lunedì 20 ottobre 2025

Le chiese di Pietro. Fondazioni dei Celestini in città

Isernia e Celestino è relazione che va esplorata - e mi accorgo che non era stato fatto prima sulle pagine virtuali di questo blog - anche con riferimento alle fondazioni monastiche cittadine: parlo dei due monasteri di S. Spirito e di S. Pietro Celestino, che, sebbene sorti in epoche diverse, hanno avuto uguale sorte nel corso del secolo scorso e persistono, come memoria, ormai solo in vecchie foto bianco e nero, o nei disegni dell'ultimo decennio dell' 800 che ci ha lasciato - preziosa testimonianza - Cesare De Leonardis. Parleremo poi di altri edifici di culto cittadini comunque legati a Pietro del Morrone: la Chiesa dell'Immacolata Concezione, Santa Maria della Sanità e la cappella di S. Spirito.


Resti del monastero di S. Spirito


S. Spirito

Nella Bolla di confermazione dell'Ordine di S. Spirito de Maiella data da Gregorio X il 22 marzo del 1275 (bolla con cui si stabilisce che i monaci di Pietro seguano la Regola benedettina e, per questo, possano mantenersi come congregazione superando il divieto conciliare del Laterano IV di istituzione di nuovi ordini religiosi) è presente l'elencazione di tutti le chiese, allora esistenti, appartenenti all'Ordine; tra di esse troviamo S. Spirito di Isernia. Il monastero isernino è di recentissima istituzione poiché l'atto di donazione con cui  lo iudex isernino Filippo Benvenuti, unitamente a Glorietta sua moglie, beneficia Fra Placido, procuratore della chiesa di S. Spirito della Maiella, di una «vinea infra fines civitatis Isernie a parte orientis in loco ubi Pons de Arcu dicitur» perché lì venga edificata una chiesa, è del 10 ottobre 1272; dalla bolla lionese sono passati neanche tre anni. L'indicazione geografica (pars orientis e Pons de arcu) è quantomai precisa: il declivio sul quale sorgerà il monastero è, appunto, posto a est dell'abitato di Isernia e degrada verso il corso del fiume Carpino (Gianocanense, in antiquo), a superare il quale - anche allora - doveva esserci un pons de arcu. Oggi tutta la zona, non a caso, prende il nome di Santo Spirito.

L'atto di donazione di Filippo e Glorietta è nel Fondo archivistico di S. Spirito presente presso l'Abbazia di Montecassino (tutte le carte del monastero celestino,  con la soppressione dell’Ordine del 1807 e il successivo Concordato del 1818, vennero versate in quell'archivio; vedi Faustino Avagliano, Le più antiche carte di S. Spirito d’Isernia nell’Archivio di Montecassino, 1971). La donazione attribuisce patente di falso grossolano a ciò che afferma invece il nostro Gio: Vincenzo Ciarlanti quando scrive nelle sue Memorie historiche che il monastero di S. Spirito di Isernia è stato edificato su terreno di Angelerio, padre di Pietro. Falso grossolano perché ingenuo: non credo ad una perfidia del primicerio isernino a voler precostituire una prova che leghi Pietro ad Isernia, quanto piuttosto a un tributo pagato alla tradizione, alla voce popolare: se in città si diceva così, allora era vero.

Piuttosto, una particolare preminenza della chiesa isernina all'interno dell'Ordine morronense  - e, per deduzione, indizio di un favor di Celestino verso Isernia sua patria - è provata da una notizia data nella tesi di dottorato di Adolfo Morizio (discussa nel 2008 all' Università di Padova e, per fortuna, disponibile per la consultazione): papa Benedetto XI - il cui pontificato (1303-1304) segue quello di Bonifacio VIII - decretò che il priore del monastero isernino, unico insieme con quelli di Santa Maria di Collemaggio e di Santo Spirito a Maiella (come a dire: le due fondazioni celestiniane più importanti), dovesse annualmente visitare l'Abate generale dell'Ordine in Santo Spirito al Morrone. Tanto in un periodo in cui i monaci di Pietro si erano già insediati a Roma (con San Pietro in Montorio e S. Eusebio all'Esquilino). Isernia più importante delle sedi romane, quindi. 

Inoltre, dalla lettura dell'Autobiografia (Vita sanctissimi patris fratris Petri de Murrone seu Celestini pape quinti. In primis tractatus de vita sua quam ipse propria manu scripsit et in cella sua reliquiddi), veniamo a conoscere che solo per quattro fondazioni dell'Ordine i lavori furono seguiti direttamente, in presenza, da Pietro: S. Spirito della Maiella, S. Maria del Morrone (poi divenuta S Spirito del Morrone, casa generalizia), S. Antonio a Ferentino e, appunto, S. Spirito di Isernia.  

Dalle fonti sappiamo che il vescovo Matteo, nel settembre del 1276, rilascia ai monaci l'esenzione dalla giurisdizione episcopale per la loro chiesa – qui e in altre carte di Montecassino indicata come «S. Spiritus de novo constructa in civitate Ysernia». Il documento è noto anche perché viene citato, a sproposito, come asserita prova dei natali isernini di Pietro: tuttavia, pur rivolgendosi a lui direttamente, il vescovo Matteo non prepone alcun concittadino nè dà nel testo altra utile indicazione sulle origini del monaco. Importante, per la verità, il documento lo è per altri versi: è il primo noto per aver concesso ai monaci di Pietro l'esenzione episcopale; recepisce inoltre la novità circa l'uso della Regola benedettina (si indica infatti la chiesa di Santo Spirito come appartenente all'Ordine di S. Benedetto). Ma che significa esenzione episcopale? Va considerato che la proliferazione degli ordini monastici nel Medio Evo generò diversi contrasti con il clero diocesano: i corpo dei fedeli era un dato finito e se seguiva (con donazioni, omaggi, considerazione) i nuovi monaci, distraeva le sue attenzioni dal clero secolare. Quindi, con difficoltà i vescovi riconoscevano queste limitazioni di giurisdizione verso gli appartenenti ad un ordine religioso che insistevano sul territorio diocesano. Il privilegium exceptionis del vescovo esenta dunque i monaci di S. Spirito «ab omni episcopali iure et cuiuslibet obligatione conditionis tam in temporalibus quam in spiritualibus»: il presule isernino rinuncia all'esercizio di ogni potere gerarchico, disciplinare; non può scomunicare o interdire i Maiellesi o anche semplicemente convocarli presso di lui. Tuttavia, Matteo conserva - e ciò è più importante - alcuni diritti di natura economica: mantiene gelosamente il diritto a percepire decime sulle sepolture accettate nella chiesa di S. Spirito (il c.d. ius eligendi sepulchrum), così come sulle donazioni verso la stessa effettuate; in più l'esenzione dalla giurisdizione episcopale è riconosciuta verso il pagamento, a titolo di pensionis vel census, di una libbra di cera da versarsi annualmente alla mensa vescovile nel giorno della festa di S. Pietro (Apostolo). Come a dire: tenetevi pure la vostra autonomia, basta che paghiate quel che c'è da pagare.  Il privilegium del vescovo Matteo, unitamente a quelli che seguiranno da parte degli altri vescovi di Chieti, L'Aquila e Trivento, verrà ratificato ufficialmente da papa Nicolò IV, con la Debite providentiae del 20 febbraio 1291, che sottoporrà direttamente sotto la giurisdizione del vescovo di Roma  («in ius et proprietatem beati Petri et Apostolice sedis») i fratres dell'Ordine morronense, riconoscendo in perpetuo l'esenzione dalle giurisidizioni episcopali. Morto Nicolò IV da lì a poco, sarà poi Pietro a diventare papa come Celestino V e il suo Ordine diverrà ancora più potente.

Il fondo archivistico di S. Spirito conservato a Montecassino, riferito agli anni che vanno dal 1274 al 1299, è costituito da 43 documenti. Sono per lo più atti di donazione o di compravendita che, in città, accrescono la potenza dell'Ordine (e creano, come visto, risentimento nel clero secolare). Diamo indicazione delle più vicine alla fondazione, rimettendo per la restante parte all’opuscolo di don Faustino Avagliano (Le più antiche carte ... di cui sopra).


Le rovine del monastero in un disegno di Cesare de Leonardis (ca. 1890).
La didascalia riporta: «diruto casino della nobile e ricchissima famiglia Maselli»

La carta n. 1 è quella della donazione del giudice Filippo Benvenuti, che ritroviamo anche nel successivo documento indicato nel regesto al n. 5: il 18 febbraio 1280, i coniugi Benvenuti donano alla chiesa di S. Spirito «alcune case con orto contiguo nel quale la detta chiesa è costruita, site nella parte orientale della città, una casa con orto nella parrocchia della chiesa di S. Maria del Vicinato, e una vigna in località Plana, con il consenso e la volontà del vescovo Matteo e dei canonici del capitolo cattedrale»; è particolare la sensibilità mostrata da Filippo e Glorietta verso i monaci celestini: non sappiamo di eventuali donazioni effettuate a beneficio anche degli altri ordini monastici presenti in città (è del 1267 la fondazione del Convento dei Frati Minori di S. Francesco) o verso il clero secolare, ma certamente in pochi anni effettuano consistenti donazioni pro anima e il giudice Benvenuti lo troviamo anche come procuratore della chiesa in altri atti di donazione o compravendita nell’interesse del monastero di S. Spirito (per es. nella carta n. 10). Dal punto di vista dei beni che vengono donati, molte sono le vigne (e quasi tutte in prossimità del monastero); il 7 aprile del 1276 è Mercurio, nato ed abitante in Isernia, figlio del giudice Ruggero, a donare pro anima una vigna in località Pons de Arcu (carta n. 3). Una vinea in Pons de Arcu la cede pure Rainaldo Racca, però in vendita (n. 6). Il 16 maggio del 1274, Maria vedova di Domenico da S. Vito dona una vigna e due case nella parrocchia di San Michele (n. 2). Nel 1279, Giovanni, figlio del fu Fiore di Raimondo, entrando come novizio nel monastero di Santo Spirito di Isernia, dona allo stesso monastero la metà di una pezza di terra che aveva in città (n. 4). Nel 1280, il 26 giugno, «Altruda, vedova di Milizio, nata ed abitante ad Isernia, dona a Rinaldo da Montedimezzo, che riceve in nome e per conto della chiesa di S. Spirito della Maiella in Isernia, una casa sita nella parrocchia di S. Paolo, riservandosi per sé l’usufrutto vita natural durante; con la condizione che se sua figlia Todesca, alla sua morte, volesse riscattarla, dovrà pagare alla chiesa di S. Spirito ventidue tarì d’oro e dieci grani entro un anno dal giorno della morte; se invece dovesse morire prima la figlia, allora la casa rimanga senz’altro al monastero di S. Spirito (n. 9)». Va da sé, che le carte danno notizie preziose non solo su S. Spirito: p. es. la parrocchia di San Michele – ma ci torneremo poi – corrisponde ad una chiesa situata nella parte meridionale dell’abitato e attestata fino alla metà del 1600; San Paolo – più nota – è la chiesa che gemellava la cattedrale di San Pietro dall’altro lato dell’Arco di S. Pietro, nel luogo dove  sarà edificato il Palazzo dei conti della Castagna e, quindi, il Seminario diocesano (1719).

In altro fondo archivistico - quello di S. Spirito del Morrone, sempre versato a Montecassino -  troviamo notizia del 3 marzo 1291 riguardante la concessione in uso di un vigna prossima al monastero che Fra Nicola, priore di S. Spirito della Maiella in Isernia, fa a Dionigi da Sulmona, cittadino di Isernia, per un censuo annuo di una libbra di incenso. A rogare l’atto è il giudice Rampino (n. 190 del Regesto). Altro documento del 1304 – una vendita tra privati: il prete Pietro da Castropetroso e Roberto di Rainaldo – è per noi interessante perché riporta che la vinea oggetto del passaggio di proprietà si trova in Isernia in località Santo Spirito (n. 290). La presenza del monastero ha da allora in poi definito la zona suburbana che ancora oggi indichiamo con lo stesso nome. En passant, nel 1320 è priore del monastero isernino Pietro da Caramanico (lo veniamo a conoscere dalla lettura della carta n. 387).

