Compendio di storia degli Ebrei nel
Meridione
Comunità di ebrei nel Meridione c’erano con Roma
imperiale e continuarono a esserci per tutto il Medio Evo. Come scrive Ferorelli[1] per l’area lucana e pugliese – Brindisi,
Venosa, Lavello – si hanno prove epigrafiche della «continuazione non
interrotta di colonie ebraiche dall’età imperiale infino al Mille».
«A’ tempi di Giustiniano, n’esistea gran numero in
Napoli». All’alba del Medio Evo si avevano
fiorenti comunità in Roma, in Sicilia e Sardegna.
Sotto i Longobardi (568-774), gli ebrei italiani vissero
in pace, il che continuò con i Normanni. Come si trova in un testo
politicamente scorretto di metà Ottocento…
«… comunque ostinati nell’ errore di
non volere riconoscere in Cristo il Redentore del Genere Umano, e la novella
alleanza, nulladimeno non incontrarono presso le varie nazioni quella
ostilità che suole dipendere dalla diversità di religione.» [2]
Il filosemitismo, anzi, caratterizzò il regno dell’illuminato
Federico II di Svevia: gli ebrei furono posti sotto la diretta protezione del
sovrano e parificati ai gentili per quanto riguarda il diritto di difesa e la
possibilità di agire in giudizio; fu regolamentata la pratica del prestito di
denaro, allora definita tout court usura, fissando per decreto
un saggio di interesse non superiore al 10%.
Con gli Angioini il clima iniziò a cambiare. Nel 1288
il Regno di Napoli decretò per la prima volta l’espulsione per gli ebrei. Le
conversioni alla vera religione venivano premiate con l’esenzione ad
vitam dal pagamento delle tasse (1293). Gli ultimi Angioini mantennero
un’ambiguità di fondo, tra necessità di assicurare crediti alla Corona e cristianissimo odio
verso i deicidi.
È con la Corona aragonese che gli ebrei del regno godettero
maggiori privilegi. Con Alfonso I, non a caso definito il Magnanimo,
e con suo figlio Ferrante (re Ferdinando I) che, per curare gli interessi dell’erario,
promise platealmente: «li Giudei serranno sempre defisi».
A partire dal 1442, poi, un considerevole numero di
ebrei sefarditi venne a vivere nell’Italia meridionale: agli ebrei antiqui o regnicoli si
affiancarono, ma in comunità distinte, quelli provenienti dalla penisola
iberica.
La morte di Ferrante (25 gennaio 1494) e la notizia
della prossima discesa di Carlo VIII di Francia nel Mezzogiorno
preannunciarono nuovi giorni tristi: in molti lasciarono le località minori e
si raccolsero nelle città, ritenute più sicure. A seguito dell’espulsione
degli ebrei dalla Spagna, nel 1492, e quindi dalla Sicilia e dalla Sardegna,
molti ebrei si riversarono nel Regno di Napoli; ma anche qui, li colpì un primo
provvedimento di espulsione nel 1504. Con l’arrivo a Napoli del viceré don
Pedro de Toledo (1532-1553) si inaugurò una politica di intolleranza che portò
ad un nuovo decreto di espulsione nel 1533 e a quello, ultimo e definitivo, del
1541: dopo questa data, la presenza ebraica nel Vicereame si ridusse
sensibilmente, fino a sparire; in molti si spostarono nell’Italia centrale e
settentrionale; chi rimase, lo fece convertendosi, accettando di mimetizzarsi
sotto la croce e divenendo un christiano novello.
Monogramma di Ysernia, da un atto notarile del 1221. |
Yiddish Ysernia!
