Nella Guida all'Italia dei Templari, quando si parla di San Giacomo del Tempio di Isernia, la si colloca nella «piazzetta di Sant’Angelo, detta oggi di San Giuseppe». In assenza di fonti che attestino una precessione della commenda lungo Vicolo Storto Castello, spostare in Sant'Angelo ciò che notar Carlucci colloca - come già detto - «di rimpetto al vicolo che conduce a Sant'Angelo», costituisce un errore. L'inesatta localizzazione si deve, probabilmente, ad un fraintendimento delle parole usate dal notaio, che pure il compilatore della scheda su San Giacomo mostra di aver letto, considerato che il volume di Ermanno Turco – unico a trascrivere integralmente il cabreo notarile conservato nell'Archivio capitolare – viene citato nella bibliografia della Guida.
Se l'ingresso del palazzino era, nel 1745, «di rimpetto al vicolo che conduce a Sant'Angelo», la commenda doveva aprirsi sull'asse viario che, allora come ora, unico attraversa la città – sto parlando dell'attuale Corso Marcelli – nel punto in cui si ha di fronte l'imbocco del vicolo che porta a Piazza Sant'Angelo (Vico Storto Castello).
Ulteriore prova è fornita dal riferimento al «pozzetto col jus dell'acqua»: a rileggere la descrizione del notaio Carlucci appare evidente che la presa d'acqua posta nel cortile della commenda attingeva la stessa «dalla condottiera, seu viale dell'acqua della città»; ebbene, ab urbe condita, il tracciato dell'acquedotto, dentro la cinta muraria, segue l'andamento della strada principale, tradizionalmente identificata con il locativo Piazza e, dal 1870, Corso Marcelli. In nessun modo potrebbe ritenersi che il pozzetto vada identificato con la fontana pubblica posta al centro di Piazzetta Sant'Angelo, che è, invece, solo della fine dell' '800, «allorquando fra il 1893 e 1897 fu restaurato e rifatto l'intero acquedotto e fu allargata la rete idrica a tutte le piazze e ai vicoli interni» (F. Cefalogli).
L'errore che la Guida compie – e che taccia inevitabilmente di approssimazione l'intero contenuto della scheda – ingenera ulteriori fraintendimenti quando riferisce come appartenenti a San Giacomo le mura delle costruzioni che insistono su Piazzetta Sant'Angelo. Continuando nella lettura della scheda, sotto la rubrica Che cosa rimane, si sostiene, infatti, che «di San Giacomo restano ancora tratti di mura antiche sia nella piazzetta che nello strapiombo sulla strada sottostante (l'antica via che scendeva da Roccaraso). Nel tratto di vecchie mura che delimita un lato della piazzetta, in antico il cortile della precettoria, si può ancora vedere parte del “palazzino” dove alloggiava un elegante portale cinquecentesco»Non si comprende dove, e in che cosa, gli autori della Guida abbiano voluto vedere e riconoscere i descritti resti del Palazzino. Chi conosce Piazza Sant’Angelo – va detto en passant che il locativo non compare nella toponomastica ufficiale (che vi vede solo uno slargo del Vico Storto Castello) ma certo esiste in cordibus – sa che la stessa è delimitata, oltre che dal vicolo a oriente, nel tratto a sud, dal muro di fabbrica dell’antica chiesa di San Giuseppe; nei rimanenti tratti a occidente e settentrione, dall’originale alternarsi di vuoti e pieni delle case a schiera poste là dove tradizionalmente si vuole esistente il Castello longobardo. Non è dato sapere dove il compilatore della guida abbia visto alloggiato l’elegante portale cinquecentesco dell’asserito palazzino. Allo stesso modo, le mura antiche viste nello strapiombo sulla strada sottostante possono al più essere quelle della cinta muraria cittadina, nella ricostruzione presumibilmente intervenuta dopo che Federico II, nel 1223, ordinasse la distruzione totale delle mura della città.
Non c'è nessuna antica via che scende da Roccaraso: la strada sottostante a piazzetta S. Angelo, via Occidentale, tangenziale ante litteram alla città, fu aperta alla metà dell'Ottocento allorché si comprese che il budello di Corso Marcelli – colmo per lungo tempo delle macerie del sisma del 1805 – costituiva una innaturale strozzatura.
(Foto: 1. «di rimpetto al vicolo che conduce a Sant'Angelo»; 2. «(...) vicolo che conduce a Sant'Angelo»; 3. «piazzetta di Sant’Angelo, detta oggi di San Giuseppe». Le foto sono mie. Se le utilizzate, citate la fonte: si vive di piccole soddisfazioni.)
