mercoledì 26 aprile 2017

Ebrei a Isernia


Compendio di storia degli Ebrei nel Meridione
Comunità di ebrei nel Meridione c’erano con Roma imperiale e continuarono a esserci per tutto il Medio Evo. Come scrive Ferorelli[1] per l’area lucana e pugliese – Brin­disi, Venosa, Lavello – si hanno prove epigrafiche della «continuazione non interrotta di colonie ebraiche dall’età im­periale infino al Mille». 
«A’ tempi di Giustiniano, n’esistea gran numero in Na­poli». All’alba del Medio Evo si avevano fiorenti comu­nità in Roma, in Sicilia e Sardegna.   
Sotto i Longobardi (568-774), gli ebrei italiani vissero in pace, il che continuò con i Normanni. Come si trova in un testo politicamente scorretto di metà Ottocento…

«… comunque ostinati nell’ errore di non volere riconoscere in Cristo il Redentore del Genere Umano, e la novella alleanza, nul­ladimeno non in­contrarono presso le varie nazioni quella ostilità che suole dipendere dalla diversità di religione [2]

Il filosemitismo, anzi, caratterizzò il regno dell’illuminato Federico II di Svevia: gli ebrei furono posti sotto la diretta protezione del sovrano e parificati ai gen­tili per quanto riguarda il diritto di difesa e la possibilità di agire in giudizio; fu regolamentata la pratica del prestito di denaro, allora definita tout court usura, fissando per decreto un saggio di interesse non superiore al 10%.
Con gli Angioini il clima iniziò a cambiare. Nel 1288 il Regno di Napoli decretò per la prima volta l’espulsione per gli ebrei. Le conversioni alla vera religione venivano premiate con l’esenzione ad vitam dal pagamento delle tasse (1293). Gli ultimi Angioini mantennero un’ambiguità di fondo, tra necessità di assicurare crediti alla Corona e cristianissimo odio verso i deicidi.
È con la Corona aragonese che gli ebrei del regno go­dettero maggiori privilegi. Con Alfonso I, non a caso de­finito il Magnanimo,  e con suo figlio Ferrante (re Ferdi­nando I) che, per curare gli interessi dell’erario, promise platealmente: «li Giudei serranno sempre defisi».
A partire dal 1442, poi, un considerevole numero di ebrei sefarditi venne a vivere nell’Italia meridionale: agli ebrei antiqui regnicoli si affiancarono, ma in comunità di­stinte, quelli provenienti dalla penisola iberica.
La morte di Ferrante (25 gennaio 1494) e la notizia della prossima discesa di Carlo VIII di Francia nel Mez­zogiorno preannunciarono nuovi giorni tristi: in molti la­sciarono le località minori e si raccolsero nelle città, rite­nute più sicure. A seguito dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna, nel 1492, e quindi dalla Sicilia e dalla Sardegna, molti ebrei si riversarono nel Regno di Napoli; ma anche qui, li colpì un primo provvedimento di espulsione nel 1504. Con l’arrivo a Napoli del viceré don Pedro de To­ledo (1532-1553) si inaugurò una politica di intolleranza che portò ad un nuovo decreto di espulsione nel 1533 e a quello, ultimo e definitivo, del 1541: dopo questa data, la presenza ebraica nel Vicereame si ridusse sensibilmente, fino a sparire; in molti si spostarono nell’Italia centrale e settentrionale; chi rimase, lo fece convertendosi, accet­tando di mimetizzarsi sotto la croce e divenendo un christiano novello.

Monogramma di Ysernia, da un atto notarile del 1221.

Yiddish Ysernia!
Per Ysernia non abbiamo prove dell’esistenza certa di ebrei stabiliti in città anteriormente al 1423. In quell’anno, Giovanna II concesse a Benedetto Angelo di Todi e a Mosè di Abramo dell’Aquila la facoltà di abitare e com­merciare in diverse località dell’area abruzzese e molisana tra cui, espressamente, Isernia[3]. Se tuttavia si considera che in contesti anche prossimi comunità ebraiche sono attestate già in altissimo Medio Evo – vd., p.es., il caso di Venafro, in cui un ebreo è denunciato come ricettatore in una vendita oggetti sacri addirittura nel 591[4] e nel 1294, fruendo del bonus fiscale della Corte angioina, 34 ebrei ac­cettano il battesimo cristiano[5] – è possibile, almeno per via analogica, retrodatarne la presenzaIn ogni caso, se anche dobbiamo limitarci a ritenerla sorta in periodo du­razziano, è certo che l’apogeo della comunità ebraica di Ysernia si ebbe nella successiva età aragonese: durante il regno di Alfonso I, la diffusione degli ebrei nel Meridione ebbe, nel complesso, una forte crescita, anche se la distri­buzione regionale fece registrare notevoli disomogeneità, legate al maggiore dinamismo economico manifestato da alcuni distretti rispetto ad altri. Nell’area regionale abruz­zese e molisana si ebbe un sensibile aumento della pre­senza ebraica: dalle 140 unità censite nel 1170 alle 500 nel 1491; numeri esigui, d’accordo, ma in asse con una realtà, quella molisana, in cui non esistevano grandi nuclei ur­bani: alla metà del XV secolo, Isernia contava circa due­mila abitanti ed era il comune più popoloso dell’intero Contado di Molise.[6]
Per spiegarci il perché di un tale sviluppo dobbiamo richiamare alla mente l’attività economica principalmente svolta dagli ebrei:

«[…] esclusi dalle arti e dai mestieri, dagli uffici pubblici e dalle armi, dalle professioni liberali e dal possesso fondiario, agli ebrei venne lasciata un’unica strada: il commercio del denaro, cioè l’attività bancaria e crediti­zia che nel medioevo veniva chiamata usura. Gli ebrei, desiderati e dete­stati, finirono per insediarsi nelle principali città italiane, ottenendo spesso in occasione della costitu­zione dei banchi, non solo vantaggi finanziari ma anche privilegi di altro tipo[7] 

Alla metà del secolo XV, le comunità centro-appenni­niche vivono un boom economico.  Nel 1447 Alfonso I impose ai pastori abruzzesi e molisani di svernare entro i confini del Regno, nel Tavoliere, dove molti dei terreni coltivati furono trasformati forzatamente in pascoli. Isti­tuì inoltre, con sede prima a Lucera e poi a Foggia, la Do­gana della mena delle pecore in Puglia e (ri)attivò l’im­portantissima rete dei tratturi che dall’Abruzzo conduce­vano alla Capitanata. Si risollevò, così, l’economia delle città interne fra L’Aquila e la Puglia: ne trassero giova­mento le attività artigianali locali, i mercati e i fori boari di Lanciano, Castel di Sangro, Campobasso, Isernia, Boiano, Agnone, Larino.
Non c’è sviluppo che possa prescindere dalla disponi­bilità di capitali. Si impiantarono, così, anche a Ysernia, banchi di prestito – come visto, monopolio degli ebrei – cui seguì la concessione di diritti di cittadinanza e resi­denza in città. Non è un caso, quindi, se in quegli stessi centri che trassero vantaggio dalle illuminate politiche di sviluppo di Alfonso il Magnanimo si ebbe uno sviluppo delle comunità ebraiche:

«I gruppi più consistenti furono attivi nelle principali città (Aquila, Sul­mona, Lanciano, Venafro, Isernia e Campobasso), ma, sotto forma di piccoli nuclei, gli Ebrei furono presenti anche in numerosi centri rurali[8]

Tutti giù per terra
Purtroppo, su una situazione di economia in decollo, s’abbattè la catastrofe. La notte del 5 dicembre 1456 una terribile scossa di terremoto causò distruzioni in un’area eccezionalmente vasta dell’Italia centro-meridionale. «Ser­gna tutta in terra e morte circha persone MCC», scrisse l’ambasciatore a Napoli Francesco Cusano in una rela­zione sul sisma inviata al duca di Milano.
Tra i 1200 morti, ci furono anche ebrei. Lo prova un documento sottoscritto dai due sindaci Giovanni d’Isernia e Jacobo Andrea de Thofanischis[9] a data 8 gen­naio 1457, citato da Turco e, per altri contenuti dello stesso che qui non interessano, da Viti[10]. L’antefatto vuole che, dopo il terremoto, dai paesi limi­trofi – ma non solo: sciacalli si ebbero tra i concittadini e, finanche, tra gli uffi­ciali regi – gente si precipitò a sac­cheggiare le case rovi­nate, asportando da quelle dei giudei anche i molti pegni che vi erano custoditi:

«[…]multi vicini nostri sub colore de aiuto sonno venute et hanno tolta e robbata multa robba et pecunie delle case ruynate et delli morti nostre et hanno portatasi la dicta robba et facta molta preda e rapina.»[11]

Tra le molte richieste al sovrano vi era l’invio in città di un com­missario regio che indagasse su eccidi e spolia­zioni, sup­plica che il re accolse con l’invio del giudice Troyle de Massa

«per far luce sui fatti, per cercare di reperire i “molti pigni che tenenvano con piena potestate” e per procedere contro “li dicti delinquenti, affinché possi ponire, carcerare, tor­mentare et debite castigare et far restituire la dicta robba a chi se appartene.» 

