lunedì 9 gennaio 2012

«Soldati, briganti, signori e cafoni: i fatti del 1861 in provincia di Isernia» - Isernia, 22 dicembre 2011, Sala gialla del Palazzo della Provincia

[Pubblico il testo dell'intervento tenuto in occasione del convegno «Soldati, briganti, signori e cafoni: i fatti del 1861 in provincia di Isernia». Si dicono, di seguito, cose già dette & scritte; lo pubblico, pertanto, per horror vacui e mero dovere di cronaca e non per apportare novità significative a un tema di cui, credo, nell'anno appena trascorso, abbiamo tutti fatto abuso fino a raggiungere la saturazione.]





«Isernia al cadere de’ Borboni - Fatti di rivoluzione e reazione nell’autunno 1860»
Gabriele Venditti - Isernia, 22 dicembre 2011

Piuttosto che narrare i fatti per come si svolsero in quei giorni di autunno di centocinquantuno anni fa, preferisco, questa sera, polarizzare il mio intervento intorno a tre domande (alle quali spero di dare compiuta risposta):
1) Davvero la Reazione fu fatto di pochi retrivi? 2) Davvero fu fatto spontaneo, occasionale, non preordinato? 3) Tutto vero quello che è stato detto, raccontato?

Davvero la Reazione fu fatto di pochi retrivi?
La risposta è negativa. È un vizio della storiografia risorgimentale presentare come maggioritaria tra le popolazioni meridionali la scelta di campo per «Italia e Vittorio Emanuele». Soprattutto negli strati più bassi, era indiscussa la fedeltà ai Borbone. Dobbiamo qui fare riferimento ad almeno tre episodi in cui si dimostra la piena fedeltà a Francesco II: la Rivolta del vino, del 26 luglio 1857; i tumulti spontanei contro la «Costituzione» e la Guardia nazionale, dell’estate del 1860, anticipatrici della più feroce Reazione, per finire poi a parlare di un episodio dell’aprile 1861, che testimonia di come il popolo di Isernia, oramai città del Regno di Italia, non credesse al tramonto dei Borbone. Ma andiamo con ordine.
A Isernia, nel giorno di Sant’Anna del 1857, allorché venne introdotto il dazio comunale sul vino – particolarmente odioso perché imposto sul consumo, come testatico gravante finanche sui dodicenni – due o trecento contadini, al grido di “Viva il Re! Non vogliamo il dazio sul vino” marciarono lungo la Piazza – così per secoli è stato definito l’attuale Corso Marcelli – fino al palazzo comunale, per farsi consegnare i ruoli dell’imposta, da distruggere pubblicamente. Non si verificò alcuno spargimento di sangue – si ebbe qualche schiaffo dato a riottosi impiegati comunali – e il tutto finì col ruolo fatto a brani e fumato nelle pipe dei rivoltosi (ai quali, tuttavia, i tribunali di Fernando II comminarono diversi anni di carcere duro). A chi si occupi della Reazione, i fatti del 26 luglio 1857 testimoniano due cose: che la condizione di miseria delle plebi isernine ne comprimeva l’acredine per il nemico di classe a livelli tali da poter esplodere con forza devastatrice per un qualsiasi pretesto; che malgrado tutto, il rancore era canalizzato verso i galantuomini e non anche verso la Corona: accanto a chi gridava “I galantuomini ne vogliono troppo, ci scorticano, ci sacrificano in ogni maniera”, c’era infatti chi diceva “Se fosse volontà del Re che si pagasse il dazio, ci venderemmo il letto!”.
L’altro episodio che va citato è quello dei tumulti accesi – a Venafro così come a Carpinone e un po’ dovunque nel distretto – in occasione dell’introduzione della Guardia nazionale e della “Costituzione”: la Carta ottriata da Ferdinando II nel 1848 e ripresa per l’occasione da un Francesco II disperatamente in cerca di soluzioni per la conservazione del trono. Cosa successe in estate? Come relaziona il giudice mandamentale Giuseppe Di Giuseppe sui fatti di Carpinone dell’estate 1860 alla Sezione di accusa presso la Corte di Appello di Napoli, «appena pubblicato da Francesco II di Borbone l’atto sovrano, 25 giugno 1860, col quale chiamava in vigore lo Statuto di Re Ferdinando II del 1848, in Carpinone la voce che quello avrebbe avuto poca durata perché era stato consigliato, non da generosità di principe, ma da paura, trovò