le altre) deve essere fontana tra le più importanti in città,
se non la più importante; b) può
legittimamente identificarsi in questa quella fontana del Mercato di cui
parleranno poi altri, senza necessariamente pensare ad una fontana posta nella piazza del Mercato. Qui, per la verità, una
fonte pubblica sarà realizzata sì, ma solo successivamente (1832/1847), allorché questa
a lato della Cattedrale sarà rimossa perché d’intralcio alla pur magra
circolazione stradale del periodo: nel 1832 si attendenva la faustissima venuta in città di
Ferdinando II e le reali carrozze non potevano agevolmente muoversi (ne
abbiamo già ampiamente parlato qui). Si decise così di smembrare e togliere la fontana del Mercato, che pure era tutto sommato sopravvissuta al terremoto distruttivo del 1805: ce lo dice Fortini nel suo cahier de doleance sugli effetti del
sisma: «La pubblica fontana di cinque
butti di acqu’ appoggiat’ a due pilastri, avanzi del caduto supportico esiste,
ma dannificata moltissimo, siccole lo sono i detti due pilastri.»
La
fontana della Concezione
Torniamo ora a largo Concezione, dove,
sempre l’ingegnere Vetromile ci dà testimonianza di una fontana «di tre
cannuoli vicino la Porta superiore detta da capo».
Tra il 1744 in cui scrive il tavolario
napoletano e il 1835 in cui saremo proiettati tra poche righe, vi è la
drammatica cesura rappresentata dal terremoto del 1805, che specie nella
parte alta dell’abitato isernino, quella posta a nord dell’Arco di San Pietro,
risulta particolarmente distruttivo.
Nel 1835, per decisione del Decurionato
cittadino, sul sito precedentemente occupato da questa fontana, di forme
ignote, ma certamente a «tre cannuoli» viene riedificata una nuova fontana
pubblica. L’artefice è il muratore Felice Caruso che rimonta i pezzi in pietra che
furono di questa e quelli che derivavano dalla fontana del Mercato (cioè quella
che posta a lato della Cattedrale). Lo deduciamo da un documento conservato
nell’Archivio storico comunale, un preventivo da altri composto e che Felice
Caruso sottoscrive con firma incerta, fornendoci però diverse utili
informazioni (nella trascrizione, ometto i calcoli del materiale e gli importi
espressi in grana duosiciliani):
«Oggi
dieci settembre milleottocento trentacinque, in Isernia, io sottoscritto mastro
muratore di questa città ad invito del sindaco (…) avendo proceduto alla perizia delle
rifazioni e prolungamento della pubblica fontana sita dentro di questo
abitato al largo della Concezione, dopo fatte le debite ispezioni sopra luogo e
riconosciuto di materiali esistenti di altra antica fontana da adattarsi a
questa costruenda, ho trovato che a regola d’arte bisogna quanto segue.
1.
Deve rialzarsi l’attuale facciata interna di detta fontana ch’è di palmi 9
lunga e 7 alta portandola ad altezza di palmi 8, aggiungendovi perciò un altro
palmo; e più deve prolungarsi la facciata stessa per altri palmi 14 per palmi 8
di altezza, onde aversi la lunghezza bastante per situarsi sei butta acqua.
Tale rialzamento e prolungamento deve farsi di pezzi di taglio di pietra
travertina a puntillo riccio e con tracce laterali a scalpello (…)
2.
Fascia dell’istessa pietra in fronte alla copertura del porticato di detta fontana,
lunghezza palmi 31 altezza palmi 1 e ¾ sono in tutto palmi 54 (…).
3.
Lastre dell’ istessa pietra mancanti per la covertura suddetta di lunghezza
palmi 25 larghezza palmi 3 e con fare a martello nelle facce (…)
4.
Due archetti mancanti e da costruirsi dell’istessa pietra di diametro nella
faccia palmi 4 palmi 2 di fronte dedotto il vuoto dell’arco di palmi tre di
diametro (…)
5.
Due piccoli archi anche mancanti al finimento superiore di detta fontana (…)
6.
Basolato mancante nella vasca interna (…)
7.
Basolato pel marciapiedi di detta fontana della lunghezza di palmi 24 e 1 e ¾
di altezza (…)
8.
Base con due semicolonne al di sopra e capitello (…)
9.
Masso (?) di nuova fabbrica nella vasca interna di
palmi 24 lungo, alto palmi 3 e doppio palmi 2 (…) più altro masso (?) di fabbrica al didietro della facciata
interna (…)
10.
Compositura dell’intero parapetto della fontana nella lunghezza di palmi 24 (…)
colla ritoccatura de’ pezzi più di sei colonne e due pilastrini laterali e di
gattoni al di sopra con alcovi sovrapposti, bucciando ed impiombando le basi e
fusti delle colonne e fissare le tenute interne di ferro tra esse e la facciata
delli butta acqua
11.
Ferro per ciappe di pezzi di parapetto della fontana, per le anime della base e
colonnette (…)
12.
