Fino alla
scoperta dell’agricoltura, nessuno nasceva e moriva nella stessa porzione di
Terra, tutti costretti a muoversi per mangiare; ma anche dopo che si capì come
avere un spiga partendo da un chicco, molti popoli hanno continuato a
transumare per sorte o costume, entrando a casa d’altri con le buone o le
cattive, miscelando sangue e geni. Migrare humanum est.
Scrivo
questo non per commentare gli inutili muri che ancora si vogliono erigere a distanza
di mille e cinquecento anni dalla dimostrazione della permeabilità del limes romano, ma sull’onda emotiva di
una recente visita a Montecassino; tra le tante suggestioni raccolte, mi sono
ricordato del brano di Paolo Diacono in cui si dice che siamo tutti – noi che
viviamo qui, tra Sepino, Bojano e Isernia – un po’ bulgari (e poi un po’
saraceni, normanni, spagnoli…).
Paolo, monaco cassinense, scrive la sua Historia Langobardorum nel
triennio 787/789. Il brano in cui parla di bulgari è questo:
«In questi tempi, un capo bulgaro di nome Alzecone avendo lasciato
il suo Paese per cause che non conosciamo entrò pacificamente in Italia insieme
ai suoi e si presentò dal re Grimoaldo promettendogli di essergli fedele vassallo
se questi gli avesse concesso un qualche territorio tra i suoi. Così il re lo
inviò da suo figlio Romualdo, duca di Benevento, con l’ordine di concedergli
terra in cui abitare con tutto il suo popolo. Romualdo lo accolse e, ben
felice, gli assegnò un vasto territorio, che allora era disabitato, vale a dire
quello ricompreso tra Sepino, Boiano, Isernia e altri paesi vicini, ordinando
che Alzecone, mutando titolo alla propria dignità, da capo delle sue
genti divenisse gastaldo del re. Così che ancora oggi, in quelle terre, sebbene
abbiano adottato lingua e costumi latini conservano ancora in
uso le loro tradizioni e cultura.»[1]
Paolo
racconta di fatti risalenti a oltre cento anni prima. Questo Alzecone (Alzeco,
Altzek, Alcek o come si voglia chiamarlo) era un capo militare bulgaro – vuole
la leggenda, uno dei cinque figli del khan Kubrat, Grande Bulgaro, quando la Bulgaria era in Ucraina. Per sfuggire a lotte
intestine apertesi per la successione al padre, Alzecone migrò con tutto il
suo clan verso la Germania prima (dove i Franchi di re Dagoberto gli offrirono
un pogrom a sorpresa) e, con gli scampati, pare meno di mille, finalmente in
Italia dove si rivolse – come ci dice Paolo – al re longobardo Grimoaldo
(662-671).
Questo
Grimoaldo si era da poco insediato sul trono pavese, avendolo strappato a
Godeperto. La cosa è un po’ complicata: era successo che alla morte di Ariperto
(661) il Regno longobardo venisse diviso tra i suoi due figli, Pertarito e
Godeperto, come fosse stato un campo di fave, ognuno a governarsi la sua
porzione, uno a Milano, l’altro a Pavia. Ma i due, ovviamente, volevano rubarsi
l’uno le fave dell’altro e ricostituire la Longobardia maior sotto
un solo re. Della cosa approfittò il duca di Benevento, Grimoaldo appunto, cognato
terrone dei due litiganti, che lasciò il ducato al figlio Romualdo e partì con
le truppe a conquistarsi un regno.
Così,
quando Grimoaldo manda Alzecone da Romualdo con l’ordine di concedergli terre
da abitare, conosce perfettamente la situazione dei territori ai piedi del
Matese e di buon animo ne vede un ripopolamento per mano bulgara. Il vantaggio
è reciproco: il duca di Benevento guadagna un fedele vassallo – e infatti, di
lì a poco, lo utilizza militarmente contro i Bizantini di Puglia – e i Bulgari
trovano finalmente casa tra Boiano e Isernia. È da sottolineare che la
concessione di terre viene preceduta dal mutamento di dignità: Alzecone viene
nominato gastaldo, che, nell’organizzazione del ducato di Benevento, equivale
a vassallo che amministri una porzione di territorio per conto del duca
(nella Longobardia maior, invece, il gastaldo è funzionario di
nomina regia – come sarà il giustiziere con gli Svevi – posto a controllare,
in funzione di contenimento, il potere territoriale dei duchi; in altri termini
il rapporto che intercorre tra il rex longobardorum e i molti
duchi del regno è, nei ducati di Spoleto e Benevento, esattamente lo stesso
che intercorre tra i due duchi e i loro gastaldi).