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lunedì 21 febbraio 2011
giovedì 3 febbraio 2011
Templari a Isernia. 1745, 1373
Prima che si mobilitino Giacobbo ed emuli cazzari con sindoni, graal e bafometti, occorre chiarire che per la storia di San Giacomo del Tempio di Isernia, commenda urbana dei Cavalieri Templari della primissima metà del XIII secolo (forse), l'unico mistero templare da chiarire e se sia davvero esistita.
Partiamo dal certo, e facciamo un lungo salto in avanti. La descrizione di quella che era la chiesa di San Giacomo alla metà del XVIII secolo la dà il notaro Carlucci in un documento del 1745: nel fare l’inventario dei beni che, in Isernia, s’appartengono alla «Venerabile Commenda di San Gio: di questa Città di Isernia», il notaio si reca a visionare i due stabilimenti che la compongono: quello, eponimo, di San Giovanni Battista (sito «fuori le mura, dove si dice la Fiera», cioè dalle parti dell’attuale Parco della Rimembranza) e l’altro, subalterno, di San Giacomo. Il documento - che dovrebbe essere conservato presso l'Archivio Capitolare della Cattedrale - è riportato integralmente da Ermanno Turco nel suo «Isernia in cinque secoli di storia», edito a Napoli nel 1948 e di recente ristampato anastaticamente.
Dice Carlucci attraverso Turco: «Personalmente ci semo conferiti nel Palazzino di questa Ven.le Commenda (...) chiamato vulgarmente S. Giacomo ed è sito dentro questa città d’Isernia, e tra le due parrocchie di S. Maria e S. Elena». Precisa è l’indicazione dell’ingresso del Palazzino de’ Signori Commendatori, «il portone del quale è di rimpetto al vicolo che conduce a S. Angelo, ora S. Giuseppe»; questo immette in un «cortile non molto largo e ad un canto di questo cortile, e proprio a sinistra nell'entrare, vi è pozzetto col jus dell'acqua, la quale riceve dalla condottiera, seu viale dell'acqua della città.» Superato il piccolo cortile si accede alla chiesa «racchiusa e posta nel recinto e clausura di detto Palazzino». Dalla via principale, aperto il portone che immette nel piccolo cortile, si sarebbe vista la porta a doppia battuta di San Giacomo: «ha ella la sua porta per linea diretta al portone predetto». Il notaio procede poi in modo un po’ confuso, alternando punti di vista all’interno e di nuovo all’esterno dell’immobile: «È ella di grandezza capace, così pure nell'altura; nel fondo di essa vi è l’Altare con il suo quadro pittato al muro con l’Effige di Nostra Signora e Bambino Giesù nelle braccia; posta tra S. Gio: Battista a destra e S. Giacomo Apostolo a sinistra, nel di cui altare vi è un dosello di legno pittato (...) Il pavimento di detta chiesa è astrico ben battuto e polito; dietro la porta, a destra nell’entrare, vi è una colonnetta di pietra ben lavorata e sopra di essa la fonte dell’acqua benedetta. Vi è la sua campana ben corrispondente alla chiesa ed è posta in un archetto di fabbrica, che sta nella punta della facciata d’avanti, corrispondente alla porta, la quale è ben foderata e lavorata ed apre a due».
Se questa è la descrizione della San Giacomo melitense del XVIII secolo, conoscendo la vicenda successoria che ha portato i beni dei Cavalieri Templari, dopo lo scioglimento cruento del 1312, a giungere agli Ospitalieri e da questi ai Cavalieri di Malta, e dando fede a quell'unica fonte - Archivio Segreto Vaticano, Instrumenta miscellanea, ms. Latino 2780; documento citato da Loredana Imperio, San Giacomo del Tempio di Isernia, in Atti del VII Convegno di Ricerche Templari a cura della L.A.R.T.I., Latina, 1991, p. 40 - che, nel 1373, ci parla di uno stabilimento degli Ospitalieri «un tempo commenda templare», è più che legitttimo ritenere che la commenda descritta dal Carlucci nel 1745 sia nello stesso luogo – e, plausibilmente, abbia anche sostanziale dimensione e composizione – della originaria, asserita precettoria templare di San Giacomo.
Per adesso, basti sapere questo.
Partiamo dal certo, e facciamo un lungo salto in avanti. La descrizione di quella che era la chiesa di San Giacomo alla metà del XVIII secolo la dà il notaro Carlucci in un documento del 1745: nel fare l’inventario dei beni che, in Isernia, s’appartengono alla «Venerabile Commenda di San Gio: di questa Città di Isernia», il notaio si reca a visionare i due stabilimenti che la compongono: quello, eponimo, di San Giovanni Battista (sito «fuori le mura, dove si dice la Fiera», cioè dalle parti dell’attuale Parco della Rimembranza) e l’altro, subalterno, di San Giacomo. Il documento - che dovrebbe essere conservato presso l'Archivio Capitolare della Cattedrale - è riportato integralmente da Ermanno Turco nel suo «Isernia in cinque secoli di storia», edito a Napoli nel 1948 e di recente ristampato anastaticamente.