disposizioni favorevoli a perversi intendimenti dei Sanfedisti. Imperocché nel seguente luglio dello stesso anno 1860 pubblicamente si vociferava che quello Statuto, ripristinato per violenza, sarebbe stato abolito, né mancava chi pubblicamente andava insinuando doversi sopprimere la Guardia Nazionale ed il novello Corpo municipale, doversi restaurare l’assolutismo, con voci e insinuazioni che nel corso di quel mese produssero popolari tumulti, i quali andarono ogni dì più che l’altro, crescendo di intensità.» Appare evidente come, più realisti del re, i contadini molisani volessero preservare l’assolutismo reagendo alle sue minime aperture in senso liberale.
L’ultimo episodio che richiamo testimonia emblematicamente la fedeltà al Borbone. È un fatto specifico, relativo all’aprile 1861. Le province napoletane, transitate di colpo nel nuovo Regno, risultano ancora divise tra chi, per idea o profitto, ha spinto per l'annessione e chi – la gran parte – fa fatica a realizzare che un regno secolare si sia potuto sciogliere come la neve a marzo. Cito un passo di Carlo Corsi, relativo al passaggio delle truppe piemontesi in Isernia. Corsi, di nobile famiglia fiorentina, è militare di carriera: nel 1860, quando scende da capitano di cavalleria con l'Armata d'occupazione delle Marche e dell'Umbria ha già sedici anni di gavetta alle spalle. Combatte al Macerone, prosegue per Gaeta, che assedia con Cialdini. Caduta la cittadella il 14 di febbraio, l'Armata piemontese progressivamente smobilita e ritorna verso nord. Nel passaggio, a ritroso, lungo la Via degli Abruzzi, transitando per Isernia, Corsi annota di un paese ancora incredulo, che non ha ancora pienamente compreso quanto accaduto. «Frattanto, come se non bastasse quel primo aiuto dato da noi medesimi ai nostri nemici, venne da Torino, sul fine del marzo, l'ordine che il 4° Corpo e quasi tutta la cavalleria tornassero verso il Po. E infatti ai primi d'aprile quelle truppe mossero per la strada degli Abruzzi fino a Popoli, donde il 4° Corpo e il reggimento Lanceri di Novara proseguirono pel littorale adriatico verso Ancona e Bologna, e la brigata della cavalleria di linea con alcune batterie per la strada interna di Aquila, Rieti, Terni, ecc., verso Perugia e Firenze. Ciò produsse pessimo effetto nelle province napoletane. Fu fatta correr la voce che eravamo costretti a ritirarci perchè così voleva l'imperatore dei francesi, il quale avea deliberato di riporre il re Francesco sul trono di Napoli e restituire al Papa le province da noi toltegli. I paesi che attraversammo aveano aspetto strano e sinistro. I nostri partigiani scoraggiti, li avversi giubilanti, l'aria piena di'minacce. Nello appressarci ad Isernia il 10 aprile vedemmo gruppi di cafoni venirci incontro, fermarsi a guardarci con avida curiosità, colle labbra aperte come per gridar «Viva 'o re!» invece, riconosciuti li elmi e li azzurri pennoncelli dei nostri cavalieri, guardarci tra loro e restar muti e scuri. Aspettavano i francesi che seguivano i piemontesi per cacciarli fuori del regno. Ed avendo già veduto sfilare le truppe del general Cialdini, avean creduto finito con le ultime di quelle il passaggio dei piemontesi, ed erano accorsi a salutare i loro liberatori; così chè poco mancò ci accogliessero colle grida “Viva i francesi! Viva Francesco II!” Restammo stupiti allo udire come in quei paesi non si credesse ancora alla caduta di Gaeta e al nostro ingresso in Napoli, ma, all'opposto, che fossimo stati battuti, dai francesi o da altri, e sforzati ad andarcene come vinti.» (C. Corsi, 1844-1869 - Venticinque anni in Italia, Firenze, Tipografia P. Faverio, 1870, p. 532). Lo stupore dei cafoni, pur se già sudditi del Regno d’Italia, è confermato da Berlingieri: «(…) Nella cervice incallita di questi bifolchi era fissa l’idea che il Governo borbonico fosse tuttavia saldo come masso di granito, che un trono secolare non sarebbe stato rovesciato in pochi mesi dall’onda rivoluzionaria» (V. Berlingieri, Il Brigantaggio in Roccamandolfi, Isernia, De Matteis, 1891, p. 14)