Per Ysernia non abbiamo prove dell’esistenza
certa di ebrei stabiliti in città anteriormente al 1423. In quell’anno,
Giovanna II concesse a Benedetto Angelo di Todi e a Mosè di Abramo dell’Aquila
la facoltà di abitare e commerciare in diverse località dell’area abruzzese e
molisana tra cui, espressamente, Isernia[3]. Se tuttavia si considera che in contesti
anche prossimi comunità ebraiche sono attestate già in altissimo Medio Evo –
vd., p.es., il caso di Venafro, in cui un ebreo è denunciato come ricettatore in
una vendita oggetti sacri addirittura nel 591[4] e nel 1294, fruendo del bonus
fiscale della Corte angioina, 34 ebrei accettano il battesimo
cristiano[5] – è possibile, almeno per via
analogica, retrodatarne la presenza. In ogni caso, se anche
dobbiamo limitarci a ritenerla sorta in periodo durazziano, è certo che l’apogeo
della comunità ebraica di Ysernia si ebbe nella successiva età
aragonese: durante il regno di Alfonso I, la diffusione degli ebrei nel
Meridione ebbe, nel complesso, una forte crescita, anche se la distribuzione
regionale fece registrare notevoli disomogeneità, legate al maggiore dinamismo
economico manifestato da alcuni distretti rispetto ad altri. Nell’area
regionale abruzzese e molisana si ebbe un sensibile aumento della presenza
ebraica: dalle 140 unità censite nel 1170 alle 500 nel 1491; numeri esigui, d’accordo,
ma in asse con una realtà, quella molisana, in cui non esistevano grandi nuclei
urbani: alla metà del XV secolo, Isernia contava circa duemila abitanti ed
era il comune più popoloso dell’intero Contado di Molise.[6]
Per spiegarci il perché di un tale sviluppo dobbiamo
richiamare alla mente l’attività economica principalmente svolta dagli ebrei:
«[…] esclusi dalle arti e dai
mestieri, dagli uffici pubblici e dalle armi, dalle professioni liberali e dal
possesso fondiario, agli ebrei venne lasciata un’unica strada: il commercio del
denaro, cioè l’attività bancaria e creditizia che nel medioevo veniva chiamata
usura. Gli ebrei, desiderati e detestati, finirono per insediarsi nelle
principali città italiane, ottenendo spesso in occasione della costituzione
dei banchi, non solo vantaggi finanziari ma anche privilegi di altro tipo.»[7]
Alla metà del secolo XV, le comunità centro-appenniniche
vivono un boom economico. Nel 1447 Alfonso I impose ai pastori abruzzesi
e molisani di svernare entro i confini del Regno, nel Tavoliere, dove molti dei
terreni coltivati furono trasformati forzatamente in pascoli. Istituì inoltre,
con sede prima a Lucera e poi a Foggia, la Dogana della mena delle pecore in
Puglia e (ri)attivò l’importantissima rete dei tratturi che dall’Abruzzo
conducevano alla Capitanata. Si risollevò, così, l’economia delle città
interne fra L’Aquila e la Puglia: ne trassero giovamento le attività
artigianali locali, i mercati e i fori boari di Lanciano, Castel di Sangro,
Campobasso, Isernia, Boiano, Agnone, Larino.
Non c’è sviluppo che possa prescindere dalla disponibilità
di capitali. Si impiantarono, così, anche a Ysernia, banchi di
prestito – come visto, monopolio degli ebrei – cui seguì la concessione di
diritti di cittadinanza e residenza in città. Non è un caso, quindi, se in
quegli stessi centri che trassero vantaggio dalle illuminate politiche di
sviluppo di Alfonso il Magnanimo si ebbe uno sviluppo delle comunità ebraiche:
«I gruppi più consistenti furono attivi
nelle principali città (Aquila, Sulmona, Lanciano, Venafro, Isernia e
Campobasso), ma, sotto forma di piccoli nuclei, gli Ebrei furono presenti anche
in numerosi centri rurali.»[8]
Tutti giù per terra
Purtroppo, su una situazione di economia in decollo, s’abbattè
la catastrofe. La notte del 5 dicembre 1456 una terribile scossa di terremoto
causò distruzioni in un’area eccezionalmente vasta dell’Italia
centro-meridionale. «Sergna tutta in terra e morte circha persone MCC»,
scrisse l’ambasciatore a Napoli Francesco Cusano in una relazione sul sisma
inviata al duca di Milano.
Tra i 1200 morti, ci furono anche ebrei. Lo prova un
documento sottoscritto dai due sindaci Giovanni d’Isernia e Jacobo Andrea de
Thofanischis[9] a data 8 gennaio 1457, citato da
Turco e, per altri contenuti dello stesso che qui non interessano, da Viti[10]. L’antefatto vuole che,
dopo il terremoto, dai paesi limitrofi – ma non solo: sciacalli si ebbero tra
i concittadini e, finanche, tra gli ufficiali regi – gente si precipitò a saccheggiare
le case rovinate, asportando da quelle dei giudei anche i molti pegni che vi
erano custoditi:
«[…]multi vicini nostri sub colore de
aiuto sonno venute et hanno tolta e robbata multa robba et pecunie delle case
ruynate et delli morti nostre et hanno portatasi la dicta robba et facta molta
preda e rapina.»[11]
Tra le molte richieste al sovrano vi era l’invio in
città di un commissario regio che indagasse su eccidi e spoliazioni, supplica
che il re accolse con l’invio del giudice Troyle de Massa
«per far luce sui fatti, per cercare di
reperire i “molti pigni che
tenenvano con piena potestate” e
per procedere contro “li dicti delinquenti, affinché possi ponire,
carcerare, tormentare et debite castigare et far restituire la dicta robba a
chi se appartene.»