Dice Carlucci attraverso Turco: «Personalmente ci semo conferiti nel Palazzino di questa Ven.le Commenda (...) chiamato vulgarmente S. Giacomo ed è sito dentro questa città d’Isernia, e tra le due parrocchie di S. Maria e S. Elena». Precisa è l’indicazione dell’ingresso del Palazzino de’ Signori Commendatori, «il portone del quale è di rimpetto al vicolo che conduce a S. Angelo, ora S. Giuseppe»; questo immette in un «cortile non molto largo e ad un canto di questo cortile, e proprio a sinistra nell'entrare, vi è pozzetto col jus dell'acqua, la quale riceve dalla condottiera, seu viale dell'acqua della città.» Superato il piccolo cortile si accede alla chiesa «racchiusa e posta nel recinto e clausura di detto Palazzino». Dalla via principale, aperto il portone che immette nel piccolo cortile, si sarebbe vista la porta a doppia battuta di San Giacomo: «ha ella la sua porta per linea diretta al portone predetto». Il notaio procede poi in modo un po’ confuso, alternando punti di vista all’interno e di nuovo all’esterno dell’immobile: «È ella di grandezza capace, così pure nell'altura; nel fondo di essa vi è l’Altare con il suo quadro pittato al muro con l’Effige di Nostra Signora e Bambino Giesù nelle braccia; posta tra S. Gio: Battista a destra e S. Giacomo Apostolo a sinistra, nel di cui altare vi è un dosello di legno pittato (...) Il pavimento di detta chiesa è astrico ben battuto e polito; dietro la porta, a destra nell’entrare, vi è una colonnetta di pietra ben lavorata e sopra di essa la fonte dell’acqua benedetta. Vi è la sua campana ben corrispondente alla chiesa ed è posta in un archetto di fabbrica, che sta nella punta della facciata d’avanti, corrispondente alla porta, la quale è ben foderata e lavorata ed apre a due».
Se questa è la descrizione della San Giacomo melitense del XVIII secolo, conoscendo la vicenda successoria che ha portato i beni dei Cavalieri Templari, dopo lo scioglimento cruento del 1312, a giungere agli Ospitalieri e da questi ai Cavalieri di Malta, e dando fede a quell'unica fonte - Archivio Segreto Vaticano, Instrumenta miscellanea, ms. Latino 2780; documento citato da Loredana Imperio, San Giacomo del Tempio di Isernia, in Atti del VII Convegno di Ricerche Templari a cura della L.A.R.T.I., Latina, 1991, p. 40 - che, nel 1373, ci parla di uno stabilimento degli Ospitalieri «un tempo commenda templare», è più che legitttimo ritenere che la commenda descritta dal Carlucci nel 1745 sia nello stesso luogo – e, plausibilmente, abbia anche sostanziale dimensione e composizione – della originaria, asserita precettoria templare di San Giacomo.
Per adesso, basti sapere questo.
mercoledì 2 febbraio 2011
In vino paupertas. Isernia 26 luglio 1857
Nell’estate del 1857, nel giorno di Sant’Anna, allorché venne introdotto il dazio comunale sul vino – particolarmente odioso perché imposto sul consumo, come testatico gravante finanche sui dodicenni – due o trecento contadini, al grido di “Viva il Re! Non vogliamo il dazio sul vino” marciarono lungo la Piazza (l'attuale Corso Marcelli) fino alla Sottointendenza.
«Dato così il segnale due di essi, uno suonando la zampogna, ed un altro il tamburrello, si mettono alla testa degli altri e si danno a scorrer le strade del paese. Anche un tamburriere, incontrato a caso col suo strumento sulle spalle, vien arrestato e con minacce costretto a batter il tamburo. Ad appello sì clamoroso rispondono i contadini coll’accorrer da tutte le vie a riunirsi. (…) E costituitisi quindi in numero imponente, difilati procedono verso la casa del Sotto-Intendente. Quivi giunti, come a lava, irrompono nel cortile e scossa quell’autorità dal suono de’ cennati strumenti e dalle grida di Viva il Re, vestita di uniforme, discende in unione dell’Ispettor di Polizia»
(Gran Corte Criminale di Molise, Udienza 3 dicembre 1857, in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Reazione d’Isernia, Il Giudizio innanzi la Corte d’Assise ed i ricorsi in Cassazione, in Storia d’Isernia al cadere dei Borboni nel 1860, s.l. [Italia], s.d., pp. 172-177)
Seguono schermaglie da manifestazione di piazza: i contadini chiedono rispettosamente che si tolga il balzello. Il sottointendente eccepisce non esser quello il modo di chieder grazie, e invita la folla a disperdersi; ma questa, anzi, cresce di numero, spinge. Si dirigono tutti fino a casa del sindaco Gaetano Mancini, al quale impongono l’ostensione del ruolo, perché venga lacerato; ma il ruolo è presso il municipio, e allora tutto il corteo, con sindaco, sottointendente, ispettor di polizia, e sei gendarmi al seguito, si porta presso la casa del misero cancelliere comunale, perché vada in comune a prendere il libro mastro. Finalmente, il ruolo viene esibito, dato a uno del popolo. Passa a altre mani, fino a restarne lacerate le prime pagine. Sorge però un dubbio: e se quell’involto che sta passando di mano in mano come un trofeo dovesse essere inutile carta e non il preteso ruolo? In una città dove sa leggere uno su cento, il problema è trovare terze parti che sappiano confermare la bontà di quel brogliaccio. Si provvede:
«(…) preso a forza l’uscier Santorsola, a via di minacce lo costringe a salir sulla fontana ed a leggere ad alta voce quelle carte, con che, non essendo più dubbio di contenere esso il ruolo disputato, uno di quegli insensati lo strappa dalle mani dell’usciere, ed egli ed altri riducendolo a brani, a gara ognuno di questi bravi si provede, e se li fuma nella pipa. Conseguito così l’intento a poco a poco quella ciurmaglia dileguasi, finiscono le eccedenze, e tutto ritorna nell’ordine.»