La Fraterna e la chiesa dell' Immacolata Concezione

Nell'Archivio capitolare della Cattedrale di Isernia si conserva un antigrafo del XVI secolo che riproduce il testo  della Bolla del vescovo Roberto (del 1 ottobre 1289) di riconoscimento dei capitula della Frataria laicale isernina (Capitula Fraternitatis Fratruum) istituita sotto l'egida di Pietro del Morrone («opera et labore religiosi viri») e - sia detto per inciso - prova regina delle origini isernine del santo, perché in essa - documento contemporaneo a Pietro - l'eremita del Morrone viene definito cittadino di questa città di Isernia. Qui ne parliamo non certo per riaprire la vexata quaestio su dove sia effettivamente nato San Pietro Celestino, ma perché legata alla Fraternitas isernina c'è un altro luogo di culto cittadino: la chiesa della Concezione. 


Chiesa dell'Immacolata Concezione. Nell'ultima ristrutturazione sono state cancellate le superfetazioni anni '60 e sono state ripristinate le sobrie linee neoclassiche post terremoto del 1805


Procediamo con ordine. Nel Medioevo molte sono le confraternite laicali ispirate al vivere secondo religione e finalizzate principalmente a compiere opere di pietà, carità e assistenza. Gli ordini mendicanti (francescani e domenicani) spostano l'asticella e creano un un Terz'Ordine accettando sotto l'ombrello della congregazione un gruppo di laici che, pur rimanendo nel loro stato di vita secolare, si propongono e si impegnano a vivere secondo la spiritualità e le finalità di un ordine religioso. 

Ci si interroga sull'esistenza di un Terz'Ordine morronese e, in seguito, celestiniano. Secondo Tommaso da Sulmona (discepolo di Pietro, autore della Vita C del santo), le confraternite legate ai Morronesi avrebbero avuto ampia diffusione in diverse città, arrivando a contare anche mille associati. Ma di tutte queste, lfrataria o fraternitas di Isernia, è la sola di cui sia pervenuta notizia: sarebbe, pertanto, l'unica testimonianza di un asserito Terz'Ordine creato da Pietro. 

A Isernia la Fraternitas ebbe assegnata dal vescovo Roberto la preesistente chiesa della Concezione, presso la Porta da Capo (dove la tradizione popolare vuole anche la casa di Pietro), e qui ebbe la sua sede. Come riferisce Ciarlanti, i confratelli istituirono due spedali per la cura degli ultimi, che nel 1364 vennero uniti da un ponte ad arco aggettante sul vicolo, «per poter governare ambidui i spedali et andare dall'uno all'altro senza uscire fuori alla strada». 

Così la descrive l'ingegnere camerario Casimiro Vetromile venuto a Isernia nel 1744 per procedere all'apprezzo della città in vista del suo riscatto dalla feudalità:

«La detta chiesa risiede nella parte superiore dentro dell’abitato di detta Città di rincontro la porta detta da Capo della medesima e consiste a fronte della strada principale in una porta quadra, che dà l’ingresso a detta chiesa, la quale contiene una nave coverta con suffitta di legname, mattonata nel suolo. Nel lato a destra entrando vi è cappella con altare di fabrica e cona di legname, sotto il titolo di S. Maria di Monte Carmelo e ne’ lato a sinistra vi è altra cappella, fondata col simile altare e cona col quadro di san Nicola. In testa vi è l’altare maggiore con custodia e dietro di esso vi è coro, con cona in testa di legname, con quadro dell’Immacolata Concezione, con porta corrispondente ad una sacrestia principiata e non compita. La detta chiesa tiene il campanile con due campane e scaletta di fabrica, per la quale si ascende all’orchestra di legname con organo e viene la medesima governata dall’Università. Tiene d’entrata annui ducati 150 in circa, siccome mi han detto, li quali si applicano per le sante messe, cere ed altro che occorre ad essa chiesa.»

La chiesa, come delineata da Vetromile, cessò bruscamente di esistere con il grande tremuoto del 26 luglio 1805. Sappiamo che la parte a nord dell'Arco di S. Pietro fu quella che maggiormente subì le distruzioni del sisma. Pasquale Fortini, nella sua cronaca sui danni del terremoto di S. Anna (Delle cause de' terremoti e dei loro effetti | Danni di quelli sofferti dalla città di Isernia fino a quello de' 26 luglio 1805), così riporta per la chiesa dell'Immacolata Concezione: 

«La chiesa della santissima Concezione di giu patronato della città (...) l'è tutta a terra, esistono solamente due mura laterali, e quello a fondo, ma uno anche mal concio; la di lei sacrestia anche è devastata.» 


Da Santo Spirito a S. Pietro Celestino

Torniamo ad occuparci di monasteri. Tanta ricchezza fondiaria - testimoniata dai documenti dell'Archivio di Montecassino - non impedì, secoli dopo, che il monastero di Santo Spirito entrasse in crisi. La sua collocazione esterna alle mura («fuora la città lontano da mezzo miglio») lo aveva, col tempo, penalizzato e «per non essere volenteri habitato da' religiosi» ridotto «quasi tutto in ruina». Per questo, il priore Giovanni Battista Romano avanzo alla città richiesta di un’area per edificare un nuovo monastero. In data 8 febbraio 1623  il mastrogiurato e gli eletti decisero di accogliere le richieste dei monaci e donare ai Celestini un largo prossimo alla Porta da Piedi per l'edificazione di un nuovo monastero e chiesa nella città «a spese della religione», facendo richiesta al Consiglio Collaterale, in Napoli, di regio assenso alla cessione (il virgolettato è tratto da questa istanza). Poiché l’area scelta per l’edificazione comprendeva la chiesa di S. Michele, con la relativa parrocchia, occorreva un ulteriore permesso: papa Urbano VIII (1623-1644) con suo rescritto autorizzò l’incorporazione della precedente parrocchia (con i diritti che le pertengono) nella nuova chiesa, intitolata a S. Pietro Celestino.


Il monastero di S. Pietro Celestino (in fondo), con la chiesa e, in primo piano, la fontana cd. "asso di coppe", realizzata a metà Ottocento 


La posa della prima pietra è del 5 marzo di quello stesso 1623; al 3 maggio, il priore dei Celestini, Giovanni Battista Romano, già abita nel nuovo complesso, anche se ancora cantiere. Il 20 agosto 1263 la chiesa viene benedetta e aperta al culto (si pensi, per confronto, ai tempi biblici di costruzione delle nostre scuole o ospedali, che durano decenni).

Nel 1627 il vecchio monastero di Santo Spirito, sebbene in ruina, è attestato infatti come dipendente dal priorato di S. Pietro Celestino di Isernia; ed in effetti, quando Giovan Vincenzo Ciarlanti parla incidentalmente del monastero, dicendo che 1288 ne fu priore Rainaldo di Rionegro, parla di una campana che questi fece costruire «che vi è anche al presente» quindi 1644 - «con la sua iscrittione».   


Monastero di S. Pietro Celestino, lato sud


Non conosciamo, invece, il momento in cui cessò il collegamento tra Santo Spirito e l'Ordine dei Celestini: è particolare che nella didascalia del disegno di Cesare De Leonardis, realizzato intorno al 1890, e che chiaramente si riferisce al monastero celestiniano, il sito venga rubricato come  «Diruto casino della fu nobile e ricchissima Famiglia Maselli da Isernia, in contrada S. Spirito». Il rudere del monastero, alla fine dell' 800, era riconosciuto come casino della famiglia Maselli, perdendosi ogni collegamento con i monaci.  


Il monastero di S. Pietro Celestino nel disegno di Cesare de Leonardis (ca. 1890).
La didascalia riporta: «Ex monastero di S. Pietro Celestino presso il Ponte della Prece, addetto a Caserma dei RR. Carabinieri»


Il nuovo monastero e chiesa, intitolati a San Pietro Celestino, cento anni dopo saranno descritti da Vetromile (nell'Apprezzo) in questi termini:

 

«Risiede il monistero suddetto attaccato alla porta detta da Piedi di detta città e proprio a sinistra entrando in essa. Consiste a fronte della strada principale della medesima in due porte, per la prima si ha l’adito nel chiostro di detto monistero da descriversi e per la seconda si entra nella chiesa d’una nave coverta con suffitta di tavole depinta con quadro nel mezzo e col suolo di mattoni. Nel lato a destra entrando vi sono due cappelle con altari di fabrica e cone di legname. La prima sotto il titolo di S. Benedetto, la seconda della S.ma  Trinità. Nel  lato a sinistra vi sono due altre cappelle simili. La prima coll’altare di marmo e cona di stucco, sotto  il titolo della santissima Vergine e la seconda coll’altare di fabrica e cona di legname sotto il titolo di san Pietro celestino, con statua di legname di detto santo. In testa poi a detta chiesa vi è l’altare maggiore di marmo con custodia di legname e dietro il medesimo il coro coverto a lamia con sedili e spalliere di legname, con olchestro ed organo e porta, che dà l’adito nella sagrestia coverta a lamia, col comodo del bancone, con stipi dove si conservano le supellettili di detta chiesa. Tornando alla strada per l’altra parte accennata di sopra si entra nel chiostro di due solo corridori  e giardinetto con fontana d’acqua perenne, in piano a quali corridori vi sono vari bassi per comodo  di esso monistero e da essi mediante scala di fabrica si ascende in due dormitori, in piano de’ quali sono dieci celle, la cocina e rifettorio ed anche il campanile con tre campane attaccato alla parte di detta città. Qual monistero tiene di famiglia quattro sacerdoti e due conversi. E per il di loro man tenimento [h]anno d’entrata annui ducati 400 in circa siccome mi han riferito».

Il terremoto del 26 luglio 1805 non reca grandi guai al monastero: è nella parte della città che subisce minori danni, quella a sud dell'Arco di San Pietro. Resiste alle onde telluriche, ma nulla può il monastero contro i francesi. L'Ordine dei Celestini viene sciolto, al pari di altri, con la legge 13 febbraio 1807, emanata da Giuseppe Bonaparte; i beni delle congregazioni religiose vengono acquisite al Demanio. Quando ai Napoleonidi si sostituiranno i Borbone, non si ritornerà indietro: nel nuovo Regno delle Due Sicilie, l'ex monastero ospiterà la sede della Sottointendenza per il distretto di Isernia, uno dei tre della provincia Contado di Molise. Qui, infatti, si dirigerà la folla degli insorti il 30 settembre 1860, nel giorno dell'epifania della Reazione di Isernia (come altrove si è detto). 


Il monastero di S. Pietro Celestino completamente distrutto per effetto delle mine tedesche


La chiesa di S. Pietro Celestino, unica rimasta del complesso monastico

Con il Regno d'Italia, l'ex monastero diviene caserma dei Reali Carabinieri, destinazione d'uso che manterrà fino al 1898 quando si sposteranno nella nuova sede di Palazzo Orlando, fuori dall'abitato storico. Nel 1943 l'ex monastero verrà minato dall'esercito tedesco per ostruire la strada sottostante al passaggio degli Alleati; di contro, la Chiesa di San Pietro Celestino si conserverà fino ai giorni nostri.

S. Maria della Sanità 

Il discorso va completato con un accenno ad un diverso sito religioso, ancora presente come rudere nell'attualità (forse per poco altro tempo, vista la pressione che la città in espansione esercita sulle deboli reti da pollaio che ne delimitano i confini): sto parlando della chiesa di S. Maria della Sanità , posta alla prima curva della strada di collegamento tra la città di cemento, il cimitero e, più oltre, lo svincolo della tangenziale intitolato con l'eponimo Spirito Santo. Se occorre trattarne qui è perché molti ancora confondono la chiesa con il monastero e si riferiscono a questa (ai suoi resti) come ruderi di quello.  


S. Maria della Sanità, situazione precedente alla Seconda Guerra Mondiale


S. Maria della Sanità nel disegno di Cesare de Leonardis (ca. 1890)


Madonna della Sanità (o Madonna della Salute) è titolo mariano che si diffuse come predicato della Madonna a seguito della peste del 1630 (che colpì Nord e Centro Italia, non scendendo oltre Roma); nel Vicereame, la peste - probabilmente un diverso ceppo - colpì più tardi, nel 1656: a Isernia con esiti devastanti. In occasione della pandemia, seguendo l'esempio di Venezia (che iniziò l'edificazione di S. Maria della Salute nel 1631), diverse chiese furono intitolate alla Madonna che dà la salvezza.  

Della nostra chiesa della Sanità parla Casimiro Vetromile nell'Apprezzo (lo abbiamo indicato sopra): 

«E finalmente, oltre delle suddette chiese e monisteri, vi sono altre chiesole seu cappelle nelle quali si celebra la messa nei giorni festivi solamente. [...] S. Maria della Sanità, jus patronato della famiglia Maselli, da dietro di detto convento di Santa Maria delle Grazie, ed un'altra in appresso di S. Spirito fra le rovine dell'antico monistero edificato da S. Pietro Celestino cittadino di Isernia».  