Altre concessioni del re Magnanimo riguardarono l’esenzione
fiscale per cinque anni e l’obbligo posto agli abitanti dei centri vicini al
cratere di contribuire alla ricostruzione. La città, tuttavia, non si riprese.
Neanche il reale dispaccio dell’ 8 gennaio 1463, con cui re Ferdinando
concesse al mastrogiurato de Ysernia il diritto di «bactere
o far bactere certa quantità di quatrini» (il diritto di coniare moneta),
produsse effetti sulla misera economia cittadina.
Fu così che le magistrature cittadine supplicarono il
sovrano perché consentisse il ritorno in città di almeno uno dei banchi di
prestito esistenti prima del terremoto; ne seguì il privilegio del 1469 con il
quale si dava autorizzazione ai cittadini di Ysernia di
«reducer et tener in dicta cita per
loro comodità uno judio di nome Guielmo Sacerdote lo quale habia ad
abitare et dimorar in quella sua vita durante et contrahere con la dicta
Università fino a la Università et homini predicti piacerà er parerà».[12]
La licenza sovrana fissava anche il tasso massimo
consentito per il prestito: «grana dudece per unza» e garantiva l’esclusiva:
«et che altro judio expeto esso no possa stare».
Nel documento regio l’autorizzato non è il judìo –
apostrofato con lessico più consono a denotare bestia, che si reduce e tene
per comodità – ma l’Università (il Comune, diremmo oggi); per questo,
il privilegio concede il diritto a risiedere in città al solo feneratore ebreo,
per la durata della sua sola vita («…habia ad abitare et dimorar in quella
sua vita durante»); tale diritto non si estende, tout court,
alla famiglia e ai suoi discendenti. La licenza dà prova, tuttavia, del
benvolere che la comunità riversa sull’usuraio ebreo: disporre, in
città, di un banco di prestito a interessi calmierati è una risorsa. Qui,
come altrove, «gli ebrei […] costituirono un elemento
prezioso per moderare le ingorde pretese dei prestatori cristiani»[13].
In ogni caso Gu[gl]ielmo Sacerdote non rimase a lungo
in città se è vero – come attingiamo da altra fonte – che negli anni ‘80 del XV
secolo un altro feneratore ebreo, Abramo de Daniele di Piedimonte, aveva in
Isernia un banco di prestito. Vi è un atto di cessione stipulato, a morte di
Abramo, da un tale Mele di mastro Moyse de Benevento, tutore dei beni e dei
figli del defunto. Il banco – del valore di 800 ducati in pegni, arredi e
denaro – venne ceduto in fitto ad Angelo de Gaudio di Traetto (oggi Minturno).
Il contratto venne stipulato in Napoli, il 15 aprile 1483; Angelo de Gaudio, cognato
del defunto Abramo, affermò che era amministratore del banco dal tempo in cui
viveva il congiunto e la durata del fitto, stabilita in quattro anni a partire
dal 1 marzo 1482, comportava il pagamento annuale di 120 ducati, che egli
avrebbe consegnato alla fine di ogni anno in Napoli al tutore Mele.[14]
Medico giudeo, vestito secondo l'uso costantinopolitano Incisione di Pietro Bertelli tratta da Diversarum nationum habitus., Pavia, apud Alciatum Alcia et Petrum Bertellium, 1594-1596 |
Medicus
Non tutti gli Ebrei isernini erano nella finanza. Nel
1490 un Elia figlio di Manuele de Perusio, di Isernia, sostenne l’esame
di abilitazione alla professione medica dinanzi ai due commissari, fisici
regi, Nardò de Antonio e Rogerio de Adamo.
«Avendo provato che “a teneris annis licteris latinis operam
dederat” e che “scientia
ed arte fisica insudaverat cum continuo studio” ottenne “ex regia begnignitate” e senza che si osservassero le “ordinationes
collegii studii neapolitani”,
il “privilegium doctoratus medicine”. Col diploma egli acquistava il diritto di prendere il titolo di “artium
et medicine doctor”, di portare il
distintivo , di essere aggregato agli altri medici “tamquam sufficiens” e, al pari di questi, godere gli onori, le
dignità, i privilegi , le immunità e le esenzioni accordate dalle leggi, e di
curare e praticare “in scientia et arte medicine et phisice per totum
regnum Sicilie eiusque provincias, civitates, terras, castra, casalis et loca
omnia” in onore e fedeltà del re e per
comodo e utilità dei sudditi»[15]
Per assicurare l’indisturbato esercizio della professione
al nostro Elia, nel titolo rilasciato a firma del sovrano
Ferrante I si prevedeva anche una multa di mille ducati a carico di quanti
avessero osato molestare il neolaureato; seguiva poi una digressione in ordine
al fatto che non apparisse assurdo o illecito farsi curare il corpo da
chi, giudìo, avesse l’anima malata dalla professione di una falsa
fede.