Sei forami d’ottone per butta acqua (…)
13.
piombo per le diverse impiombature (…)»
Iside
svelata
Il documento sopra trascritto è l’atto di
nascita della Fontana Fraterna, edificata da Caruso con «materiali esistenti di altra
antica fontana», e nuovi elementi ricostruiti con «l’istessa pietra». Se si guarda alla descrizione dell’insieme
ci rendiamo conto che quella lì costruenda non può che essere la Fraterna per come oggi la
conosciamo. In più, se poniamo attenzione al fatto che un palmo napoletano sia
unità di misura pari, più o meno, a 26 centimetri e mezzo, dai 24 palmi di
lunghezza complessiva della fontana otteniamo esattamente i sei
metri e trenta dell’attuale.
Abbiamo allora diversi elementi per
chiarire il mistero della fontana: richiamiamo Vetromile sul banco dei
testimoni: nel 1744, delle «sette
pubbliche fontane di ottime e fresche acque perenni» che esistevano al
tempo in città, il tavolario napoletano riferisce di una «prima di tre cannuoli vicino la Porta superiore detta da capo; la seconda di cinque cannuoli, attaccata
all’attrio di detta Cattedrale».
Chiamiamo allora a deporre altro
importante teste: Stefano Jadopi, identificato per conoscenza personale, il
quale ci dice (vd. Il Regno di Napoli
illustrato ecc., del 1858) che di queste due fontane, la seconda, quella
del Mercato cedette alla prima «l’antica
prospettiva».
Possiamo allora con sufficiente credibilità
sostenere che quella a lato della Cattedrale sia stata fontana realizzata in
forme e disegno tutto sommato non dissimili dall’attuale Fraterna, sebbene di
minori dimensioni complessive. Per questa, allora, e non per la sua attuale ipostasi di piazza Concezione, potrebbe
legittimamente sostenersi un’origine federiciana, da pieno secolo XIII.
Dismessa e demolita nel 1832, i pezzi avrebbero
subito un primo trasloco in Piazza Concezione, per essere qui
rinvenuti da Caruso, e rimontati come un puzzle tridimensionale nel progetto
della fontana nelle forme che noi conosciamo.
La planimetria del Largo Concezione, 1887. La Fontana Fraterna, a sei butti, è collocata nel sito in cui è ripresa dalle fotografie che conosciamo. Alle spalle, un fabbricato oggetto di espropriazione, di proprietà di Cosmo Viti (A.S.C.I.) |
Il
puzzle
Se parlo di puzzle, è perché sappiamo per certa
la provenienza di alcuni pezzi: l’epigrafe AE PONT, per esempio, proviene dalla
fontana del Mercato, che era a lato della Cattedrale. Ce lo dice il canonico
Vincenzo Piccoli nel 1824 – dunque prima dei lavori di Caruso – e ce lo ribadisce
Theodor Mommsen che quando viene in città nel 1844 – dopo Caruso – la vede già
incastonata in quella della Concezione, ma, per completezza di informazione, ci
riconferma che un tempo era presso l’altra fontana, al mercato.
L’altra epigrafe latina, quella di
Pescennio (d.m.s. | Fvndaniae securae |
Pescennivs secv | rvs nec immerito), è invece sempre stata in zona Porta
da Capo (vd. p. es. Muratori, che nel riportarla nel suo Thesaurus ci dice ad Portam
Capitalem), dunque appartiene al materiale lapideo dell’altra fontana,
quella primigenia della Concezione.
La Fraterna appena rimontata, nel settembre del 1959 |
Ma quella che è sotto i nostri occhi, non
è proprio la fontana del 1835. Un documento
d’archivio – una Deliberazione del Consiglio Comunale dell’11 maggio 1889
denominata «Sistemazione della fonte pubblica della Concezione» – riferisce che
«il consigliere signor d’Apollonio,
sull’invito del presidente, ha presentato all’Adunanza uno schizzo o progetto
sommario da lui redatto per trasporto della fontana della Concezione in altro
punto, e ciò in adempimento alla deliberazione del dì 30 luglio 1887, n.
49, onde si stabiliva il sito ove
credesi riedificarla.» Unanimemente si deliberava di «rimanere incaricato il signor d’Apollonio di completare il progetto di
rimozione della fontana suddetta, trasportandola a lato e non già di fronte al
Largo e propriamente a ridosso della
casa Leone».
Una pianta del 1887 – dunque due anni
prima della delibera che ne demanda lo spostamento – redatta nell’ambito di una
vicenda di espropriazione per pubblica utilità ai danni di tal Cosmo Viti, che
aveva proprietà proprio alle spalle della fontana della Concezione, vede questa
esattamente nel punto in cui la ritrarranno le fotografie di inizio Novecento.
Ed allora, delle due l’una: o la traslazione del 1889 è stata dell’ordine di
qualche centimetro, oppure come tanti altri progetti comunali che, allora come
ora, rimangono solo sulla carta, non c’è mai stata.