L'ingegnere camerario sta elencando le chiese minori ancora attive in città al 1744, tanto che vi si celebra messa nei giorni festivi. Oltre S. Maria della Sanità, c'è un'altra chiesa in appresso di S. Spirito, fra le sue rovine. Non può essere pertanto Santa Maria della Sanità la chiesa del cenobio dei Celestini che si incontra nelle fonti, quella - per intenderci - costruita sulla vinea di Filippo e Glorietta, l'oratorium vel ecclesia de novo constructum della bolla di esenzione del vescovo Matteo. Per inciso, Vetromile ci offre anche un'indicazione circa il perché alla fine dell' 800 i resti del monastero di S. Spirito venissero indicati come casino di campagna della famiglia Maselli: poiché avevano jus patronato sulla vicina chiesa della Sanità, è probabile che lì avessero proprietà su ampie porzioni di terreno; andrebbe trovato un atto di vendita del diruto monastero ai Maselli per chiudere il cerchio.


La chiesa della Sanità (a sin.) e i resti del Monastero (a des., sotto gli archi)


Qual è la data di fondazione di S. Maria delle Sanità? Angelo Viti, nel suo Note di diplomatica ecclesiastica sulla Contea di Molise, del 1972, riferisce che tra le macerie della chiesa, parzialmente distrutta dalle bombe alleate del 1943, venne rinvenuta una lapide 

«in pezzi, purtroppo il frammento indicante l'anno dell'erezione non fu trovato, comunque ricostruita diceva: 

SPES MEA IN SANCTA / MARIA SANITATIS IOES ... VINCENTIUS VITI ISER.NIE / FVNDATOR AC PATRONUS / HVIVS ECCLESIE QUAM ET ...  / AM ... DOTAVIT ANN... »

Viti, omonimo del fundator della chiesa, sulla base di una diversa epigrafe da lui individuata sul campanile della chiesa napoletana dei SS. Severino e Sossio, nella quale è citato un abbas Vin. Viti de Aeserniae nell'anno 1337 ritiene di poter stabilire in quegli anni la data fondazione anche di Santa Maria della Sanità, riconoscendo che - in ogni caso - la fondazione della piccola chiesa «deve essere posteriore a quella di S. Spirito anche perché nelle Rationes decimarum  (...) l'elenco dell'anno 1309 nulla riporta».


La lapide nel disegno di Cesare de Leonardis. Indicato l'anno di fondazione: 1634


A completare il puzzle con il pezzo mancante, è venuto in soccorso - dal passato - Cesare de Leonardis (vd. l'edizione de La storia di Isernia del Garrucci illustrata da Cesare de Leonardis, volume edito a cura di Manuela de Leonardis e di chi scrive, nel 2018); il notaio isernino, appassionato cultore della città e dei suoi monumenti, intorno al 1890 disegnò la Chiesa di S. Maria della Sanità e riportò fedelmente la lapide che Viti vide spezzata e incompleta: si legge, quindi, nel 1634 la data di fondazione. Nell'epigrafia latina, una linea soprascritta indica una contrazione per sospensione: di una parola vengono riportate solo le prime e ultime lettere. Nella lapide a "IOES" è sovrapposta una linea: se interpreto correttamente, sciogliendo la contrazione si avrebbe "IOHANNES". Il nostro fundator ac patronus sarebbe allora Giovan Vincenzo Viti (il commediografo isernino del quale conosciamo i titoli di tre lavori pubblicati a Napoli negli anni tra il 1620 e il 1631, indicato da Pasquale Albino nella sua Biblioteca molisana, 1865). Siamo, in ogni caso, trecento anni dopo la presunta data di fondazione indicata, seppure per sforzo di deduzione, da Angelo Viti, ed in coerenza con il titolo mariano di Signora della Sanità che proprio in quegli anni si diffonde contra pestem

Un ultima nota di colore: nel 1799, allorché i Francesi del generale Duhesme espugnano Isernia e si abbandonano ad atti di rapina e devastazione (soprattutto verso gli edifici di culto), anche la chiesa della Sanità subisce saccheggio di quel po' di arredo che doveva contenere. Negli obituari parrocchiali del tempo si trova che in quelle giornate di guerra muore anche un «Franciscus de Pasquo de Agnone», di anni 65, «eremita della cappella de S. Maria de la Sanità». 
 

Cappella S. Spirito (S. Giuliano?)

Ma non possiamo ancora dire di aver esaurito l'argomento: dobbiamo far riferimento ad altra chiesa sotto il titolo di Santo Spirito, ritratta in un disegno del 1891 da Cesare de Leonardis ed epigrafata come «Cappella diruta di S. Spirito, da cui la contrada S. Spirito o Pietralata». Che sia questo l'oratorium vel ecclesia de novo constructum del vescovo Matteo?


La Cappella di S. Spirito (1891).
Per De Leonardis è da questa chiesa che la contrada prende il nome

 

Seguendo Angelo Viti (a p. 222 del suo Note di diplomatica ecclesiastica cit.)  la cappella di S. Spirito «esisteva fino a pochi anni addietro» - scrive nel 1971 - «lungo il vecchio diverticolo denominato S. Leucio [...] Era una graziosa costruzione absidata posta accanto alla cappella funeraria Jadopi. Anni fa era stato già rimosso da ignoti l'ornamento frontale consistente in un agile protiro goticheggiante; tra le due colonnine litee risultava una lunetta con affresco».


Cappella di S. Spirito (S. Giuliano?). Manca la lunetta con affresco


Cappella Jadopi


La descrizione data è perfettamente coerente con il disegno del notaio de Leonardis: protiro, lunetta, tutto combacia. Resta da capire la collocazione: Viti la dà accanto alla Cappella della famiglia Jadopi, che era posta lungo l'attuale Corso Risorgimento all'altezza dell'incrocio con via Formichelli (dov'è il bar Risorgimento, per capirci) e che fu demolita il 9 marzo 1965 proprio perché di ostacolo alla realizzazione dell'arteria cittadina (sporgeva troppo sulla sede stradale, pare). In alcune fotografie dell'inizio degli anni '50 reperite in rete, a margine di un sentiero di campagna che diventerà poi la lingua d'asfalto di Corso Risorgimento, si notano, uniche costruzioni, la cappella Jadopi e, più defilato, un altro corpo di fabbrica, più basso, privo di copertura: la nostra cappella di S. Spirito. 





Notare i due corpi di fabbrica in fondo, Cappelle Jadopi e S. Spirito (S. Giuliano?)
 

Resta solo da capire una cosa: protiro, navata unica e abside (come ci dice Viti) sono pienamente compatibili con un manufatto del XIII secolo: che sia questa la chiesa sorta sulla vinea del giudice Benvenuti? Quella che Vetromile indica in appresso, tra le rovine del monastero di S. Spirito?

L'ipotesi è suggestiva, ma siamo molto lontani dal sito di impianto del cenobio celestiniano. I monasteri fondati da Pietro dal Morrone inglobano al loro interno la chiesa: è difficile pensare che S. Spirito di Isernia l'avesse a distanza. Più plausibile che la cappella, pur sotto lo stesso titolo, sia chiesa autonoma rispetto al complesso celestiniano di  S. Spirito. 

Azzardo un'ipotesi che vale come spunto per prossime ricerche: pur confidando in de Leonardis, non ho trovato in nessun'altra fonte riferimenti ad una cappella sotto il titolo di S. Spirito: le Rationes decimarum per l'anno 1309 indicano Santo Spirito solo con riferimento al monastero (certamente, la nostra cappella potrebbe essere successiva e in tal caso non comparire). Tuttavia, nel Corpus Incriptiones Latinae (vol. IX; p. 255, n. 2751), Mommsen (a Isernia nel 1846) localizza un'iscrizione in «in ruderibus ecclesiae S. Iuliani a Spirito»; la medesima lapide è da padre Garrucci (p. 171 della sua Storia di Isernia, 1848) «riveduta a S. Spirito nel tenere del mio amico Sig. D. Michele La Liccia». 

Abbiamo tutti i dati: confortato da Garrucci, interpreto lo Spirito di Mommsen come riferito alla località S. Spirito; ricordo che  S. Giuliano è una di quelle antiche chiese isernine riportate dalle Rationes ma che non sappiamo collocare dentro o fuori la città. Ora, per quanto col toponimo S. Spirito allora si indicava un'area senz'altro più vasta di quella attuale, credo difficile che in quel suburbio, tra il  1846 e il 1891, coesistessero così tante chiese dirute

Concludo, si licet: potrebbe la chiesa chiamata da de Leonardis S. Spirito essere la diruta ecclesia S. Iuliani, in S. Spirito, di cui scrive Mommsen? 


C.I.L., n. 2751. Aeserniae in ruderibus ecclesie S. Iuliani

 

  


(Tutte le foto utilizzate nel presente articolo sono state reperite in rete prive delle indicazioni prescritte dall'art. 90 della Legge sul diritto d'autore - L. n. 633/1941 - e vengono utilizzate al solo scopo di illustrare l'articolo; sono salvi tutti i diritti dei rispettivi proprietari)



mercoledì 15 ottobre 2025

«Il papa fuori dal mondo». Parliamo (ancora) di Celestino


Lunedì 13, dopo la proiezione del documentario di Cinzia Th. Torrini e Ralph Palka (è su YouTube, qui), c'è stata l'occasione per parlare (ancora) di Pietro del Morrone, Celestino V, San Pietro Celestino. 
Si è partiti dal luogo di nascita. Poteva essere diversamente? Dobbiamo arrenderci.

Se non ne facciamo una questione di campanile, con buona pace delle pro loco, possiamo accordarci su una nascita in terra molisana (come del resto da ultimo fanno Wikipedia e il Vaticano). Per la vicenda umana e spirituale di Pietro, sapere che sia nato a Isernia o Sant'Angelo Limosano è assolutamente ininfluente, soprattutto considerando che quanto di rilevante abbia fatto per la storia del cristianesimo medievale, da eremita prima e da papa poi, lo ha compiuto lontano dal Molise, da Isernia e Sant'Angelo. Al massimo, qui ha vissuto i suoi primi anni (su una vita che di anni ne ha conquistati 86 o 87).   
Se ultimamente hanno rivendicato il titolo di patria anche paesi diversi; se hanno preso piede inedite ricostruzioni, è perché le fonti ci dicono troppo, non troppo poco: c'è una ridondanza di dati - Aeserniae in Samnitibus natus; Terra Laboris; in Apulia; nato in un castello S. Angelo Comitatus Molisii prope Limosanum... - che autorizza le tesi più ardite: c'è chi dice di Morrone perché nato a Morrone (CB); chi de Marone, come cognome ancora attestato a Limosano; chi arriva a Marruvium in terra abruzzese. Tutti possono rivendicare il loro pezzetto di Pietro.  

Rimetto ad altri che più autorevolmente hanno stilato cataloghi di prove a carico (o a discarico) circa l'origine di Pietro (Ettore De Angelis o Antonio Maria Mattei, per es.). Antonio Grano nel suo libro sui Castelli di Pietro ne fa una comoda tabella, in ordine cronologico: autore - luogo di nascita. Si parla di isernisti come fosse un partito.

Dal mio punto di vista - quello di chi è interessato alla storia del territorio in cui vive - è più importante trovare le tracce di quella devozione popolare che ha fatto di Pietro un cittadino di Isernia, anche a rischio della falsificazione. Come si direbbe a Napoli, «'e figli so' 'e chi s' 'e cresce» e, a prescindere da dove sia effettivamente nato, Pietro se lo è cresciuto Isernia: la tradizione gli ha trovato genitori, fratelli e nipoti (magari posticci) tutti in città; gli ha dato una casa (vicino alla Chiesa della Concezione, prope Portam Maiorem, che è rimasta in piedi fino al bombardamento del 10 settembre 1943). Quando Ciarlanti scrive nel 1644 le sue Memorie historiche e afferma che Pietro è nato a Isernia, lo fa perché la tradizione così vuole: lo crede vero. Quando il mastrogiurato e gli eletti chiedono a Napoli l'autorizzazione della Corona a cedere una porzione di terreno all'interno della cinta muraria cittadina per l'edificazione del convento di San Pietro Celestino (1623) scrivono che Celestino Quinto è loro concittadino (e, immagino, lo dicano in assoluta buona fede: lo dicono perché consolidata tradizione, vox populi, lo dà per tale). Se anche la bolla del vescovo Roberto - quella di approvazione dei capitula della Fraterna, che conosciamo solo come antigrafo successivo - sia stata interpolata con l'inserimento di un "concittadino" (ma perché poi?), questa asserita falsificazione è stata dettata da una subdola volontà di affermare la nascita a Isernia in contrasto con altre pretese di natali, oppure - cosa che io credo - è stato esercizio innocente del copista che, incontrando Pietro nel documento, ha voluto orgogliosamente specificare che fosse suo concittadino?