La digressione non deve apparire chiosa superflua della
licenza regia: cento anni dopo, si è di nuovo punto e a capo. Nel 1588 venne
stampato, in Venezia, il volume De Medico Hebreo – Enarratio Apologica,
autore il famoso David de Pomis, con l’intento specifico di togliere di mezzo
radicati pregiudizi e spiegare ai più che, in considerazione delle affinità di
fondo tra ebrei e cristiani nell’esercizio della medicina, nulla impediva che
un medico ebreo potesse curare con successo pazienti gentili. Durante la seconda
metà del XVI secolo, la diffidenza verso i medici ebrei aveva ottenuto avalli
da papi e Inquisizione: Paolo IV aveva vietato ai cattolici di farsi curare
dai giudei; Pio IV introdusse la professione di fede per la laurea in qualsiasi
materia: «non potendo impedire ai cristiani di avvicinare gli ebrei si
cercava di evitare che questi ultimi potessero diventare dottori»[16]
L’arte della lana
Oltre all’arte feneratoria e all’esercizio
della medicina, caratteristica attività degli ebrei era il commercio dei panni,
specie usati (come testimonia l’icastica intitolazione della chiesa napoletana
di San Gennaro Spogliamorti, posta nel quartiere ebraico, e
utilizzata come deposito per i defunti, che qui venivano spogliati dei loro
vestiti, ceduti agli ebrei per rivenderli al mercato).
Se ne parliamo qui è solo per un fumus:
leggiamo da Turco di un ricorso del 1536 elevato alla regia Camera della
Sommaria da tale Gio: Daniele di Isernia, «che aveva mandato a vendere panni
alla fiera di Gaeta»[17]. Daniele è nome che spinge per una connotazione semita
del ricorrente, e Daniele commercia in panni. Ma siamo qui nella piena
suggestione, non nell’indagine storica.
Vico (n. 42) e Porta di Giobe (n. 43) nella mappa di Sabelli, 1867. Il n. 44 è "Piazza Mercato" |
Isernia sì, ma dove?
Gli ebrei costituivano in ogni città una comunità chiusa,
uno dei tanti corpi intermedi nei quali si articolava la società. Come del
resto accadeva anche per altri gruppi nazionali residenti, gli ebrei vivevano
spontaneamente riuniti in una o più strade, secondo le dimensioni della città,
un quartiere spesso definito Giudecca (o nelle varianti Giudea, Giudaica e
simili).
Si abitava nella Giudecca per una
scelta, non un obbligo, come lo sarà poi con l’istituzione dei Ghetti (1516,
per Venezia; 1555 per Roma), quartieri murati, con porte di accesso che venivano
chiuse e presidiate durante la notte.
L’esistenza di una comunità, piccola o grande, si inverava
attraverso la presenza di una sinagoga, della scuola e del campo dei
giudei, il cimitero ebraico, posto fuori dalla città.
Di tutto ciò, Isernia non conserva alcuna traccia: né
memoria oralmente trasmessa, né iscrizione epigrafica, né tracce nella
toponomastica attuale. «Perduti nel tempo | come lacrime
nella pioggia».
Dove cercare la Giudecca nell’impianto
storico della città di Isernia? Contrariamente ad altre realtà vicine – vd. p.
es. il locativo Giudea a Carpinone, che identifica una piazza
e un vicolo davanti l’antica chiesa di San Michele o la Giudecca, intero
quartiere di Civita di Bojano – a Isernia nulla si conserva. Dobbiamo affidarci
a indizi: alle spalle della Cattedrale, c’è un vico Giobbe; e Porta di Giobbe
era chiamata la porta – ora non più esistente – che, alla fine di questo
vicolo, si apriva sulle mura urbiche dando allora verso la campagna (ora, su un
piccolo ambito alle spalle del giardino vescovile). Giobbe è
senz’altro nome che evoca un contesto giudaico. È personaggio biblico che si ricorda per l’eponima capacità di sopportazione, la
“pazienza di Giobbe” (oggi, magari, si direbbe resilienza); il nome stesso,
dall’ebraico ’Iyyōbh, va tradotto come «Colui che
sopporta (l’ingiustizia degli uomini e della sorte)» e gli ebrei
isernini del XV secolo, di pazienza e sopportazione devono averne avuta di
molta.
