La fabbrica dell’ Auditorium Città di Isernia porta a riprendere storie anche più remote dei centocinquanta anni di Unità che l’opera celebra.
Non tutti sanno che a metà Ottocento, a Isernia, in Palazzo San Francesco, funzionava un teatro da 200 posti: il Teatro comunale. A ricordarcelo è Stefano Jadopi nella sua monografia del 1858: descrivendo la città nelle sue luci e ombre, dice che nell’«antico soppresso Monistero de’ Conventuali» – Palazzo San Francesco, – «si pensò di costruire un teatro, e se ne ottenne l’autorizzazione col Real Decreto del 18 Agosto 1835; ma non si diede principio ai lavori prima del 1839, lavori che rimasero sospesi nel 1845. Fu poscia proseguito nel 1847; e la decorazione si è alla fine portata a termine a spese particolari nell’anno 1855.»
Nell’Archivio storico comunale (b. 122, fasc. 2000) si conservano gli atti che consentono di dare polpa alle brevi note vergate da don Stefano.
Prima del 1835 un teatro comunale a Isernia c’era già, annesso all’ «antica Casa comunale» in Palazzo d’Avalos e funzionante da « epoca bastantemente remota» , come può leggersi nella nota al Sottointendente del distretto di Isernia del 14 agosto 1847. Allorché venne decisa la vendita del Palazzotto ai Laurelli, con delibera del collegio municipale del 3 marzo 1835, l’atto venne recato, via Intendente provinciale, all’approvazione superiore del sovrano, Ferdinando II, che il 18 agosto 1835 – come già sappiamo da Japopi – vi appose, sì, la firma, ma «a condizione che si ergesse altra Casa e più commodo teatro».La nuova sede comunale, e del teatro, fu quindi individuata in Palazzo San Francesco, fabbrica versatile che nel corso della sua storia plurisecolare ha ospitato di tutto: frati, scolaresche, ladri e amministratori (amministratori ladri?). Vengono iniziati i lavori di ristrutturazione dell’immobile – acquisito al patrimonio per effetto delle leggi murattiane – spendendo i 2100 ducati ottenuti dalla vendita del Palazzotto ai Laurelli.
Il teatro viene realizzato nel locale più ampio tra quelli che si affacciano sul chiostro dell’antico convento – per capire: è dove ora sono gli uffici dell’Anagrafe – e si sviluppa, in altezza, fino al tetto (per rimanere legati all’attualità, non c’era, allora, il solaio che fa da cesura tra Anagrafe e Sala consiliare).
Da una nota del 20 settembre 1846, spedita dal Sindaco all’Intendente provinciale, con l’invito a voler concedere la «superiore approvazione all’apertura e attivazione di questo Teatro comunale», si conosce che il teatro aveva, a quella data, «palco scenico completo e platea»; mancava solo un «acconcio ordine di palchi». Eppure, come si legge in altra nota rinvenuta nel fascicolo, «nel disporsi la cessione del locale della Casa comunale e Teatro nel largo Palazzotto al sig. Ippolito Laurelli, si stabilì che rimaneva ai cittadini conservato il diritto di costruire i palchi nel nuovo teatro che andava dal sig. Laurelli a farsi in San Francesco in sostituzione dell’antico, e che la spesa sarebbe stata da realizzarsi fra i cittadini che vi avessero voluto concorrere ».
Ma, ora come allora, la spesa per cultura non è mai una priorità dei governi. Una nota del Sottointendente di Isernia al Sindaco della città, don Stefano Jadopi, del 26 ottobre 1847, rispondendo all’ennesima richiesta della municipalità, riferisce virgolettata una missiva interna dell’Intendente: «Trovandosi costì un teatro, ove vi è costantemente agito da varie comiche compagnie, e dovendo tal locale non altro che abbellirsi (…) io non incontro difficoltà che si dia mano ai lavori di ornamento, non essendo per essi applicabile la Sovrana risoluzione che vieta l’ultimazione dei teatri incominciati e non terminati in fabbriche».
Cosa si intendesse per i lavori di ornamento non è dato saperlo. Quel che è certo è che per i palchi occorre attendere il 1855. Agli atti si conserva un progetto del 1855, a firma di Luigi de Cesare, architetto tuttofare al quale in quegli anni si commissionò quasi tutto – c’era stato il terremoto del 1805 e un’intera città andava ricostruita – dal ponte Santo Spirito, al Cimitero, all’area di nuova espansione di Santa Marie delle Grazie (La Fiera, attuale Parco della Rimembranza).