(c) Pino Manocchio





 

lunedì 6 ottobre 2025

Una sommossa popolare contro il dazio sul vino




Inserito nel volume di Mauro Gioielli Enologia e viticoltura nell' isernino, pubblicato di recente da Terzo Millennio (ISBN 9791282236027) c'è un mio contributo sulla rivolta popolare contro l'introduzione del dazio sul vino del 26 luglio 1857. 

L'articolo rielabora un precedente post di questo blog:  

https://bibliotecamicheleromano.blogspot.com/2011/02/in-vino-paupertas-isernia-26-luglio.html

Di seguito, il link su Academia, per chi volesse leggere l'articolo, alle pagine 69-73 del volume.

https://www.academia.edu/144313472/Una_sommossa_popolare_contro_il_dazio_sul_vino

giovedì 11 maggio 2023

Isernia - Una storia, una strada, una città (Viaggio in Molise)

Piccoli protagonismi: qui giù si parla, a braccio e con qualche lapsus memoriae (Vico III Belvedere per Vico III Landenolfi), di odonomastica isernina. Puntata del programma "Viaggio in Molise" (Telemolise). Video in quattro parti, per una quarantina di minuti in tutto. 













lunedì 22 agosto 2022

I "principi di Isernia" e il poco che ne rimane. Appunti per una biografia cittadina dei d'Avalos



stemma nobiliare dei d'Avalos (dal web)


Esiste, si incontra nella Storia, l’effimero titolo nobi­liare di “Principe di Isernia”, sebbene attualmente non sia vantato da alcuna nobile schiatta, né compaia su carte in­testate e altisonanti biglietti da visita; venne creato per nomina regia allorquando Diego d’Avalos decise di ac­qui­stare per sé la città di Isernia dal duca di Montenero Carlo Greco, che appena un anno prima l’aveva tolta dal De­manio per 41.000 ducati. Era il 1644, all’epoca - buia - del Vicereame spagnolo di Napoli.

Quella dei d’Avalos principi di Isernia è una storia di rami che re-innervano il fusto,  figli cadetti promossi a un fugace successo per la premorienza dei primogeniti. È stato così per Diego; così anche per Cesare Michelangelo.

 

Isernia in vendita

Già dal 1630, Fernando Afán de Ribera, duca di Alcalá, per impinguare le magre finanze del Viceregno, aveva de­ciso di porre in vendita quei paesi e città non ancora in­feudati e dipendenti direttamente dalla Corona. A Isernia, riconosciuta fedelissima città per decreto imperiale di Carlo V (sub specie di re di Napoli) nel 1521, pur se proclamata libera da lacciuoli feudali anche per il futuro, la jattura di finire sotto più vicino ed esoso padrone venne contrastata dal nota­bilato cittadino, che offrì allo scopo i 6000 ducati tratti dalla vendita dei feudi suburbani di Riporsi e Rocca­varallo, appartenenti alla città. A Napoli (e a Madrid) l’offerta degli ottimati iser­nini rimase imponderata per molto tempo; nel frat­tempo, la banca che custodiva i  ducati - il Banco dei SS. Gia­como e Vittoria - fallì e quando si tornò a discutere di alienabilità di Isernia il discorso si chiuse subito per ca­renza di argomenti validi (i 6000 ducati, appunto). Così, nel 1638, su Isernia venne finalmente apposto un cartel­lino di vendita, come se la città intera fosse stata un carico di legna, una misura di grano, una libbra di strutto. Gli isernini inutilmente levarono ricorsi, vergarono atti di de­lega e istanze; vanamente provarono a far valere il diritto di prelazione riconosciuto alle universitas nel caso di vendita del feudo che le riguardava.

Nel 1639 (ma il pieno possesso lo ebbe solo nel 1643) la spuntò, come detto, Carlo Greco, duca di Montenero Valcocchiara, che pagò 41.000 ducati; ma tenne Isernia per poco e nel 1644 la città venne acquistata (per 21.000 ducati!)[1] da Diego d’Avalos, dei marchesi del Vasto e Pescara. Non si conoscono le ragioni di una così rapida svendita. Un anonimo mano­scritto che si conserva nell’Archivio d’Apollonio (presso la Biblioteca Michele Romano), intitolato Ricordo, o sia no­tizia sugli interessi del principe della Città d’Isernia suggerisce che il duca Greco «per poco tempo la possedé, mentre fu costretto a rifiutarla per viver quieto». Mettersi contro gli appetiti della potente famiglia spagnola apparve al duca Greco –  iser­nino, con case dalle parti di quello che, forse, per questo venne poi chiamato Vico de Graecis – opera difficile da so­stenersi senza alleanze; e poi Diego d’Avalos era di sangue spagnolo, uomo d’arme, aggressivo e focoso (le cronache giudiziarie dell’epoca ce lo dicono responsabile di almeno un omicidio per decapitazione in danno del duca Carlo Regina e dello stupro di un figlio naturale del barone d’Afflitto di Macchia di Isernia)[2].

Avuto il feudo, occorreva ora un titolo nobiliare ade­guato, che Diego chiese alla Corona e subito ottenne: fu fatto “Principe di Isernia”.

 

 



Isernia, Palazzo d'Avalos-Laurelli (da Wikipedia)

 

Dynasty

Ma chi erano questi (pre)potenti signori d’Avalos?

Diego d’Avalos, primo principe di Isernia, apparte­neva alla schiatta dei d’Avalos (in Spagna il cognome suona più spesso Dávalos e, talora, anche Abalón), che dall’originaria Navarra, scesero prima in Aragona e poi in Andalusia, seguendo il corso della Reconquista. Il ramo ita­liano ebbe origine con i fratelli Íñigo, Alfonso e Rodrigo, figli di Ruy Lopez d’Avalos, conte di Ribadeo, che giun­sero nella penisola italiana al seguito del re Alfonso V d’Aragona quando venne a prendersi il Regno di Napoli nel 1442 (Alfonso I di Napoli).

Questo primo Íñigo (in italiano è Inigo o anche Innico; confidenzialmente, potremmo dire anche Ignazio) sposò Antonella d’Aquino dei marchesi di Pescara e da lei ebbe in dote il feudo di Monteodorisio, primo nucleo del vasto territorio che i d’Avalos controlleranno come feudatari. Rami cadetti – si fa per dire – si innesteranno, col tempo, a Troia, a Montesarchio. Famiglia importante: troveremo uomini di casa d’Avalos come condottieri di eserciti imperiali nelle guerre che daranno forma all’Europa; mischieranno sangue con il patriziato napoletano dei Caracciolo, di Sangro, Guevara, Carafa, Capece Minutolo e extranapoletano (Gonzaga, Della Rovere, Trivulzio). Battono moneta, fanno da patrocinatori delle arti e collezionano tele di Rubens e Tiziano. Spesso si sposano tra cugini primi o secondi, complicando le linee genealogiche. D’Avalos fu­rono governatori del Ducato di Milano e Viceré di Sicilia, ca­stellani di Ischia e patrizi iscritti ai seggi di Napoli e Palermo; feldmarescialli imperiali e maggiordomi di corte; Principi del Sacro Romano Impero, Grandi di Spagna e cavalieri dell’Ordine del Toson d’oro; mecenati e contrabbandieri.

Ma torniamo alla discendenza di Inigo. Alla morte senza eredi del fratello di Antonella d’Aquino,  Inigo ottenne il mar­chesato di Pescara (per questo, i successori si indicano come ramo d’Avalos d’Aquino). Uno dei figli della coppia, Inigo (II) venne investito del marchesato del Vasto (precedentemente dei Guevara). I due marchesati (Pescara e Vasto) si riunirono alla generazione successiva con Alfonso d’Avalos (1502-1546), figlio di Inigo II, che ereditò il titolo di marchese di Pescara dal cugino Ferrante Francesco, morto senza figli nel 1525. Da qui in poi le due dignità marchesali viaggiano parallele e si posano, per linea diretta, sul primogenito di Alfonso, Francesco Ferdinando d'Avalos (1530-1571), e da questi al figlio Alfonso Felice (1564-1593).

Alfonso Felice lascia un’unica erede, Isabella, che va in sposa a uno zio, (un altro) Inigo d’Avalos (1570-1632) – figlio di Cesare d’Avalos, marchese di Padula e gran cancelliere del Regno – recandogli in dote i due marchesati.

 




La dignità di "Principe di Isernia", nell' Indice delli Signori Titolati
(da «Il Regno di Napoli in prospettiva [...]», 1703)

Diego, il primo principe

Con questo ultimo Inigo, marchese di Pescara e del Vasto, principe di Francavilla e conte di Monteodorisio maritali nomine, ritorniamo finalmente al nostro Diego d’Avalos, primo principe di Isernia, che di Inigo è il figlio.

Abbiamo diverse notizie bio­grafiche, tratte essenzialmente dal Diario di Francesco Ca­pecelatro. Nato intorno al 1620, gli tocca il ruolo di rampollo di nobile famiglia, ma appollaiato sul ramo cadetto. Non ereditando il titolo marchesale (che andrà al fratello maggiore Ferdinando Francesco d’Avalos[3], che sarà VI marchese del Vasto, e X marchese di Pe­scara), medita l’acquisto di Isernia nel 1644. Dal padre Inigo gli viene il marchesato di Padula, ma ne aliena il feudo alla Certosa di San Lorenzo nel 1645 (con estinzione del titolo nobiliare). Il 12 febbraio 1645 sposa Francesca Carafa della Roccella, dalla quale ha tre figli: Isabella[4], Ferdi­nando Francesco (da non confondere con lo zio, visto prima, anche lui marchese di Pescara, principe di Francavilla e gran camerario del Regno) e Cesare Miche­langelo, secondo principe di Isernia, di cui parleremo per tempo.

All’epoca del matrimonio con Francesca Carafa la prima dignità spesa dal d’Avalos è quella di principe di Isernia. Così viene indicato in un atto del 1647 nel quale Diego costituisce suo procuratore il dottor Prospero Amitrano di Napoli per acquisire, senza patto di ricompera, lo Stato di Monteodorisio dal patrimonio della defunta Sveva d'Avalos. Comincia quell’opera di consolidamento dei feudi di famiglia, che raggiungerà l’apice con Cesare Michelangelo.

Nell’estate del 1647, scoppiata la ri­volta di Masaniello contro il Vicereame e i suoi soprusi, incontriamo i due fratelli d’Avalos - il marchese del Vasto e il principe d’Isernia - impegnati a contrastare l’insorgenza. A Isernia, per vero, la rivolta non incontra seguaci: benché ferita dalla recente perdita della demanialità, la città rimane fedele al potere costituito (o forse, la presenza dei masnadieri del principe, esercito privato, scoraggia gli isernini dal prendere le armi). Quando a Masaniello si sostituì l’effimera – e ossimorica – Serenissima Monarchia Repubblicana di Na­poli del Duca di Guisa e dell’armaiolo Gennaro Annese, i due fratelli con­vergono con le loro forze su Aversa, dove si va radunando il grosso dei lealisti. Il territorio control­lato dalla sedicente Repubblica coincide sostanzialmente con la città di Na­poli e le sorti dei filofrancesi appaiono da subito senza successo: gli spagnoli mantengono il controllo di tutti i castelli attorno alla città mentre i nobili fuoriusciti, da Aversa, controllano la provincia e quindi gli approvvigio­namenti per Napoli. Il 26 ottobre 1647, Diego e Ferdi­nando Francesco d’Avalos mobilitano e guidano su Aversa 190 ca­valieri e 220 fanti, il contingente più nume­roso tra quelli dell’esercito aristocratico. Combattono a Nola, Secondi­gliano, Caivano[5].

Finita la campagna, rinserrati gli spiedi, per il resto della sua vita Diego sarà impegnato nei feudi e nei suoi affari. Il suo rapporto con Isernia e gli isernini non fu mai buono, ma sempre incarognito e fondato sul timore. Il principe (coi suoi armati) si rendeva responsabile di soprusi e prepotenze, piccole e grandi. Prese per sé «case, molini, valchiere, cartiera e altre robbe dei poveri cittadini» senza onorarne mai prezzi o canoni. Impose, senza causa e senza assenso regio, una tassa annuale di 1000 ducati annui (poi ridotti a 300 nel 1669) che la città onorò sempre per quieto vivere.

