Il
Garrucci di De Leonardis. Ex uno, plures
(Gabriele
Venditti)
Il
libro che avete aperto e di cui state leggendo l’introduzione – questo libro,
questa introduzione – è unico; o meglio: unico è l’originale da
cui sono stati tratti, in ristampa, i molti volumi tra cui il vostro. Andiamo a
spiegare: La Storia di Isernia raccolta dagli antichi monumenti è un
dotto divertissement – l’ossimoro è
calzante – di un gesuita napoletano di metà Ottocento, Raffaele Garrucci – o,
vezzosamente, Raffaello, come apposto dallo stampatore del 1848. Nell’unico
dagherrotipo che lo ritrae maturo, in tre quarti, ha sguardo severo e mento
volitivo, più adatto a un capitano di ventura che ad un archeologo e
numismatico in abito talare, autore di oltre cento volumi, nessuno dei quali
imprescindibile, eccettuata forse la monumentale Storia dell’arte cristiana. Va da sé che, se ci fermassimo al testo
riprodotto in anastatica nelle pagine seguenti, potremmo solo convenire di
essere incappati in una delle tante monografie comunali di gusto antiquario, dal
titolo anche fuorviante perché limitato alla storia della sola città romana,
tratta dalle numerosissime epigrafi che quel mondo ci ha generosamente lasciato,
scritta per la curiosità dei pochi che – allora come ora – si muovono a loro
agio tra l’epigrafia e altre morenti discipline.
Chiariamo,
allora: questo libro – anzi, quel
libro: l’originale – è unico non per le sue duecento pagine di testo, ma per la
nutrita appendice che il notaio isernino Cesare De Leonardis, nell’ultimo
decennio del XIX secolo, fece aggiungere in calce alla sua personale copia del
Garrucci, rendendola personalissima; su
quei cento e più fogli di carta filigranata rilegati col volume del gesuita
napoletano a formare un corpo unico, De Leonardis ha riportato, a matita, a
china e inchiostri colorati, piccole vedute della sua città, schizzi e disegni,
la gran parte assolutamente inediti, che lui, perché appassionato di storia locale
e archeologia, fece di luoghi, monumenti e reperti archeologici allora visibili
a Isernia e nel contado; bozzetti che costituiscono l’unica testimonianza
visiva attualmente nota – quasi fotografie da un età prefotografica – di ciò che non è più esistente o di ciò che, fino
ad ora, nemmeno si conosceva come esistente.
Non
so se, a questo punto, è chiara l’unicità
del Garrucci di De Leonardis. Pensate, allora, alla Venezia del Settecento
senza il Canaletto, alla Roma drammatica ritratta a bulino da Giovanni Battista
Piranesi. Ora, riducendo del dovuto, vorrei continuare la proporzione (a:b = c:d) intercalando Isernia e De
Leonardis. Pensate alla difficoltà di ricostruire il paesaggio urbano che fu
per città che non sono Roma o Venezia, tante volte e da tanti ritratte; ma per
terre di provincia, periferiche e misconosciute, con pochi cantori e ancor meno
illustratori, che pure hanno storia millenaria e tante volte hanno modificato
il loro volto, fino a cancellarne anche le cicatrici. Consideriamo Isernia,
devastata – fermandoci all’ultimo millennio – da almeno quattro terribili
terremoti e provata dal fuoco di eserciti antichi e moderni, i Francesi del
1799, i Piemontesi del 1860, gli Angloamericani e i Tedeschi in ritirata del
1943; per non parlare di nemici meno eclatanti ma altrettanto perniciosi, nel
loro continuo, silenzioso operare da tarlo: il cemento selvaggio, l’incuria,
l’ignoranza di chi non distingue tra antico e vecchio. Continue trasformazioni,
che non sempre – o quasi mai – procedono lungo la linea che porta verso la
bellezza, l’armonia. Quanto importante, allora, è avere avuto, se non il Canaletto
con la sua Camera obscura, almeno un
devoto notaio, animato dall’amore per la città, che dobbiamo immaginare curvo
sul suo taccuino a raccogliere per vie, vicoli e mulattiere schizzi di antiche
pietre, da riprodurre poi in bella copia, a sera, alla luce di un lume a
petrolio, sull’album in
calce al suo Garrucci.
Perché è così
che operava il nostro Cesare: con i suoi amici – tra tutti quel Domenicantonio
Milano autore di una monografia su Isernia che solo quest’anno è stata
finalmente edita – esplorava il territorio alla ricerca di antichità, che riportava su fogli sciolti, sul retro magari di
grigia corrispondenza notarile (spesso, dietro le minute dei disegni, ci sono
appunti inconferenti, che parlano di ipoteche o compravendite). Poi, con calma,
ricopiava in bella, a china e colore, sui fogli ocra del Garrucci. Non sempre,
tuttavia, c’era posto per le note, l’indicazione del luogo di ritrovamento, le
misure del manufatto. Sull’originale, sulla bella
copia, spesso molte informazioni sono andate perse (tante che, per molti
disegni, è spesso ignoto addirittura l’oggetto ritratto). Per questo, le
minute, gli antigrafi –
fortunatamente conservati nell’Archivio familiare dei De Leonardis, insieme al
volume di Garrucci – completano, quando possono, con i dati che recano, i
disegni dell’appendice (e in questa edizione si è deciso di riportare in
didascalia, laddove sono state trovati, gli appunti delle minute).
Molte di queste
informazioni, tuttavia, possono forse non avere più significato: non sappiamo,
noi lettori tardi, giunti dopo oltre un secolo a sfogliare di nuovo il Garrucci
di De Leonardis, quale sia il «fondo che si coltiva da Vincenzo
Di Falco, sulla strada che mena a Fornelli»; dove il giardino del signor D. Cosmo Melogli, nel quale il 3 giugno del
1890 Cesare trovò e disegnò un certo rudere; gli esatti confini della tenuta del signor D. Ippolito Laurelli, alla Quadrella,
così ricca di epigrafi.