Riassemblaggio
Ma quella che è sotto i nostri occhi, in
ogni caso, non è proprio la fontana
del 1835. Un rimontaggio la Fraterna lo ha subìto necessariamente dopo la
Seconda Guerra Mondiale: le bombe alleate del settembre 1943, che crearono lo
squarcio poi diventato Piazza Celestino V, la distrussero integralmente. Per
cure dell’architetto Giuseppe Tarra e dell’ingegnere Giuseppe Renzi, i pezzi vennero
numerati e conservati (il puzzle, disarticolato, venne riposto nella sua
scatola), prima presso la Chiesa della Concezione, poi in Santa Maria delle
Monache, fino a quando la fontana fu nuovamente riassemblata nel 1959 (lavori
durati tra il 4 agosto e l’11 settembre, impresa Vittorino Santilli, capomastro
Salvatore Di Pilla, con direzione lavori di Tarra e dell’architetto Coppola),
incastonata, tuttavia, in una discutibile quinta di mattoncini rossi, coerente
con il rifacimento modernista della facciata della Chiesa della Concezione.
Così si mantenne fino agli interventi di riqualificazione post-terremoto che
comportarono l’ulteriore rifacimento della piazza, e l’eliminazione del
mattonato (non del tutto: sono conservati gli spigoli posteriori della fontana,
che danno una incongrua alternanza tra pietra e mattone, per fortuna poco
visibile nel complesso).
Col rimontaggio del 1959 non tutto tornò
al suo posto. Da un articolo di giornale (Giornale d’Italia, 27 settembre
1959), leggo che «i pezzi furono rifatti
con la stessa pietra e con l’identico volto dell’antico. Ma per fortuna si
aggiunge che la parte scolpita ebbe
bisogno soltanto di restauro, anche se accuratissimo, ché si era riusciti a
porre in salvo oltre il 95% di questa».
La testa di elefante disegnata da Cesare De Leonardis (1890/1901) |
L’Elefante
In quel cinque per cento di fontana andato distrutto per sempre dobbiamo
registrare la curiosa protome lì presente fino al 1943 sul lato sinistro, a fare da
controcanto alle due teste leonine che, per fortuna, si sono invece conservate
su quello destro. Nell’attualità, il posto che fu della protome è occupato
dall’epigrafe dettata da Angelo Viti e celebrativa della riedificazione (In coelestiniano clavstro | Aeserniensivm grato
| animo civivm | scatvrigo mea hodie refluit | MCMXXXXIII – MCMLIX).
Particolare ingrandito della cartolina sopra pubblicata, con bene evidente la protome identificata come «testa di elefante». Oggi, al suo posto, la lapide dettata da Angelo Viti per la riedificazione del 1959. |
Non ho trovato – ma potrebbe essere per
mia superficialità di inquisizione – in alcun
libro, articolo, saggio sulla Fraterna riferimenti alla strana pietra, che al
mio occhio pare una testa di elefante
priva di proboscide, perché troncata in altra e più remota vita, prima che il
demiurgo la infiggesse a fare da laterale della fontana. La mia attenzione sulla pietra si è accesa
curando le didascalie per il volume – che sarà presto edito da Volturnia – sui
disegni che Cesare De Leonardis realizzò, tra il 1890 e il 1901, per illustrare
la propria copia del Garrucci. Uno dei disegni ritrae appunto il particolare
della testa, al tempo di De Leonardis
presente sulla fontana. Più che alla classicità romana, la testa di elefante dovrebbe riferirsi ad
un contesto medievale. Se si guarda altrove, troviamo l’elefante – simbolo di
forza, saggezza, memoria, temperanza e amore cristiano che, col suo pachidermico
peso, schiaccia il peccato – impegnato nel suo ruolo di indefesso portatore di
peso. Così, per es., nel trono del vescovo Ursone, nella Cattedrale di Canosa
di Puglia (del maestro Romualdo, 1079/1089), due elefanti reggono la sedia
gestatoria. Se si guarda alla loro testa, e la si immagina priva di proboscide,
otteniamo una forma non lontana dalla strana protome isernina, che, per altro,
si presenta con la parte sommitale piatta, dunque probabilmente utilizzata
proprio quale piano d'appoggio di appoggio per un manufatto sopra collocato.
L'elefante della Cattedra del vescovo Ursone, nella Cattedrale di Canosa di Puglia, XI sec. |
Ho interpretato la protome come testa di
elefante dal primo momento che l’ho vista. Mi accorgo ora che l’identificazione
può non essere immediata. Sulla particolare forma “a ventaglio” di ciò che io
vedo come orecchie, chiamo tuttavia come testimone a conferma la pagina del
codice qui fotografato: l’elefante, per l’artista medievale, rimane comunque animale
lontano e misconosciuto: siamo in un ambito di conoscenza e familiarità con
l’oggetto ritratto e rappresentato che non è diverso da quello che si aveva
verso gli sciapodi e i blemmi e altre esotiche mostruosità.
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