Gli eventi del 26 luglio 1857, assolutamente incruenti, quasi al limite (interno) della rilevanza penale – se si tace del ceffone assestato a un guardiaboschi ritroso, della violenza privata usata all’usciere Santorsola, con minaccia di diruparlo per la Prece e poco altro – pure portarono la Gran Corte Criminale di Molise a irrogare pene di sette o sei anni di reclusione ai ventiquattro imputati.
«Dato così il segnale due di essi, uno suonando la zampogna, ed un altro il tamburrello, si mettono alla testa degli altri e si danno a scorrer le strade del paese. Anche un tamburriere, incontrato a caso col suo strumento sulle spalle, vien arrestato e con minacce costretto a batter il tamburo. Ad appello sì clamoroso rispondono i contadini coll’accorrer da tutte le vie a riunirsi. (…) E costituitisi quindi in numero imponente, difilati procedono verso la casa del Sotto-Intendente. Quivi giunti, come a lava, irrompono nel cortile e scossa quell’autorità dal suono de’ cennati strumenti e dalle grida di Viva il Re, vestita di uniforme, discende in unione dell’Ispettor di Polizia»
(Gran Corte Criminale di Molise, Udienza 3 dicembre 1857, in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Reazione d’Isernia, Il Giudizio innanzi la Corte d’Assise ed i ricorsi in Cassazione, in Storia d’Isernia al cadere dei Borboni nel 1860, s.l. [Italia], s.d., pp. 172-177)
Seguono schermaglie da manifestazione di piazza: i contadini chiedono rispettosamente che si tolga il balzello. Il sottointendente eccepisce non esser quello il modo di chieder grazie, e invita la folla a disperdersi; ma questa, anzi, cresce di numero, spinge. Si dirigono tutti fino a casa del sindaco Gaetano Mancini, al quale impongono l’ostensione del ruolo, perché venga lacerato; ma il ruolo è presso il municipio, e allora tutto il corteo, con sindaco, sottointendente, ispettor di polizia, e sei gendarmi al seguito, si porta presso la casa del misero cancelliere comunale, perché vada in comune a prendere il libro mastro. Finalmente, il ruolo viene esibito, dato a uno del popolo. Passa a altre mani, fino a restarne lacerate le prime pagine. Sorge però un dubbio: e se quell’involto che sta passando di mano in mano come un trofeo dovesse essere inutile carta e non il preteso ruolo? In una città dove sa leggere uno su cento, il problema è trovare terze parti che sappiano confermare la bontà di quel brogliaccio. Si provvede:
«(…) preso a forza l’uscier Santorsola, a via di minacce lo costringe a salir sulla fontana ed a leggere ad alta voce quelle carte, con che, non essendo più dubbio di contenere esso il ruolo disputato, uno di quegli insensati lo strappa dalle mani dell’usciere, ed egli ed altri riducendolo a brani, a gara ognuno di questi bravi si provede, e se li fuma nella pipa. Conseguito così l’intento a poco a poco quella ciurmaglia dileguasi, finiscono le eccedenze, e tutto ritorna nell’ordine.»
Gli eventi del 26 luglio 1857, assolutamente incruenti, quasi al limite (interno) della rilevanza penale – se si tace del ceffone assestato a un guardiaboschi ritroso, della violenza privata usata all’usciere Santorsola, con minaccia di diruparlo per la Prece e poco altro – pure portarono la Gran Corte Criminale di Molise a irrogare pene di sette o sei anni di reclusione ai ventiquattro imputati.
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