Nel 1656 anche a Isernia arriva la terribile peste che nel biennio 1656/57 decimò la popolazione del Vicereame. La città subisce un forte calo demografico e non è più in grado di sostenere le tasse che vengono imposte secondo i “fuochi” di cui si compone l’universitas: per avere un’idea, dagli 800 fuochi nel 1638, verrà ridimensionata ai 440 nel 1667. Ermanno Turco ci racconta in proposito di un intervento fattivo dei d’Avalos durante l’epidemia: «Monsignor d’Avalos e la principessa, testimoni dello stato di estrema desolazione in cui versava, a causa del contagio, il maggior numero delle famiglie isernine, fecero del loro meglio per arrecare a queste qualche sollievo; e oltre ai moltissimi aiuti morali e materiali prodigati, non mancarono di svolgere opera di persuasione, presso i rappresentanti locali del regio Fisco, perché si desistesse temporaneamente dalla riscossione delle imposizioni fiscali»[6].

Se la principessa è donna Francesca Carafa della Roccella, moglie – si è detto – del principe Diego, incerta è l’individuazione di questo monsignore di casa d’Avalos: Turco cita a sostegno un documento da lui rinvenuto in un registro della Regia Camera della Sommaria, anno 1662, in cui si parla di «protettione della Prencipessa (…) et di monsignor vescovo de Avalos», di cui si dice risieda in Isernia. L’identificazione di questo vescovo d’Avalos – che anche Antonio Maria Mattei lascia inespressa – va fatta per via di indizi: sulla premessa che non c’è mai stato un d’Avalos a reggere la diocesi isernina, monsignore doveva reggere altra sede vescovile. Don Diego ha due fratelli che indossano l’abito talare: un Tommaso d’Avalos – vescovo di Lucera, ma deceduto nel 1643, e Bonaventura d’Avalos[7], frate agostiniano, che negli anni 1653/1659 regge la diocesi di Nocera. Se ne deduce che il vescovo d’Avalos che intercede per gli isernini con il Regio Fisco sia lui.

Da Diego d’Avalos, invece, non troviamo mai espresso un sentimento di benignità verso i sudditi: tanta solidarietà sarebbe apparsa un unicum rispetto a un quadro coerente che ci parla di abusi e sopraffazione verso i sottoposti. Don Diego usa forme lecite per addivenire a risultati illeciti nella sostanza: con atto del 1646 redatto dal notaio isernino Claudio Pizzi fa formali concessioni e rinunce alla città verso il pagamento annuo di una gabella di 1000 ducati; peccato che ciò che concede, vergato a piuma d’oca, sia già in diritto della città, al pari di ciò cui fa rinuncia. Così, istituzionalizza un tributo che la città pagherà come un pizzo per un ventennio, sapendo forse di essere stata gabbata, ma conservando mutismo per quieto vivere. Il pizzo verrà generosamente rimodulato nel pubblico parlamento del  28 marzo 1669 tenuto in Palazzo San Francesco alla presenza degli ottimati cittadini (il consiglio dei venticinque nobili) e degli eletti dal popolo: il magnanimo principe concede sì una riduzione nell’entità del tributo – tassa, ricordiamo, non dovuta – ma dietro promessa dei cittadini a non dolersi a Napoli per quanto esatto nel pregresso. Così testualmente: «… restando obbligata la supplicante di corrispondere solamente annui ducati 300 della siddetta somma di d’annui duc. 1000, con che li suddetti annui duc. 700 cedono in estinzione di qualsia pretentione che potesse havere essa supplicante contro il sig. Marchese per causa di soverchia esattione fatta da’ suoi Erarij per il passato.»[8]

Va notato che nel documento (a data 1669) il principe è chiamato marchese: morto senza eredi il fratello Francesco Ferdinando, il 23 maggio 1665, Diego acquisì, infatti, i (più importanti) titoli di marchese del Vasto e di Pescara. La dignità di marchese, a quel punto, precedeva nell’intitolazione ufficiale, quello più recente e vile, di principe di Isernia.[9]

Dopo quella data, il suo orizzonte divenne la costa adriatica e pose capitale a Vasto. Ebbe però l’umana sfortuna di sopravvi­vere – non soltanto – al suo primogenito, (un altro) Ferdinando Francesco, che morì, ventunenne, nel 1672, al quale aveva dato la contitolarità del marchesato di Pescara; ma anche al figlio di questi (e, dunque, suo ni­pote) Diego, che trapassò ad appena diciotto anni, nel 1690. Così, quando anche il vecchio Diego I d’Avalos passò a miglior vita, il 4 marzo 1697, tutte le sue dignità e proprietà passarono in testa all’altro suo figlio, Cesare Michelangelo d’Avalos.

 

 

Cesare Michelangelo d'Avalos
(Vasto, 15 gennaio 1667 – Vasto, 7 agosto 1729)


 

 

Cesare, il secondo principe

Questo secondo principe di Isernia, Cesare Michelangelo, nasce nel 1667 a Vasto, città divenuta centro nevralgico degli affari di Don Diego dopo il 1665; qualcosa che però rimandi al feudo molisano comunque c’è: a fargli da madrina al battesimo, il 19 gennaio 1667, è una tal signora Elisabetta D'Alois «come Procuratrice della Rev.ma Madre Suora Rosina Sanfelice, Monaca del Monastero di S.Chiara nella Città di Isernia[10]

Nel 1690 sposa Ippolita d’Avalos, figlia di un suo cugino di secondo grado, Giovanni, principe di Troia. La coppia non ha discendenza. Cesare, invece, ha (almeno) una figlia naturale, Anna Maria Gaetana, in clausura nel nostro convento di Santa Maria delle Monache con un vitalizio annuo di 200 ducati, posto a carico dei cittadini di Isernia[11]. Rispetto alla città, Cesare mutua lo stesso rapporto osservato dal padre Diego: soprusi, sopraffazioni, minacce. Tranchant, sul punto, il giudizio che ne dà una recente monografia: «…fu un uomo potente anzi “onnipotente”, arrogante e prepotente con gli abitanti delle università a lui infeudate; era solito circondarsi di armati che difendevano i suoi interessi economici nelle campagne»[12]. Il vantaggio, per la città, è che lui, almeno, è un padrone lontano. 

Cesare – nomen omen – assomma nel suo blasonario oltre 30 titoli e predicati: nel diploma datato 2 marzo 1704, col quale l’imperatore Leopoldo I gli conferma la dignità di Principe del Sacro Romano Impero già riconosciuta ai suoi antenati, viene indicato come

 

« … Don Cesare d’Avalos d’Aquino d’Aragona, Marchese di Pescara e del Vasto, Principe di Franca­villa, Roccella e della Città d’Isernia, Duca di Monte Negro, Monte Itilia e Monte Bello, Marchese di Castro Vetere, Conte della Grotteria e del Contado di Monteodorisio, Scerni, Pollutri, Casal Bordino, Furci, Guilmi, Gissi, Lentella, Casalanguida, Li­scia, Colle di Mezzo e delle Ville Alfonsine e Cupello. Signore delle Baronie Blanco e Condojanno, signore della Città di Lanciano e delle sue Ville, Santa Maria, Pietra Costantina, Stannazzo, Mozzagrogna e Scorciosa. Signore delle isole Procida, Bivaria e S. Martino, delle Terre Serra Ca­vriola, Cieuti, Civita Campomarano e Castel Tureno, Barone di Figliola, Riporsori (ma è Riporsi, presso Isernia). Signore dello Ju­spatronato della Roccella, Castellano, Capitano a Guerra e Gover­natore perpetuo della fortezza, Città e Isola d’Ischia. Generale d’uomini d’Arme, Cavaliere del Tosone e Chiave d’Oro, Signore di tutta la famiglia d’Avalos, due volte Grande di Spagna di Prima Classe e nostro Supremo Maresciallo di Campo …»[13].

 

In quel periodo, Cesare è a Vienna, presso la Corte imperiale, in esilio do­rato, rico­prendovi l’ufficio di Gran Ciambellano con sti­pendio di 24.000 fiorini. Come fu che arrivò alla Hofburg è storia da romanzo d’appendice che tenterò di compendiare.

Cominciò tutto con la cd. “Congiura di Macchia” che mirava al ritorno di un re (austriaco) sul trono di Napoli, al posto di un viceré a governare per procura. Cesare – seppure timidamente – è tra i congiurati che nel settembre del 1701 fanno insorgere Napoli contro il governo del Duca di Medinaceli. La congiura si inserisce nel più ampio contesto della Guerra di Successione spagnola (1701-1714) apertasi dopo la morte senza eredi dell’ultimo Asburgo di Spagna, l’infelice Carlo II. Sul letto di morte, Carlo aveva indicato come erede il delfino di Francia, andando contro l’interesse degli Asburgo d’Austria, cui pure era imparentato. Così, quando il francese Filippo V era diventato re di Spagna (e quindi anche di Napoli), i mal di pancia austriaci si concretarono in una fronda antilealista di cui la “Congiura di Macchia” fu massima espressione.

Il principe d’Isernia, in realtà, con notevole senso di opportunità e attendismo, non aveva trascurato del tutto il partito francese: annusando l’aria, si era rivolto anche a Luigi XIV e al nuovo re di Spagna Filippo V, nella speranza di favori e condizioni migliori; il loro silenzio, tuttavia, lo aveva determinato alla professione di fede filoaustriaca. La sua autorevole partecipazione al partito imperiale non passò inosservata. Nel 1701, nei giorni im­mediatamente precedenti la sommossa, il viceré, duca di Medinaceli, in­viò in Abruzzo l’auditore generale dell’esercito con cento uomini armati, col pretesto di contrastare il brigantaggio, ma col fine ultimo di far sentire il fiato sul collo al marchese:  Ce­sare, in quanto grande di Spagna non poteva essere arrestato e sotto­posto a giudizio penale se non per ordine del re in per­sona, dunque la spedizione militare era da intendersi più come un avvertimento: moral suasion attuata con l’alabarda, diremmo.

Nel frattempo, la congiura esplode (e porta i suoi effetti anche a Isernia, come detto in altro scritto, cui rimando) ma subito si spegne, effimera. Qualcuno tra i congiurati, però, ci rimette la testa. In fondo, tutto si risolve in un regolamento di conti all’interno della nobiltà di sedile. Tra quanti si impegnano nella repressione della congiura troviamo un altro esponente di casa d’Avalos, Andrea[14], principe di Montesarchio, già ammiraglio delle galee di Napoli: un giovanotto di 84 anni, che nei giorni concitati dei torbidi comanda i suoi “in sedia a braccio”, cioè portato a spalla, come un santo in processione. Probabilmente Andrea è interessato ad ottenere i ricchi feudi di Vasto e Pescara. Ma, alla fine, una volta sequestrati a Cesare, i beni andranno ad un Lante della Rovere, duca di Bomarzo. 


Liberculus in quo continetur restrictus fideliter extractus e processu originali
fabricato in generali urbis gubernio, una cum monitorio et sententia exinde secutis
contra marchionem Michaelem-Angelum de Vasto (...)

Epitome del processo a carico del marchese del Vasto per diffamazione
del cardinale Toussaint de Forbin-Janson
(n. 10202 del Catalogue de l'histoire de France, vol. 9, 1865).


Infatti, il 13 ottobre 1701 Cesare Michelangelo d'Avalos viene formalmente dichiarato ribelle e traditore della Corona da Filippo V. Lui si organizza (come prima cosa, spedisce la moglie in convento) e fugge oltreconfine, a Roma, dove anziché fare la vita nascosta dell’esule, si dà ai bagordi: prende casa in affitto dai Barberini, fa spese per nuovi arredi e cavalli e mantiene il suo esercito privato. Roma è comunque un crocevia di spie: è il luogo in cui – anche prima della congiura – si sono misurati e guardati di traverso i due partiti, l’imperiale e il filofrancese. Così, l’ambasciatore di re Luigi XIV, il cardinale Toussaint de Forbin-Janson, trama per catturare Cesare e portarlo a Napoli ad affrontare il processo: gli organizza una falsa udienza col pontefice, con il fine di insaccarlo e spedirlo al Viceré, ma l’altro partito informa d’Avalos e lui – dopo aver torturato un famiglio del cardinale per estorcergli la verità – si vendica in modo plateale tappezzando Roma di manifesti di accusa contro il francese e rifugiandosi presso l’ambasciatore imperiale. Il papa – Clemente XI – seppure controvoglia, non può non rimanere inerte e il 18 marzo 1702 condanna Cesare d’Avalos in contumacia «ad aver mozzo il capo come calunniatore di un cardinale di Santa Chiesa ambasciatore del re Cristianissimo»[15]. Ne segue l’’intervento diretto dell’imperatore – che vede la condanna inflitta come un personale affronto, poiché il 16 dicembre 1701 ha conferito a Cesare Michelangelo d’Avalos il titolo di suo supremo maresciallo di campo, pur in assenza di reali meriti militari – e il trasferimento con passaporto diplomatico di Cesare a Vienna.