In realtà, diverse sono le interpretazione date sulla
genesi dell’onomastica storica di vico Giobbe: Franco Valente si riferisce a
Giobbe come derivato dal Giove del tempio latino del III sec. a.C., il cui
ingresso si apriva proprio dove ora insiste il vicolo; Cefalogli, nel suo volume sulla toponomastica cittadina, richiama
invece un cognome familiare, Job (o de Jobb, come dice invece Turco[21]), portato da famiglia lì residente e che, per calco,
ha dato nome al vicolo (così come è successo per tanti altri locativi nel
centro storico: D’Afflitto, Pace, Campagnale, Iannotta, Ricci, Delfini ecc).
Ma sempre Cefalogli, nella stessa pagina, parla
di un autografo ricevuto da Angelo Viti, primo bibliotecario della “Michele Romano”,
nel quale si dice testualmente:
«Il vico Giobbe trae
la sua denominazione non per metonimia da Giove, ma da un ghetto ebraico ivi
esistente al tempo di Ferrante d’Aragona; comunità alla quale, assieme agli
Albanesi introdotti nel regno, aveva concesso larga protezione. […] Isernia
nel secolo XV ospitò non meno di 40 famiglie ebraiche.»[18]
Le due ipotesi onomastiche, sebbene da Cefalogli date
come alternative (cioè: Vico Giobbe dalla famiglia Job vs. Vico Giobbe da
antica Giudecca) convergono verso un’univoca indicazione se si pone mente al
fatto che Job è in ogni caso cognome di chiara derivazione ebraica[19][23]. La famiglia Job, o de Jobb come
vuole Turco, è attestata a Isernia nel XVI secolo. Se aveva le sue case alle
spalle della Cattedrale potrebbe ciò essere interpretato come segno di una
permanenza nei luoghi che qualche anno prima avevano ospitato la Giudecca
isernina. Le cose sopravvivono agli uomini; le stesse case vengono abitate per
generazioni e ben avrebbero potuto i Job, christiani novelli dopo
le espulsioni del 1541, essere rimasti a vivere lì dove qualche decennio prima
si osservava lo Shabbat e si trovavano Mezuzah appese
agli usci.
[1] Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII,
Torino 1915
[2] Francesco Paolo Volpe, Esposizione […] delle vicende degli Ebrei
nel nostro reame, Napoli 1844
[3] Camillo Minieri Riccio, Studi storici
fatti sopra 84 Registri Angioini dell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli
1876, p. 92.
[4] Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII,
Torino 1915, p. 19
[5] Ibidem, p. 54-55
[6] Giovanni Brancaccio, Il Molise medievale e moderno,
Napoli 2005, p. 125. Sopra i mille abitanti c’erano, nell’ordine, Morcone (1615
ab.); Campobasso (1370); Boiano (1350); Sepino (1170); Tufara (1070).
[7] Riccardo Calimani, Storia del Ghetto di Venezia, nuova ed illustrata ediz., Milano
2000, p. 23
[9] ASNA, Esecutoriale Sommaria, reg. I, p. 515.
[10] Angelo Viti, Note di diplomatica ecclesiastica sulla contea di Molise dalle fonti
delle pergamene capitolari di Isernia, Napoli 1972, p. 321.
[11] Pietro Gentile, Il terremoto del 1456 in
alcuni luoghi di Terra di Lavoro, in “Archivio Storico per le Province
Napoletane” 35 (1910), pp. 667-669.
[12] ASNA, Privilegiorum Sommaria, reg. 55, p. 43 e
reg. 26, p. 47
[13] Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII, Torino
1915, p. 134
[15] ASNA, Regia Camera Sommaria, Priv. 19, f. 190.
Il documento è pressoché integralmente riportato da Nicola Ferorelli, Gli Ebrei
nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII, Torino 1915, p. 117
[16] Riccardo Calimani, Storia del Ghetto di Venezia, nuova ed illustrata ediz., Milano
2000, p. 97
[17] Ermanno Turco, Isernia in cinque secoli di storia, Napoli 1948, p. 81
[18] Fernando Cefalogli, Isernia. Strade, vie, vicoli, l'onomastica storica, Isernia 2000,
p. 82
[19] Vd. Samuele Schaerf, I cognomi degli Ebrei d’Italia, Firenze 1925.
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