Ma
per tanti altri disegni e glosse, è diverso. Come una macchina del tempo, ci aprono
finestre su una città che non esiste più: troviamo perfettamente ritratta, in
ogni suo dettaglio architettonico, la facciata della Chiesa dell’Annunziata –
che, sconsacrata, si conservò fino al 1896 per poi cedere superficie all’attuale palazzo
Pansini – della
quale era noto soltanto il portale perché finora apparso, fuori fuoco, in una
foto d’epoca. Assolutamente inedita, invece, la Porta di Giobbe, aperta nel
tracciato delle mura medievali, dove ora termina il vicolo che ne ha mutuato
l’odonimo, e che scopriamo ora avere arco a tutto sesto, affiancato
lateralmente da due bertesche. Così anche il Convento di Santa Maria delle
Grazie, che conoscevamo unicamente in pianta e, per il solo lato che dava sul
Tratturo, per una fotografia scattata in occasione di una Fiera delle Cipolle
di anteguerra. Allo stesso modo, inedita è la vista a volo d’uccello di Palazzo
S. Francesco, ritratto dal suo lato orientale, sovrastante i magnifici orti
urbani che caratterizzarono la città, e indicato in didascalia come «diruto monastero di S. Francesco»,
perché ancora colpito, a fine secolo, dagli effetti del devastante terremoto
del 25 luglio1805.
Viene
chiarito il mistero dell’obelisco di Piazza Mercato, o Largo San Pietro, come
allora altrimenti si chiamava la piazza centrale di Isernia, mutuando il nome
dall’intitolazione della Cattedrale: e questa è storia che merita una
digressione. Fino all’inedito bozzetto del notaio, l’obelisco era rappresentato
in due sole immagini: una stampa di metà Ottocento, più volte riquadrata e
modificata, e una sgranata fotografia dell’ultimo decennio del secolo. Nella
stampa, meno nella fotografia, la piazza veniva rappresentata, al centro, con
fontana e obelisco. Dal punto di osservazione scelto – spalle a via Marcelli e
faccia alle Mainarde – sembrava quasi che fontana e obelisco, schiacciati nella
prospettiva, costituissero un tutt’uno e che l’obelisco si ergesse dal centro
della vasca. Per vero, fonti d’archivio, ci riferivano già di come l’obelisco fosse
distante dalla fonte almeno una decina di metri e di come ne nascondesse il
castelletto di carico dell’acqua, necessario in quanto la fontana prevedeva non
soltanto, a livello di terra, quattro getti tratti dalla bocca di altrettanti
leoni in pietra, ma anche una vasca centrale con, alla sommità, uno zampillo.
De Leonardis ritrae la stessa piazza ribaltando il consueto punto di vista e
collocando, idealmente, l’osservatore su un pallone aerostatico fermo sul
vallone della Precia, che guardi
a ovest verso la Cattedrale. Qui l’obelisco si erge, coprendo la fontana, la
Cattedrale e il resto, monopolizzando la scena. Posto sulla sua sommità, un
giglio (segno della dinastia dei Borbone, incredibilmente rimasto anche oltre
il settembre 1860), non una croce, come si direbbe a guardare l’immagine in
stampa e fotografia. Segue un prezioso autografo, la cui trascrizione riporto integralmente
qui – sebbene presente nel prosieguo dell’opera – per dare già idea del
prezioso contributo che le molte glosse apposte ai disegni dànno a chi sia
interessato a ricostruire il volto di quella
città di Isernia:
«Dal 15
al 31 marzo 1896 furono abbattute per deliberazione del Municipio di
Isernia: 1. La fontana in pietra di forma circolare sita nel Largo S.
Pietro e propriamente innanzi al Cortile del Palazzo Vescovile, le cui acque si
versavano a getto per la bocca di quattro leoni di pietra scolpiti, giacenti e
situati a croce, nel cui centro si innalzava una vasca circolare, anche in
pietra, con un rilievo in mezzo a guisa di pigna da cui scaturiva dell'acqua a
zampilli. 2. Il Castelletto a guisa di piramide a pochi metri discosto da detta
fontana da cui derivavano le acque della fontana istessa. Esso Castelletto era
di mattoni a piatto, lato da terra circa metri dieci, con base in pietra viva
alta circa metri tre ornata di cornice della stessa pietra ed all'apice una
palla sostenuta da una pietra di forma quadrata ai cui lati leggevasi: 1° lato
A.R.C. 1832; 2° lato AESERNIA; 3° lato FERDINANDO II; 4° lato D.D.D. La stessa
palla sosteneva all'apice un giglio, del pari scolpito in pietra, appartenente
allo stemma dei sovrani Borboni. Nella facciata di essa piramide, verso la
Piazza di S. Pietro, erano incastrate, alla base, una leggenda, o dedica,
all'ex sovrano Borbone, scolpita in marmo, ed alla metà dell'altezza di essa
piramide lo stemma di Isernia come qui riprodotto. Tale costruzione
rimontava ad oltre mezzo secolo e non è fuori proposito far osservare che tanto
la leggenda che il giglio di sopra descritti furono abbattuti e distrutti nelle
vicende della rivoluzione del 1860 contro l'abolita Dinastia borbonica. »
Il
libro di cui avete terminato di leggere l’introduzione – questo libro e questa
introduzione – è unico e prezioso per
motivi che, da lettori, apprezzerete e condividerete già prima di giungere
all’ultima pagina.