A Vienna, per un decennio, Cesare farà il viveur, affinando tuttavia anche quei talenti di bibliofilo e mecenate che, tornato in patria, nel 1713, una volta che Napoli diverrà terra austriaca, Cesare ebbe modo di coltivare nella sua Vasto. Il ritorno, infatti, sarà accompagnato da una corte di sensibilità asburgica. Cesare si darà ad interventi di disegno urbanistico della sua capitale, elevata anche formalmente a rango di città con decreto imperiale e creata sede vescovile.

E Isernia, in tutto questo?

 



Giacomo Cantelli, cartiglio de «Li Regni di Granata e d'Andalucia»
(carta geografica, anno 1696)
«dedicati all' Ill.mo et Ecc.mo sig,re D. Cesare MichelAngelo d'Avalos di Aquino, 
d'Aragona, Carafa, Marchese di Pescara e del Vasto, Principe di Francavilla e della Città di Isernia etc. 
Grande fra i Primi Grandi di Spagna»
(Pubblicata su segnalazione dell'arch. Silvio Capoferro).
Il documento integrale è qui.


La cesura (1698/1710). La città al Principe di Colle d’Anchise

Facciamo un salto indietro e rioccupiamoci di casa nostra. Nel 1698, prima delle vicende sopra narrate, Ce­sare d’Avalos vende la città di Isernia al principe di Colle d’Anchise, Fulvio di Co­stanzo[16].

Questo Fulvio apparteneva alla antica famiglia dei di Costanzo, patrizi napoletani venuti con gli Svevi di Enrico VI; era il III principe di Colle d’Anchise, dopo che il nonno – che aveva lo stesso nome – ne aveva acquistato per matrimonio titolo e feudo.  Fulvio di Costanzo conserva la città tra il 1698 e il 1710, ma non viene mai indicato come “principe di Isernia”. Al più, Masciotta[17] ne dà l’inusitato titolo di “duca di Isernia”, che non ha precedenti. È possibile che Cesare abbia devoluto il bene feudale (la città) conservandone tuttavia il titolo?

Fatto sta che nel periodo in cui Isernia è infeudata a Fulvio di Costanzo, il titolo è comunque speso da Cesare. Sulla permanenza della dignità di principe sulla testa di Cesare abbiamo due indizi testuali: il primo è il ricordato diploma imperiale del 1704, che tra le sue molte dignità annovera anche quella di “principe di Isernia”; per il secondo dobbiamo far riferimento alla nota incisione di Francesco Cassiano De Silva inserita nel terzo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva dell’abate Pacichelli (pubblicato postumo nel 1703): nella stampa di Isernia ritratta a volo d’uccello (dove alla lettera “G” si dà indicazione del “Palazzo del Principe”), le armi riportate a lato del cartiglio col nome della città sono dei d’Avalos (d’azzurro alla torre d’oro con bordura composta di sedici pezzi, alternati d'argento e di rosso) e non già quelle dei di Costanzo (d'azzurro, a sei coste d'argento 3 e 3 poste in fascia, abbassate sotto una riga rossa sormontata da un leone passante d'oro).

La vendita della città al principe di Colle d’Anchise aveva rimesso in moto la macchina dei ricorsi giurisdizionali, poiché gli isernini ebbero nuova occasione per vantare quel diritto di prelazione rimasto inconsiderato in altre vendite. Ma se i d’Avalos padre e figlio si comportarono verso la città infeudata da farabutti approfittatori, di Costanzo si mostrò vera carogna: il nuovo padrone fece da subito capire ai cittadini che frapporsi tra lui e i suoi interessi non era cosa opportuna, minacciando i maggiorenti della città con gente armata. Ne seguì, accanto alla controversia civile, un corollario di azioni penali (“cause criminali”) rivolte reciprocamente dagli isernini contro il principe e i suoi “armizzeri” e da questi verso i cittadini. Fulvio di Costanzo era ben inse­rito a Napoli, poiché vi presiedeva il Consiglio Collaterale di sua Maestà e il vicerè, duca di Medianaceli, avrebbe vo­luto mettere sotto sabbia l’intera, scomoda vicenda, se­nonché gli isernini, capetoste, avevano scritto diretta­mente a sua Maestà, il quale «con sua real carta [ordinò] prendersi informatione delle oppressioni, sac­chi, fla­gelli e morte data a’ cittadini di essa città dall’Ill.e Principe di Colle d’Anchise»[18].





Frontespizio dell'edizione napoletana (1714) dei «Saggi di naturali esperienze fatte nell'Accademia del Cimento sotto la protezione del serenissimo principe Leopoldo di Toscana e descritte dal segretario di essa Accademia», opera di Lorenzo Magalotti, dedicati a «D. Cesare Michelangelo Davalos [...] principe [...] della Città d'Isernia»

 

Si inserisce, in questo contesto di azioni e reazioni, anche la sollevazione cittadina del 25 settembre 1701, che – si è detto sopra – consacra l’adesione della città alla già vista “Congiura di Macchia”. Isernia si solleva non tanto perché interessata alle sorti del partito imperiale piuttosto che quello lealista: la congiura assume anche e soprattutto un significato locale: se, come visto, Cesare d’Avalos è tra i congiurati a sostegno degli Asburgo, Fulvio di Costanzo milita nell’avverso partito dei lealisti alla corona di Filippo V, per cui la sollevazione è da spiegarsi anche come reazione violenta al nuovo indigesto feudatario e come risposta ai crimini da lui perpetrati verso la città. 

La rivolta, a Isernia, durò un giorno, e la città tornò presto mansueta; ma i rap­porti tra nuovo principe e città non furono mai sereni, tanto che Fulvio di Costanzo pensò bene di esercitare la clausola “de retrovendendo” apposta alla vendita del 1698, e nel 1710 fece riacqui­stare la città a don Cesare d’Avalos per 57.400 ducati[19].

 

 



Ritratto ad olio di Cesare Michelangelo D’Avalos – Collezione privata

 

L’eredità contesa

Pur se rientrò nel possesso della città, Cesare d’Avalos non ebbe più occasione di essere presente nella vita cittadina. Isernia era una delle tante vacche che il marchese del Vasto saltuariamente mungeva. La rendita feudale della città era di 810 ducati annui[20]; altre rendite derivavano dai fitti sulle proprietà del principe: il palazzo baronale, il Palazzotto (con lo stesso nome di oggi si incontra nei documenti d’archivio) è smembrato e locato a diversi: le sette rimesse danno 12 ducati annui; l’abitazione con giardino, 9 ducati; una stalla 1 ducato e mezzo. Cesare loca tutto il suo patrimonio immobiliare cittadino: case, terreni, mulini, la cartiera, il trappeto.

Il padrone è lontano: a Vasto, divenuta piccola capitale europea del suo personale stato feudale, tra i più importanti del Meridione.

Cesare è il principe, nell’accezione che ne dà Machiavelli: è padrone indiscusso nei suoi feudi, nei quali esercita la massima autorità: spregiudicato, froda il Regio Fisco attribuendosi entrate che spettano alla corona, così come si dà con successo al contrabbando del grano e del sale.

Tre luoghi di Palazzo d’Avalos in Vasto danno l’idea di Cesare come principe europeo: la quadreria – che raccoglie anche tele di Raffaello, Tiziano, Rubens e del Seicento napoletano – e la biblioteca di oltre ottocento volumi. E poi, il teatro privato che fa realizzare in un’ala di Palazzo d’Avalos, «un teatro intiero con cinque mutazioni di scene e con un panno di sangallo davanti, (…) e un balchetto dirimpetto di legno pittato con sei sedie di paglia», dotato di «cembalo a due registri con tasti di avorio»[21]. Del resto, Cesare stipendiava un suo maestro di cappella per gli intrattenimenti musicali a palazzo (Nicolò Filomena, autore di un oratorio a tre voci – Il martirio di S. Cesareo – dedicato al suo mecenate per l’onomastico del 1695). Un illuminato, un esteta, incaricato da Carlo d’Asburgo della consegna del collare del Toson d’Oro al principe Fabrizio Colonna (nel 1721) in quella sfarzosa celebrazione che oggi dà spunto per una pacchiana riedizione a uso di turisti inciabattati.

Non pare strano che l’eredità del marchese si componga quasi interamente di debiti.  

Facciamo un passo indietro. Si è detto che da Cesare e Ippolita non nacquero figli. Il problema dell’individuazione di un erede, ad evitare il trauma della devoluzione feudale (il ritorno dei beni alla Corona), è sentito non soltanto dal marchese, ma da tutta la famiglia: nella vicenda, entra a gambatesa anche il suocero Giovanni d’Avalos, principe di Troia. L’idea è quella di far convergere i due rami superstiti della famiglia (quello di Vasto/Pescara e quello di Troia/Montesarchio). Inizia così un lungo corteggiamento del marchese del Vasto.

Un primo testamento Cesare lo detta nel 1713, quando è ancora nel pieno delle forze. Viene individuato come erede universale Giovanni Battista d’Avalos (1694-1749), nipote acquisito perché  figlio di Nicola (Niccolò) d’Avalos, fratello di Ippolita, sua moglie. A Giovanni Battista sarebbero andati a morte di Cesare i titoli marchesali di Vasto e Pescara (il core business di casa d’Avalos), il titolo di Grande di Spagna e altre terre e dignità. Nel frattempo, per non restare spoglio, spende già il titolo di principe di Francavilla.

Qualcosa però, col tempo, comincia a scricchiolare. Giovanni Battista non ha (ancora) discendenza e questo ne mina la capacità di traghettare titoli e feudi verso il futuro. Così va preparato un piano “B”: con codicilli apposti al testamento da un malandato Cesare, nel 1729, viene legata la città di Isernia, con il relativo titolo di principe, ad un altro nipote acquisito, Carlo Cesare d’Avalos, figlio minorenne di Andrea, altro fratello di Ippolita (cui spetta l’amministrazione dei beni fino alla maggiore età). A Carlo Cesare vanno anche, per legato, tutti i mobili che sono nel palazzo di Isernia, il ritratto dell’imperatore Carlo VI e i due collari ingioiellati del Toson d’Oro che si trovano nella casa madre di Vasto. In più, la famiglia comincia ad accendere i fari su un fratello di Giovanni Battista, Diego, cui viene legata una forte somma nel testamento di  Cesare.

Quando Cesare Michelangelo d’Avalos lascia questa terra, per infezione polmonare, il 27 agosto 1729, nella sua Vasto, aperti testamento e codicilli, i due cugini – l’erede Giovanni Battista e il legatario Carlo Cesare – arrivano subito ai coltelli e alle carte bollate. Cominciano liti, ricorsi e lodi arbitrali, puntualmente disattesi dalla parte soccombente. La vera sorpresa, per tutti, è che l’eredità, nella sua complicata consistenza di crediti difficilmente esigibili e debiti contratti dal dissoluto Cesare (oltre ai tanti legati che gravano l’erede designato: Cesare non ha dimenticato nessuno, e moltissimi sono i sodali del suo periodo austriaco), è difficile da ricostruire nel suo quantum. Per questo, Giovanni Battista accetta col beneficio d’inventario. Nell’Archivio di casa d’Avalos, al n. 1209 d’inventario, si conserva un «volume legato in cartapecora di 236 fogli contenente copia conforme dell’inventario dei feudi e dell’eredità del marchese Cesare Michelangelo d’Avalos d’Aquino d’Aragona compilato su richiesta del signor Giovambattista d’Avalos d’Aquino d’Aragona marchese del Vasto e aperto in data 3 aprile 1730». Duecentotrentasei fogli, la consistenza di un elenco telefonico. 

La mazzata finale la dà il mutato contesto politico: finito il periodo degli Asburgo re di Napoli, e istauratasi con Carlo la monarchia dei Borbone (1734), viene revocata la grazia riconosciuta a Cesare nel 1709, per il suo tradimento del 1701 verso la corona spagnola e si dispone, come fu fatto allora, il sequestro dell’intero patrimonio del fu Cesare.    