Altre concessioni del re Magnanimo riguardarono l’esenzione fiscale per cinque anni e l’obbligo posto agli abitanti dei centri vicini al cratere di contribuire alla rico­struzione. La città, tuttavia, non si riprese. Neanche il reale dispaccio dell’ 8 gennaio 1463, con cui re Ferdi­nando concesse al mastrogiurato de Ysernia il diritto di «bactere o far bactere certa quantità di quatrini» (il diritto di co­niare moneta), produsse effetti sulla misera economia cittadina.
Fu così che le magistrature cittadine supplicarono il sovrano perché consentisse il ritorno in città di almeno uno dei banchi di prestito esistenti prima del terremoto; ne seguì il privilegio del 1469 con il quale si dava autoriz­zazione ai cittadini di Ysernia di

«reducer et tener in dicta cita per loro comodità  uno judio di nome Guielmo Sacerdote  lo quale habia ad abitare et dimorar in quella sua vita du­rante et contrahere con la dicta Università fino a la Università et homini predicti pia­cerà er parerà».[12]

La licenza sovrana fissava anche il tasso massimo consentito per il prestito: «grana dudece per unza» e garan­tiva l’esclusiva: «et che altro judio expeto esso no possa stare».
Nel documento regio l’autorizzato non è il judìo – apostrofato con lessico più consono a denotare bestia, che si reduce e tene per comodità – ma l’Università (il Co­mune, diremmo oggi); per questo, il privilegio concede il diritto a risiedere in città al solo feneratore ebreo, per la durata della sua sola vita («…habia ad abitare et dimorar in quella sua vita durante»); tale diritto non si estende, tout court, alla famiglia e ai suoi discendenti. La licenza dà prova, tuttavia, del benvolere che la comunità riversa sull’usuraio ebreo: disporre, in città, di un banco di prestito a interessi calmierati è una risorsa.  Qui, come altrove, «gli ebrei […] costituirono un elemento prezioso per moderare le ingorde pretese dei prestatori cristiani»[13].
In ogni caso Gu[gl]ielmo Sacerdote non rimase a lungo in città se è vero – come attingiamo da altra fonte – che negli anni ‘80 del XV secolo un altro feneratore ebreo, Abramo de Daniele di Piedimonte, aveva in Isernia un banco di prestito. Vi è un atto di cessione stipulato, a morte di Abramo, da un tale Mele di mastro Moyse de Benevento, tutore dei beni e dei figli del defunto. Il banco – del valore di 800 ducati in pegni, arredi e denaro – venne ceduto in fitto ad Angelo de Gaudio di Traetto (oggi Minturno). Il contratto venne stipulato in Napoli, il 15 aprile 1483; Angelo de Gaudio, cognato del defunto Abramo, affermò che era amministratore del banco dal tempo in cui viveva il congiunto e la durata del fitto, sta­bilita in quattro anni a partire dal 1 marzo 1482, compor­tava il pagamento annuale di 120 ducati, che egli avrebbe consegnato alla fine di ogni anno in Napoli al tutore Mele.[14]


Medico giudeo, vestito secondo l'uso costantinopolitano
Incisione di Pietro Bertelli tratta da Diversarum nationum habitus., Pavia, 
apud  Alciatum Alcia et Petrum Bertellium, 1594-1596

Medicus
Non tutti gli Ebrei isernini erano nella finanza. Nel 1490 un Elia figlio di  Manuele de Perusio, di Isernia, so­stenne l’esame di abilitazione alla professione medica di­nanzi ai due commissari, fisici regi, Nardò de Antonio e Rogerio de Adamo.

«Avendo provato che “a teneris annis licteris latinis ope­ram dederat” e che “scientia ed arte fisica insudaverat  cum continuo studio” ottenne “ex regia begnignitate” e senza che si osservassero le “ordinationes collegii stu­dii neapolitani”, il “privilegium doctoratus medicine”. Col diploma egli acqui­stava il diritto di prendere il titolo di “artium et medicine doc­tor”, di portare il distintivo , di essere aggregato agli altri medici “tamquam suffi­ciens” e, al pari di questi, godere gli onori, le di­gnità, i privilegi , le immu­nità e le esenzioni accordate dalle leggi, e di curare e praticare “in scientia et arte medicine et phisice per totum regnum Sicilie eiusque provincias, ci­vitates, ter­ras, castra, casalis et loca omnia” in onore e fedeltà del re e per comodo e utilità dei sudditi»[15]