Il progetto relativo al «confezionamento pei palchi, platea e palcoscenico» reca in calce l’approvazione del sindaco pro tempore, Gaetano Mancini, apposta in data 14 aprile 1855, nonché le firme dei deputati del Decurionato cittadino con delega alle opere pubbliche: Giacinto Santoro, che sarà il primo sindaco dell’Isernia italiana, nel 1861, e Alessandro de Lellis, figlio di don Gennaro e a noi noto per i fatti di reazione del 1860. Uno stato estimativo della spesa, che si rinviene nella medesima cartella, parla di trentadue travi di quercia da infiggersi nel pavimento e usarsi per l’ossatura delle tre file sovrapposte dei palchi; di tavole di pioppo «prive di scheggiatura e bene spianate con pomice» per la costruzione dei prospetti, dei pavimenti e divisori dei ventisei palchi, che andranno ai maggiorenti della città, laddove il palco centrale – a imitazione di quanto avviene al San Carlo per Ferdinando – va destinato al Sottointendente. Tutti i legni vanno finiti ad olio, «con bassi rilievi a stucco nel fondato dell’imbugna de’ parapetti». All’interno dei palchi va invece collocata carta francese. Ai palchi si accede attraverso due scalinate laterali, con ossatura in quercia, ciascuna di ventiquattro gradini. Per quanto riguarda la platea, vanno qui collocate ottanta sedie con seditoia in paglia, spalliera e braccialetti. Totale intero, ducati 725,06.
Non si muove una pialla fino alla successiva delibera del 4 settembre 1855, nella quale il Decurionato - preso atto che la vendita dei palchi tra i maggiorenti della città ha realizzato poco più di 600 ducati (in termini di promessa a pagare), e che la rimanente cifra occorrente sarà raccolta con sottoscrizione volontaria presso chi si accontenta della platea - approva i lavori e manda all’Intendente provinciale per gli ulteriori adempimenti.
L’Intendente, da Campobasso approva a sua volta i disegni di De Cesare, autorizzandone l’esecuzione a gravare «sul fondo delle equivalente offerte volontarie», con si legge in nota del 20 settembre 1855; di tre giorni successiva è la nomina che il Sottointendente fa a Achille Belfiore in qualità di cassiere del fondo che andrà a raccogliersi tra i cittadini (è il caso di ricordare che Achille Belfiore, cinque anni più tardi, sarà nominato economo anche dell’Ospedale militare che i savoiardi apriranno in città dopo la battaglia del Macerone, 20 ottobre 1860).
Vediamo chi sono i sottoscrittori, per 30 ducati ciascuno, destinatari dei realizzandi palchi. Ecco il Gotha cittadino, nomi noti a chi abbia scorto le cronache del 1860 (per economia, omettiamo il Don davanti a tutti i nomi): Alessandro de Lellis; Francesco Cimone; il sindaco Gaetano Mancini; Vincenzo Cimorelli; Giovanni Senerchia; Achille Belfiore; Vincenzo Apollonio; Emiddio Laurelli; Giuseppe Melogli; Antonino de Sanctis; Cosmo de Baggis; Ildefonso Abeille; Francesco Pecori; Raffaele del Vecchio e Raffaele Perna (per quindici ducati ciascuno); Gaetano Jengo; Erennio e Luigi Piccoli; ecc. ecc.
De Lellis e Jengo verranno anche cooptati dal sindaco Mancini in un direttorio che seguirà i lavori. È questo comitato ristretto, nel dicembre 1855, a firmare i contratti con le maestranze: il muratore Gennaro de Matteis, il falegname Giovanni di Pilla e il decoratore Costantino Buccini.
I lavori si concludono a giugno 1856; la spesa lievita a ducati 897,29 (un aumento percentuale tutto sommato accettabile rispetto a certe nostre moderne varianti in corso d’opera). L’ultimo atto del fascicolo è la dichiarazione (1 luglio 1856) di Giovanni di Pilla, maestro d’ascia, al quale viene data la custodia del teatro «fino a tutto l’anno cinquantotto» per il compenso di dieci carlini al mese, utilissima descrizione di quello che era il complesso degli arredi fissi e mobili: «Dichiaro io qui sottoscritto di aver preso in consegna e custodia dal sindaco, D. Gaetano Mancini, il teatro di questo Comune corredato di tre mutazioni di scene, cioè bosco, città e stanza, con due bussole di tela, dieci lumi con tubi pel palcoscenico otto chinchè [uno strano piemontismo preunitario: vale “lampada a petrolio, lucerna a più di un lume”; vd. Vocabolario Piemontese-Italiano, Ponza, Torino 1830] con campane e tubi per l’interno del teatro e otto bracci d’ottone per tre ceri ognuno, otto lumi per le scene senza tubi, sette lumi pei camerini, sei lumi pe’ corridoi; lo scenario è tutto corredato di ciò che bisogna per potere agire: nello ingresso della platea vi è un portiere [illeggibile], le sedie tutte in buono stato, ed il palco ballabile con le corrispondenti filagne per sostenerlo; il machenismo pe’ lumi è anche in istato di agire, e vi sono anche le tende da covrire [illeggibile] la buca del suggeritore nelle feste da ballo, vi esiste anche il cupolino del suggeritore di tela.»
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