Giovanni Battista si oppone: per salvare il salvabile sostiene di essere padrone delle terre dei d’Avalos non iure hereditatis, ma come creditore egli stesso dello zio. Ne nascono ulteriori cause davanti alla Regia Camera della Sommaria, non ancora definite all’atto della sua morte, avvenuta nel 1749.

Prima ancora, il clima si era ulteriormente avvelenato per la nuova faida familiare che oppone il povero erede designato a suo fratello Diego, riguardante singoli cespiti  dell’eredità. Gli esiti ci interessano poco perché riferiti ad altri feudi, non a Isernia, la cui vicenda trova soluzione proprio in questi anni.

 

L’eversione della feudalità

«[…] Essendosi dedotta l’eredità del fu Illustre Marchese del Vasto nelli regij Tribunali di Napoli e fatto il sequestro d’ordine della Reggia Camera di tutto il suo patrimonio, nel medesimo Tribunale furono ristaurate tutte le pretensioni della città, ed antiche e moderne».

Ogni vicenda interruttiva della proprietà feudale – e dunque anche il sequestro dei beni – consente alle città infeudate di riproporre i propri diritti di pretensione. Così è per Isernia, cui – forse contrariamente ad altre terre del marchese Cesare – il ritorno alla demanialità è particolarmente agognato. Lo si comprende nelle parole usate nel 1742, nel pubblico parlamento che si tiene in città il 16 maggio, in cui le magistrature cittadine – il mastrogiurato, i due laterali espressione del consiglio dei nobili e i due eletti dal popolo – informano la città dei tentativi fatti per riscattare Isernia: «Sanno bene loro Signori da quanti anni a’ dietro li nostri fedeli Patritij hanno sudato e speso denaro proprio e del pubblico pel riscatto di quella libertà che da tanti secoli a’ dietro havean gloriosamente goduta li nostri antenati e poi perduta da cento e due anni a questa parte (…)»[22]

Il 25 gennaio 1742 il tribunale regio finalmente attribuisce efficacia alla transazione intercorsa tra i cittadini di Isernia, il Regio Fisco e i creditori dei d’Avalos: questi ultimi accettano il pagamento di 43.000 ducati per veder riscattata la città. Vengono da subito versati al Regio Fisco la somma di 10.000 ducati e c’è l’impegno a saldare il residuo nell’arco di un anno.

Lo sforzo economico per onorare il riscatto non è esiguo: la città si indebita con i suoi monasteri (San Pietro Celestino, S. Chiara), dai  quali ottiene ducati verso concessione di censui annui; in più si vendono i gioielli di famiglia, i feudi di Riporsi,  Roccavarallo e Sasso.

La città viene finalmente riacquisita al demanio nel 1744. Formalmente, il feudo deve  intestarsi ad uno dei suoi cittadini: viene scelto tale Cosmo Ciaja. Il titolo di “Principe di Isernia” è cancellato con Regio Assenso del 6 aprile 1745[23]. L’ultima rata e il ritorno alla demanialità si perfezionerà solo nel 1774.

Agli isernini il prezzo deciso andò anche bene. Alla città posta sotto sequestro, infatti,  doveva darsi un valore e il Regio Fisco procedette al cd. apprezzo: venne in città il regio tavolario Casimiro Vetromile che, quaderno alla mano, descrisse e valutò l’intero abitato come fosse un ufficiale giudiziario qualsiasi, venuto a prendersi divano e televisore (e la relazione di Vetromile è una solida base da cui partire per la conoscenza della città del Settecento). Quando consegnerà il suo lavoro, nel 1744, la stima data a Isernia è di 60.504 ducati.

Così si chiude la pagina del baronaggio. Il titolo – effi­mero, si diceva – di principe di Isernia era stato portato, per altro posposto nel catalogo delle dignità, soltanto da Diego e Cesare, entrambi secondogeniti, rami cadetti: più distanti dal tronco, ma più tenaci e resistenti.  

 



Isernia, stampa di G.B. Pacichelli (1703).
Al centro dell'immagine, contrassegnato dalla lettera "G", il Palazzo del Principe

 

 

Giovan Battista. L’ultimo principe

In realtà, l’ultimo a spendere la dignità di principe di Isernia, malgrado il sequestro dei beni di famiglia, è proprio Giovanni Battista (1694-1749).

Nel proemio dell’opera musicale L’errore amoroso di Antonio Palomba, con musiche del «Signor Nicolò Jommelli Maestro di Cappella dell’Eccellentissimo Signor Marchese del Vasto», «da Rappresentarsi Nel Teatro Nuovo sopra Toledo nella Primavera di quest’anno 1737», la dedica al mecenate d’Avalos, «l’Eccelletissimo (sic) Signore D. Giovanni Battista d’Avalos d’Aquino d’Aragona» indica tra i titoli vantati, nel 1737, quelli di «Marchese del Vasto, e di Pescara, Principe di Montesarchio, Francavilla, della Città di Troja, e d’Isernia, e del S. R. I., Conte di Monte Odoresio, e sue Terre, Sig. dell’Isola di Procida, della Città di Lanciano, del Vallo di Vitolano, Serra Capriola, e Chieuti, del Ducato di Monte Negro, Montelateglia, Turino, perpetuo Governadore della Fortezza Città, ed Isola d’Ischia, e Grande di Spagna di prima Classe &c

Dunque, almeno sulla carta intestata, Giovanni Battista d’Avalos è III principe di Isernia, non essendosi dato corso al legato che investiva del feudo il cugino Carlo Cesare.

Chi è questo Gianbattista? La sua biografia è meno ricca e interessante di quella dei suoi agnati principi di Isernia. Nel 1716 sposa donna Silvia Spinelli dei principi di Tarsia, ma non deve essergli bastata: la rete internet – mare magnum di ogni pettegolezzo – ce lo dà protagonista di una vicenda salace, da sceneggiatura di b-movie italiani anni 70 (tipo “Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno” e altri kolossal di genere), consumatasi nel suo feudo di Serracapriola, e da prendersi con le dovute pinze: qui, nell’esercizio del controverso ius primae noctis verso una popolana di singolare bellezza, sarebbe stato oggetto della vendetta del meschino coniuge che, piazzatosi nottetempo munito di schioppo su un albero da cui poteva ben inquadrare la finestra del palazzo baronale e la schiena nuda del divino marchese, ebbe la sorte di cadere dal ramo prima di poter fare fuoco sui copulanti; venne così scoperto dagli sgherri di Giovanni Battista e portato davanti all’irato Giovanni Battista, che gli fa prima tagliare le mani e poi comanda di impiccarlo allo stesso albero[24].

Al di là della leggenda popolare di Serracapriola (riportata qui su perché gustosa nel suo brodo boccaccesco, più che per l’horror vacui incontrato nel popolare la sua scheda biografica), di Giovanni Battista d’Avalos rimangono agli atti la sua attività di mecenate e quella, meno nobile, di affannato difensore dei beni familiari, spese entrambe lontano da Isernia.

 

Damnatio memoriae

Se a Vasto la presenza dei d’Avalos è ancora tangibile, anche in aspetti insospettabili (per dire, “d’Avalos” è il nome dato alla curva dei tifosi di casa, in uno stadio che per ulteriore richiamo identitario è chiamato “Aragona”), per non parlare della anche sopra richiamata cerimonia folkloristica del “Toson d’Oro” che annualmente si tiene in città e rievoca i fasti della corte marchesale, a Isernia i d’Avalos sono condannati all’oblio. Nella città che per cento anni li ha comunque avuti per principi, non c’è neanche una strada di campagna a loro intitolata; certo, come ampiamente dimostrato nel presente testo, contrariamente ai vastesi, per gli isernini i principi sono stati più avvoltoi che mecenati.

Cosa rimane dei d’Avalos in città?  A metà di Corso Marcelli, a sinistra, salendo appena dopo il Co­mune, a fronteggiare la piazza intitolata a Trento e Trieste, si trova la facciata del Palazzo d’Avalos-Lau­relli, a Isernia familiarmente chiamato ru Palazzotte. Quella che si vede è la versione ottocentesca del palazzo, rie­dificato in forme neoclassiche ad opera dei Laurelli.

Qualcosa dell’originale, però, credo rimanga tuttora: come giustamente fatto rilevare  da Franco Valente[25], lo stemma gentilizio della famiglia Laurelli che oggi si vede apposto sopra il portone principale del palazzo (con leoni rampanti e albero di lauro) sembra inscritto – anche un po’ goffamente – nello scudo che precedentemente ospitava il blasone dei d’Avalos: lo si deduce dalla permanenza della bordura scaccata dello scudo presente nello stemma dei d’Avalos, e ancor di più, dalla corona marchesale che lo sovrasta. Se così è, dobbiamo pensare che il manufatto si riferisca comunque al periodo successivo al 1665, data in cui Diego acquisisce i titoli di marchese del Vasto. Anche il regio tavolario Vetromile, nel 1744, aveva visto l’impresa del principe esattamente dove è ora posta: sopra il «(…) portone principale, il qual è ritondo, ornato di pietre di taglio del paese a libretto, con impresa sopra di simile pietra intagliata della famiglia Avalos, con portone di legname guasto e coda di pavone».

Per Palazzo d’Avalos non si conosce la data di costruzione. In più parti si incontra la data 1694, ma mai confortata da fonti certe. In effetti, il 1694 appare davvero data tarda. Atti di compravendita stipulati da Diego d’Avolos per acquisire case e terreni su cui edificare il palazzo baronale datano 1651. Certo è che quando Giovan Vincenzo Ciarlanti pubblica nel 1644 le sue «Memorie Historiche del Sannio» non c’è né palazzo, né piazza, dal momento che nella descrizione della città il primicerio isernino individua nella piazzetta davanti palazzo San Francesco (l’attuale Piazza Marconi) lo spazio più ampio aperto, dopo quello della Cattedrale, lungo il decumano cittadino; del resto, nel 1644, era ap­pena stato vergato l’atto di vendita della città tra il duca Greco e Diego d’Avalos e un “Palazzo del principe” non poteva esserci.




Quel che sappiamo è che – specie nei primi anni dell’acquisto di feudo e relativa dignità – Diego d’Avalos ha residenza in Isernia. Qui certamente vive la principessa; qui (come visto sopra) viene ospitato il vescovo d’Avalos durante la peste a Napoli. Appare strano che l’edificazione di un palazzo adeguato alla dignità del principe sia da porsi alla fine del secolo.

Per una descrizione compiuta del palazzo dobbiamo rimetterci a due fonti – già sopra palesate. Una è la stampa inserita nell’opera di Giovan Battista Paci­chelli (1703), che ci dà l’immagine di un palazzotto severo, ad un solo piano, con allineamento a “L” che coprono due dei tre lati della piazza. 

L’altra, testuale, è la relazione di Vetromile che fotografa il palazzo alla metà del secolo. Ci conferma la presenza di un solo piano: attraverso «diciannove scalini di legname si ascende nelli suppegni, che cuoprono tutto l’intero palazzo e le stanze della paggieria che si descriveranno, quali suppegni tengono il suolo solamente di tavole, che formano la suffitta nelle suddette stanze.» Dunque, piano strada, piano nobile e suppegni. Struttura non diversa da quella del palazzo di Vasto, almeno sul prospetto di Piazza Lucio V. Pudente.

Il palazzo è posto sul « largo grande, che sta avanti il prospetto di detto palazzo, ch’è proprio del medesimo, a destra del quale vi sono sette porte grandi rotonde, ornate con pietre di taglio del paese. (…) Nel lato in testa di detto largo, vi è il portone principale e nel lato a sinistra due porte, per quella ritonda si entra in un giardinetto murato». Il largo, è quello che più tardi sarà denominato “Mercatello” in opposizione ad altra più grande piazza della città, quella appunto “del mercato” (piazza Andrea d’Isernia). Le sette porte a destra, corrispondenti a sette locali di rimessa, sono quelle che ritroviamo nelle carte dell’eredità, date in fitto, e dalle quali – nel 1733 – si ritraggono 12 ducati annui. Le due porte a sinistra sono quelle che danno sul giardino pensile del Palazzo, esistente ancora oggi nella medesima collocazione.

Dalle carte dell’eredità sappiamo che anche l’appartamento baronale, a morte di Cesare, era affittato a terzi. Verosimilmente ciò accadeva anche prima, nel periodo compreso tra il riacquisto del feudo nel 1710 e, appunto, nel 1729: perché tenere inutilizzata l’ampia superficie del piano nobile se il marchese viveva altrove? Meglio mettere tutto a reddito e locare, e se aveva necessità di tornare nel suo feudo molisano, meglio un più discreto pied-à-terre.