Per assicurare l’indisturbato esercizio della profes­sione al nostro Elia, nel titolo rilasciato a firma del sovrano Ferrante I si prevedeva anche una multa di mille ducati a carico di quanti avessero osato molestare il neolaureato; seguiva poi una digressione in ordine al fatto che non ap­parisse assurdo o illecito farsi curare il corpo da chi, giudìo, avesse l’anima malata dalla professione di una falsa fede.
La digressione non deve apparire chiosa superflua della licenza regia: cento anni dopo, si è di nuovo punto e a capo. Nel 1588 venne stampato, in Venezia, il vo­lume De Medico Hebreo – Enarratio Apologica, autore il fa­moso David de Pomis, con l’intento specifico di togliere di mezzo radicati pregiudizi e spiegare ai più che, in con­siderazione delle affinità di fondo tra ebrei e cristiani nell’esercizio della medicina, nulla impediva che un me­dico ebreo potesse curare con successo pazienti gentili. Durante la seconda metà del XVI secolo, la diffidenza verso i medici ebrei aveva ottenuto avalli da papi e Inqui­sizione: Paolo IV aveva vietato ai cattolici di farsi curare dai giudei; Pio IV introdusse la professione di fede per la laurea in qualsiasi materia: «non potendo impedire ai cristiani di avvicinare gli ebrei si cercava di evitare che questi ultimi potessero diventare dottori»[16]

L’arte della lana
Oltre all’arte feneratoria e all’esercizio della medicina, caratteristica attività degli ebrei era il commercio dei panni, specie usati (come testimonia l’icastica intitolazione della chiesa napoletana di San Gennaro Spogliamorti, posta nel quartiere ebraico, e utilizzata come deposito per i de­funti, che qui venivano spogliati dei loro vestiti, ceduti agli ebrei per rivenderli al mercato). 
Se ne parliamo qui è solo per un fumus: leggiamo da Turco di un ricorso del 1536 elevato alla regia Camera della Sommaria da tale Gio: Daniele di Isernia, «che aveva mandato a vendere panni alla fiera di Gaeta»[17]Daniele è nome che spinge per una connotazione se­mita del ricor­rente, e Daniele commercia in panni. Ma siamo qui nella piena suggestione, non nell’indagine sto­rica.




Vico (n. 42) e Porta di Giobe (n. 43) nella mappa di Sabelli, 1867.
Il n. 44 è "Piazza Mercato"

Isernia sì, ma dove?
Gli ebrei costituivano in ogni città una comunità chiusa, uno dei tanti corpi intermedi nei quali si articolava la società. Come del resto accadeva anche per altri gruppi nazionali residenti, gli ebrei vivevano spontaneamente riuniti in una o più strade, secondo le dimensioni della città, un quartiere spesso definito Giudecca (o nelle va­rianti GiudeaGiudaica e simili).
Si abitava nella Giudecca per una scelta, non un ob­bligo, come lo sarà poi con l’istituzione dei Ghetti (1516, per Venezia; 1555 per Roma), quartieri murati, con porte di accesso che ve­nivano chiuse e presidiate durante la notte. 
L’esistenza di una comunità, piccola o grande, si inve­rava attraverso la presenza di una sinagoga, della scuola e del campo dei giudei, il cimitero ebraico, posto fuori dalla città.
Di tutto ciò, Isernia non conserva alcuna traccia: né memoria oralmente trasmessa, né iscrizione epigrafica, né tracce nella toponomastica attuale. «Perduti nel tempo | come lacrime nella pioggia».
Dove cercare la Giudecca nell’impianto storico della città di Isernia? Contrariamente ad altre realtà vicine – vd. p. es. il locativo Giudea a Carpinone, che identifica una piazza e un vicolo davanti l’antica chiesa di San Michele o la Giudecca, intero quartiere di Civita di Bojano – a Isernia nulla si conserva. Dobbiamo affidarci a indizi: alle spalle della Cattedrale, c’è un vico Giobbe; e Porta di Giobbe era chiamata la porta – ora non più esistente – che, alla fine di questo vicolo, si apriva sulle mura urbiche dando allora verso la campagna (ora, su un piccolo ambito alle spalle del giardino vescovile). Giobbe è senz’altro nome che evoca un contesto giudaico. È personaggio biblico che si ricorda per l’eponima capacità di sopportazione, la “pazienza di Giobbe” (oggi, magari, si direbbe resilienza); il nome stesso, dall’ebraico ’Iyyōbh, va tradotto come «Colui che sopporta (l’ingiustizia degli uomini e della sorte)» e gli ebrei isernini del XV secolo, di pazienza e sopportazione devono averne avuta di molta.
In realtà, diverse sono le interpreta­zione date sulla ge­nesi dell’onomastica storica di vico Giobbe: Franco Va­lente si riferisce a Giobbe come derivato dal Giove del tempio latino del III sec. a.C., il cui ingresso si apriva proprio dove ora insiste il vicolo; Cefalogli, nel suo vo­lume sulla toponomastica cittadina, richiama invece un cognome familiare, Job (o de Jobb, come dice invece Turco[21]), portato da famiglia lì residente e che, per calco, ha dato nome al vicolo (così come è successo per tanti altri loca­tivi nel centro storico: D’Afflitto, Pace, Campagnale, Ian­notta, Ricci, Delfini ecc). Ma sempre Ce­falogli, nella stessa pagina, parla di un autografo ricevuto da Angelo Viti, primo bibliotecario della “Michele Ro­mano”, nel quale si dice testualmente:

«Il vico Giobbe trae la sua denomi­nazione non per metonimia da Giove, ma da un ghetto ebraico ivi esistente al tempo di Ferrante d’Aragona; co­munità alla quale, as­sieme agli Albanesi introdotti nel regno, aveva con­cesso larga prote­zione. […] Isernia nel secolo XV ospitò non meno di 40 famiglie ebraiche[18]

Le due ipotesi onomastiche, sebbene da Cefalogli date come alternative (cioè: Vico Giobbe dalla famiglia Job vs. Vico Giobbe da antica Giudecca) convergono verso un’univoca indicazione se si pone mente al fatto che Job è in ogni caso cognome di chiara derivazione ebraica[19][23]. La famiglia Job, o de Jobb come vuole Turco, è attestata a Isernia nel XVI secolo. Se aveva le sue case alle spalle della Cattedrale potrebbe ciò essere interpretato come se­gno di una permanenza nei luoghi che qualche anno prima avevano ospitato la Giudecca isernina. Le cose so­pravvivono agli uomini; le stesse case vengono abitate per generazioni e ben avrebbero potuto i Job, christiani no­velli dopo le espulsioni del 1541, essere rimasti a vivere lì dove qualche decennio prima si osservava lo Shabbat e si  trovavano Mezuzah appese agli usci.




[1] Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII, Torino 1915
[2] Francesco Paolo Volpe, Esposizione […] delle vicende degli Ebrei nel nostro reame, Napoli 1844
[3] Camillo Minieri Riccio, Studi storici fatti sopra 84  Registri Angioini dell’Archivio di Stato di Napoli, Na­poli 1876, p. 92.
[4] Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII, Torino 1915, p. 19
[5] Ibidem, p. 54-55
[6] Giovanni Brancaccio, Il Molise medievale e mo­derno, Napoli 2005, p. 125. Sopra i mille abitanti c’erano, nell’ordine, Morcone (1615 ab.); Campobasso (1370); Boiano (1350); Sepino (1170); Tufara (1070). 
[7] Riccardo Calimani, Storia del Ghetto di Venezia, nuova ed illustrata ediz., Milano 2000, p. 23
[8] Giovanni Brancaccio, Il Molise medievale e mo­derno, Napoli 2005, p. 123
[9] ASNA, Esecutoriale Sommaria, reg. I, p. 515.
[10] Angelo Viti, Note di diplomatica ecclesiastica sulla contea di Molise dalle fonti delle pergamene capitolari di Isernia, Napoli 1972, p. 321.
[11] Pietro Gentile,  Il terremoto del 1456 in alcuni luoghi di Terra di Lavoro, in “Archivio Storico per le Province Napoletane” 35 (1910), pp. 667-669.
[12] ASNA, Privilegiorum Sommaria, reg. 55, p. 43 e reg. 26, p. 47
[13] Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII, Torino 1915, p. 134
[14] ASNA, Prot. Not. Francesco Pappacoda, a.  1483, cc. 117-118.
[15] ASNA, Regia Camera Sommaria, Priv. 19, f. 190. Il documento è pressoché integralmente riportato da Nicola Ferorelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al Secolo XVIII, Torino 1915, p. 117
[16] Riccardo Calimani, Storia del Ghetto di Venezia, nuova ed illustrata ediz., Milano 2000, p. 97
[17] Ermanno Turco, Isernia in cinque secoli di storia, Napoli 1948, p. 81
[18] Fernando Cefalogli, Isernia. Strade, vie, vicoli, l'onomastica storica, Isernia 2000, p. 82
[19] Vd. Samuele Schaerf, I cognomi degli Ebrei d’Italia, Firenze 1925.