Ora, a
Alzecone vengono dati territori che usque ad illud tempus deserta
erant . Tuttavia, parlare di terre disabitate appare eccessivo. Paolo
Diacono usa certo un espediente retorico per indicare civitas che
rispetto al periodo classico risultano ora scarsamente popolate, ma non
deserte. Anche perché i mille bulgari a seguito di Alzecone difficilmente
avrebbero potuto ripopolare da soli il gastaldato.
Non dico
nulla di nuovo: lo sosteneva già Giovan Vincenzo Ciarlanti nel suo Memorie
Historiche del Sannio: «è qui da notarsi che non si debba intendere che
fossero tutti dishabitati, ma gli giudicasse per tali a paragone dei tempi
passati».
C’è stata
dunque sovrapposizione e integrazione tra vecchi e nuovi abitanti, pacifica o
meno non è dato saperlo. In ogni caso, stupra o iustae
nuptiae, ci sarà stata miscela di sangue, piccoli protobulgaro-sanniti,
àvaro-isernini avranno percorso ciabattando il selciato malmesso del cardo maximus ora intitolato ai
Marcelli.
Già, quale
Isernia trovarono i bulgari di Alzecone? Si conoscono le caratteristiche
generali della città altomedievale nel contesto dell’Italia meridionale – e
per questo riferibili a grosse linee anche agli abitati di Isernia e Boiano
che città lo erano state già con Roma. Queste caratteristiche vanno riassunte
nello scadimento qualitativo, rispetto agli insediamenti di età romana, degli
edifici privati, per i quali si registra la quasi totale sostituzione del legno
alla muratura, con la conseguenza della riduzione della volumetria e dell’alzato;
nell’abbandono degli spazi ed edifici pubblici, che spesso modificano la loro
originaria destinazione e, se diruti, subiscono la spoliazione dei componenti
architettonici per riutilizzi privati; nella “pervasività” dell’elemento
“campagna” all’interno dello spazio urbano (orti e terreni incolti a fare
cesura dell’abitato) e la conseguente creazione di più aggregati
coesistenti nello spazio urbano originariamente occupato dalla città romana e
individuato dal perimetro murario; collegato a questo, la diffusione delle
aree di sepoltura all’interno dei centri abitati.[2]
Certo i
Bulgari fermarono qui il loro lungo peregrinare. Abitarono case di legno, ma
case. Umberto Eco nel Pendolo parlava
di Urbanistica nomadica come disciplina universitaria dell’impossibile.
Qui ci andiamo vicino.
Tutto
quello che sappiamo dei Bulgari molisani è per la penna di Paolo Diacono.
Potrebbe trattarsi anche di uno scherzo.
No.
Negli anni ‘80
del secolo scorso, in una località chiamata Vicenne, nella pianura di Campochiaro,
(dunque tra Sepino e Bojano) vennero ritrovate numerose sepolture di cavalieri
con cavallo, all’uso asiatico.
Come scrive Bruno Genito, la necropoli di Vicenne
«rappresenta un unicum culturale, ad un tempo “asiatico” e “nomadico” caratterizzato dalla presenza di numerose tombe con cavallo che rimandano ad analoghe forme di sepolture rinvenute proprio tra i popoli nomadi delle steppe Eurasiatiche (…) Non esistono molte informazioni storiografiche relative all’epoca altomedioevale nell’area del rinvenimento della necropoli di Vicenne con la sola eccezione del famoso passo di Paolo Diacono relativo alle truppe Bulgare di Alzecone arrivate nella piana di Sepino, Bojano e Isernia».[3]
Siamo tutti mistisangue, meticci.
È così, fuori di dubbio.
[1] Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, a cura di L. Bethmann - G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Lang. et Italic. saec. VI-IX, I, Hannoverae
1878, p. 154. «Per haec tempora Vulgarum dux Alzeco nomine,
incertum quam ob causam, a sua gente digressus, Italiam pacifice introiens, cum
omni sui ducatus exercitu ad regem Grimuald venit, ei se serviturum atque in
eius patria habitaturum promittens. Quem ille ad Romualdum filium Beneventum
dirigens, ut ei cum suo populo loca ad habitandum concedere deberet, praecepit.
Quos Romualdus dux gratanter excipiens, eisdem spatiosa ad habitandum loca,
quae usque ad illud tempus deserta erant, contribuit, scilicet Saepinum,
Bovianum et Iserniam et alias cum suis territoriis civitates, ipsumque
Alzeconem, mutato dignitatis nomine, de duce gastaldium vocitari praecepit. Qui
usque hodie in his ut diximus locis habitantes, quamquam et Latine loquantur,
linguae tamen propriae usum minime amiserunt». La traduzione è mia.
[2] vd. Gian Pietro Brogiolo, Sauro Gelichi, La città nell’alto medioevo italiano,
Bari, 2007