È così che va interpretata la notizia che si incontra nel già citato manoscritto intitolato “Ricordo, o sia notizia sugli interessi del principe della Città d’Isernia”: «D. Cesare d’Avalos per farsi una abi­tazione da domiciliarci, si prese da Cittadini alcune case vicino alla ven. Chiesa della Ss.ma An­nunziata di detta Città e specialmente dalla detta Chiesa due casette […] ed un giardino contiguo ad essa chiesa, per le quali casette ed orto si ob­bligò il succitato marchese corrispondere carlini otto l’anno, come in tutti i libri delle economie di detta Chiesa si trovano esemplati detti stabili». Don Cesare ampliò quindi la proprietà su case e giardino che si trovavano tra l’Annunziata e il Palazzotto, sul tratto di mura cittadine che ancora oggi fa da contrafforte al palazzo, lungo Via Occidentale. La Chiesa della SS. Annunziata, sappiamo, non esiste più, sostituita dal corpo di fabbrica di palazzo Pansini. I cento metri buoni che oggi separano Palazzo Pansini dal Palazzotto, dietro la prima vela di case aggettanti sul Corso Marcelli, erano al tempo colmati dal giardino di cui alla notizia. La conferma si ha da Vetromile: nel descrivere la chiesa dell’Annunziata, ci dice che «In testa vi è l’altare maggiore di fabbrica, con cona di legname, con quadro della santissima Annunziata, con due porte nei lati corrispondenti a due picciole sagrestie, col comodo del bancone, ove sono riposte le suppellettili di essa chiesa e da una di esse sagrestie, mediante porta, si corrisponde al giardinetto del palazzo baronale». Dunque, Palazzo del principe e Chiesa dell’Annunziata sono, nel 1744, proprietà contigue, entrambe aggettanti sul giardino murato di pertinenza del palazzo.

 

 



Palazzo d’Avalos nel 1744, dalla relazione di Vetromile:

a) Palazzo; b) giardino; c) Chiesa della SS. Annunziata.

 

 

Torniamo al “Ricordo, o sia notizia sugli interessi del principe della Città d’Isernia”: che la notizia sia riferita proprio a Palazzo d’Avalos (poi Laurelli) lo dichiara un appunto vergato a margine da diversa calligrafia: «questa è la casa che Berardino Manzi com­prò quando Isernia si tolse dalla patronanza del principe, e fu di­chiarata Città Regia; oggi si possiede dal signor Laurelli».

A completare il quadro, dobbiamo prendere in considerazione un altro documento: la memoria di Pasquale Fortini sui danni del terremoto del 1805[26]. Descrivendo i danni che il sisma di S. Anna apporta all’abitato di Isernia, giunto all’altezza del Palazzotto – mai nominato come tale – Fortini dice: «Il palazzo del dottor D. Onofrio Laurelli, sito alla sinistra del largo, chiamato del Mercatello, è di molto lesionato, specialmente dalla parte di occidente. Il palazzo del signor dottor Sig. D. Gregorio Spadea e del Sig. D. Giuseppe Mansi alla sinistra l’è quasi intatto

Nel 1805, dunque, cinquant’anni e più dopo Vetromile, la situazione possessoria del Palazzo d’Avalos è la seguente: Il corpo di fabbrica centrale, posto a sinistra dell’osservatore che risalga per Corso Marcelli, corrispondente al Palazzo d’Avalos vero e proprio, è di proprietà di Onofrio Laurelli. L’altra ala dell’attuale palazzo, corrisponde alle proprietà di Giuseppe Mansi, più in fondo, confinante col giardino, e di Gregorio Spadea, più vicina al decumano. 

“Torre dei Manzi” è chiamata da Cesare de Leonardis, nei suoi disegni del 1898, la torre – oggi abbattuta – posta sulle mura cittadine, alle spalle del Palazzotto, verso la zona degli orti digradanti su via Occidentale. La didascalia che accompagna il bozzetto recita: «Antica torre nel giardino dei sig.ri Laurelli, verso la strada Occidentale, detta la Torre dei Mansi.» 

Dopo il 1805, Onofrio Laurelli (che fu anche matrogiurato della città negli anni ’90 del sec. XVIII) acquistò anche la proprietà Manzi.  Nel 1835, un altro Laurelli, Ippolito, acquisì per 2100 ducati un'altra ala del palazzo, che era di proprietà della città (la decisione di vendere di ebbe con delibera del 3 marzo 1835; l’atto venne recato, via Intendente provinciale, all’approvazione superiore di re Ferdinando II, che il 18 agosto 1835 vi appose la propria firma).

È successivamente a tale data che deve essere stata realizzata, nella ricostruzione seguita al terremoto, l’attuale fabbrica del palazzo, in forme neoclassiche e in continuità sui due lati della piazza. Nulla dell’originario Palazzotto, se non una suggestione, rimane nell’attuale. La damnatio memoriae è confermata dal tableaux turistico apposta dalla Soprintendenza (“Progetto Mirabilia”) che lo identifica come “Palazzo Laurelli” e non come “Palazzo d’Avalos-Laurelli”.

 



Nota a margine del «Ricordo, o sia notizia sugli interessi del principe della Città d’Isernia»
(Archivio privato famiglia d'Apollonio - Biblioteca comunale Michele Romano)

 

Link all' Albero genealogico dei d'Avalos principi di Isernia ospitato su Academia.edu

 



[1] Così in Giovanni BrancaccioIl Molise medievale e moderno: storia di uno spazio regionale, Napoli, 2005. Altrove ho trovato 28.000 ducati (voce “AVALOS, Diego d', principe di Isernia”, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 4, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1962), ma non cambia molto le cose.

[2]Flavia Luise, I d’Avalos : una grande famiglia aristocratica napoletana del Settecento, Napoli 2006. I crimini di Diego vengono indicati in una nota a pag. 94 come riferiti dai cittadini di Isernia al sovrano.

[3] Nel Dizionario Biografico degli Italiani (DBI), voce redatta da G. De Caro, questo Ferdinando Francesco, marchese di Pescara e del Vasto è dato con il nome di “Alfonso”:  date di nascita, di morte, matrimonio e indicazioni biografiche coincidono.

[4] Per fornire esempio di quali fossero le politiche matrimoniali del patriziato meridionale (e come conseguentemente si intreccino gli alberi genealogici), Isabella d’Avalos, figlia di Diego e Francesca Carafa andrà sposa ad un cugino primo, Carlo, principe di Roccella, figlio di un fratello della madre.

[5] Vd. anche Tommaso de Sanctis, Istoria Del Tumulto Di NapoliNella quale si contengono tutte le cose occorse nella Città, e nel Regno di Napoli, dal principio del governo del Duca d'Arcos fino al dì 6 Aprile 1648, 1770.

[6] Ermanno TurcoIsernia in cinque secoli di storia, Napoli 1948

[7] È Bonaventura d’Avalos a prelevare a Pescara Isabella (sua nipote perché figlia di Diego) e accompagnarla a Procida per le nozze con il cugino Carlo Maria Carafa della Roccella nel 1674.

[8] La trascrizione delle concessioni del principe è riportata in Ermanno Turco, cit., pp. 149 e ss.

[9] Il “Teatro farmaceutico, dogmatico, e spagirico” opera del dottore Giuseppe Donzelli, napolitano, barone di Dogliola, è opera che, nell’edizione riveduta del 1667, viene dedicata «all'illustrissimo, et eccellentissimo signore, il signore D. Diego D'Avalos d'Aquino d'Aragona marchese del Vasto, prencipe di Francavilla, et Isernia, conte di Monte Oderisio, signore di Lanciano, Serra capriola, Chieveti, e dell'isola di Procida, e grande di Spagna» 

[10] Dal libro dei Battesimi della Parrocchia di S. Maria Maggiore in Vasto: «A lì 19 gennaro 1667 è stato dell’ill.mo et Rev.mo Niccolò Rudolovicco arcivescovo e Conte di Chieti, battezzato un figliolo nomine Cesare, Michele, Angelo, Giuseppe, Domenico, Tomaso, Francesco Nicolò, Pietro, Celestino, Cosmo, Damiano, Paolo, Mauro, Antonio, Oronzio, Berardino, Sebastiano, Gioacchino, Felice, che Dio l'alleva, nato alli 15 di detto, dalli Ill.mi et Ecc.mi Coniugi Sig.Don Diego D'Avalos Marchese del Vasto et Sig.ra Donna Francesca Carrafa, et è stato tenuto al Sacro Fonte dal Rev.mo Padre Fra.Raffaele Sena, dell'ordine dei Predicatori et dalla Signora Elisabetta D'Alois. L'uno Come Procuratore dell'Ill.mo Sig. Don Francesco Maria Carrafa et l'altra come Procuratrice della Rev.ma Madre Suora Rosina Sanfelice, Monaca del Monastero di S.Chiara nella Città di Isernia.»

[11]Flavia Luise, I d’Avalos cit., p. 94;ma anche Angelo Viti, Note di diplomatica ecclesiastica (…), Napoli 1972, p. 284: «Alla sig.ra D. Anna Gaetana Davalos (sic) Monacha professa nel dic.to Monistero di S. Maria per suo livello assegnatole sopra questa Città da S.A.R.annui doc. cento». Il tributo veniva versato ancora nel 1730, come risulta da documento presente nell’Archivio Storico comunale.  

[12]Mariateresa PaceCesare Michelangelo d'Avalos: un principe senza macchia e il «codicillo» in Archivio Storico per le province napoletane n. CXXXIII, 2015, pp. 149-167

[13] Qui nella volgarizzazione dall’originale in latino edita nel 1707 dal napoletano Agrippino Boccia: Diploma della dignità di prencipe del S.R.I. conferita dall'invittissimo ... Leopoldo 1. all'altezza prencipale di Cesare Michel'angelo d'Avalos ... dell'anno 1704 / tradotto dal latino nell'idioma italiano da Agrippino Boccia, in Napoli : nella stamperia di Felice Mosca, 1707

[14] Questo Andrea d’Avalos è figlio di Giovanni, primo principe di Montesarchio e fratello di Inigo (il padre di Diego, principe di Isernia); quindi per Cesare è uno zio di secondo grado. Il ramo di Montesarchio si ricongiungerà con quello di Pescara, Vasto e Isernia conGiovan Battista d’Avalos(1694-1749).

[15] Angelo Granito, Storia della congiura del principe di Macchia e della occupazione fatta dalle armi austriache del Regno di Napoli nel 1707 | del marchese Angelo Granito principe di Belmonte, Napoli 1861, p. 199.

[16] A Fulvio di Costanzo, principe di Colle d’Anchise era dedicata la carta topografica del Contado di Molise dell’incisore Francesco de Silva (tratta) che modifica dall’originale realizzata da Antonio Bulifon, nel 1692 per inserirla tra le dodici tavole relative alle province ne Il Regno di Napoli in prospettiva di Giovan Battista Pacichelli (1641- 1702), apparso postumo nel 1703.

[17] Giambattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai giorni nostri – II Il Circondario di Campobasso, Napoli 1915, p.158 

[18] Ermanno Turco, cit.

[19] Archivio privato Famiglia d’Avalos, n. 1223, così descritto: «27 agosto 1710, assenso alla vendita libera della città d’Isernia e Feudo di riparto a benefìcio di Don Cesare [Michelangelo] d’Avalos Marchese di Pescara per ducati 57.400. Il volume contiene il detto assenso regio in forma legale».

[20] Dati che si ricavano dalla Nota del sequestro degli effetti così feudali come burgensatici che possedeva nella città di Isernia il fu ill.mo Marchese del Vasto D. Cesare Michelangiolo d’Avalos (ASN, Regia Camera della Sommaria, Processi, B. 17, fasc. 8).

[21] Così descritto nella citata Nota del sequestro (…).

[22] Il testo è integralmente riportato in Ermanno Turco, cit., p. 161 e ss.

[23]Vd. Angelo VitiNote di diplomatica ecclesiastica […], Napoli, 1972, p. 307.

[24]Stanislao Ricci, Realtà e fantasia: la finestra murata, in “La Portella”  I/3 dicembre 1993, p. 10.

[26] Delle cause de’ terremoti e loro effetti. Danni sofferti dalla città di Isernia fino a quello de’ 26 luglio 1805, documento originale custodito dalla famiglia Milano e edito da Marinelli editore, Isernia, nel 1984.