Davvero fu fatto spontaneo, occasionale, non preordinato?
Anche qui, una risposta negativa. Occorre inquadrare i fatti di reazione nella cornice delle operazioni militari duosiciliane in atto tra settembre e ottobre 1860. Non è un caso che la Reazione esploda violenta a Isernia la notte che precede la Battaglia del Volturno (1 ottobre), primo fatto di armi dallo sbarco a Marsala che vede i Regi in posizione offensiva contro le Giubbe Rosse. Come nota opportunamente Franco Molfese, nel settembre del 1860 si verificano fatti nuovi: Garibaldi, raggiunta Napoli, ha perso di slancio; il suo Esercito meridionale rimane impantanato sulla linea del Volturno, avvertendo per la prima volta il peso di una campagna che si trascina da un semestre. Questa stasi viene impegnata dal Borbone per apprestare e tradurre in atto un articolato piano politico-militare mirante a riorganizzare l’Esercito duosiciliano, recuperando in nuove formazioni gli sbandati delle disciolte divisioni calabresi e lucane; preparare i piani di attacco per affrontare frontalmente i garibaldini e riconquistare Napoli e – ed è questa la parte che ci interessa – rispondere alle sollevazioni liberali in Terra di Lavoro, nel Sannio, nel Molise, negli Abruzzi giocando la carta dell’insorgenza popolare. La Reazione viene, dunque, sollecitate da Gaeta per distrarre a Garibaldi uomini e mezzi, appiccando ovunque fuochi alle spalle dei garibaldini. Che la Reazione, a Isernia e nell’isernino, risponda ad una regìa preordinata è dimostrato da più fonti e documenti. Diamo di seguito la trascrizione integrale di una corrispondenza appartenente all’Archivio privato della Famiglia d’Alessandro (recentemente pubblicato da Edilio Petrocelli), non autografata, ma riferibile al duca di Pescolanciano (sua è, infatti, la carta intestata), attivissimo nell’organizzazione dell’insorgenza nel proprio feudo. Il destinatario della nota è probabilmente Gennaro De Lellis, capo del partito borbonico a Isernia. «Eccellenza,la mia persona di servizio, Ceca, affida a Lei il piano di domani ad Isernia per avviare il suo messo a Gaeta. Il Palazzo del Governo verrà attaccato dal gruppo del Belfiore, bene armato a far ripiegare gli armati del Ghirelli.
Si teme l'inutile linciaggio dei liberali traditori per mano del fedele popolo che difende la Croce e il legittimo Re. Serve l'intervento dei Reali, quali il Corpo di Gendarmeria, per controllare la guerriglia o altra Compagnia; manderemo il Salzillo di Pozzilli a Gaeta per le messaggerie.
Il maggiore De Liguoro è comunque in marcia verso la città e la sua colonna è forte. A Venafro i suoi quattrocento soldati hanno riportato l'ordine, cacciato i rivoltosi di Garibaldi e riposto lo stemma del Re. È servito porre la marziale legge contro la malsana Guardia Nazionale venafriana che già a luglio intervenne per soffocare nel sangue spietato i nostri contadini contrari agli occupanti.
Un rigoroso intervento dei Reali potrebbe riportare il controllo in Isernia, evitando ulteriore spargimento di sangue. Cosa fare nei paesi limitrofi, Sessano, Chiauci, Civitanova, [Pesche], Pietrabbondante?»


Tutto vero quello che è stato detto, raccontato?
Il racconto della Reazione di Isernia nasce da subito epurato, manipolato, tirato da una parte o dall’altra attraverso esagerazioni o omissioni: sono gli stessi contemporanei, siano essi cronisti organici al nuovo corso italiano ovvero memorialisti di parte borbonica, a commettere errori anche marchiani nel resoconto degli eventi e introdurvi infedeltà più o meno strumentali a sostenere questo o quel partito. Per i primi – i cronisti filopiemontesi, anche nostrani – il cafone di Isernia rappresenta l’abominio, e va trattato, anche narrativamente, senza nessuna attenuante. Tanto l’isernino Jadopi, quanto il lombardo Arrighi, non risparmiano aggettivazioni per qualificare la città. Così, per esempio, si esprime, il giornalista milanese: «(…) Nel 1860 Isernia ebbe a palesare tali abominevoli vergogne, che tutte quante le sue passate glorie ne rimasero spente
Il problema dell'onestà intellettuale e dell'equidistanza mostrata dagli storici riguarda, più in generale, l'intero racconto del Risorgimento, narratoci come epopea non aggredibile da critiche o anche soltanto precisazioni e distinguo. La Religione della Patria (ne parla il laico Francesco Crispi) ha il suo dogma di immacolata concezione: tutto, della vicenda risorgimentale, è circonfuso di luce mistica. Vengono bandite le ombre: non c’è campo per nefandezze e umane miserie. Fa niente se pure il garibaldino ha rubato; il bersagliere ha gratuitamente ucciso o stuprato. Di fronte all’evidenza, la soluzione del cronista è, colpevolmento o dolosamente, omissiva: se, qua o là, i fatti velano la gloria del Risorgimento, semplicemente, non vanno riportati; se troppo grandi per l’omissione, vanno edulcorati. Si assiste, così, a narrazioni imperfette: cronisti contemporanei ai fatti, al limite anche testimoni oculari degli eventi, ricostruiscono ad usum delphini, purgano, elidono, ingigantiscono o riducono secondo le occasioni. Nel loro massimalismo padano, misconoscendo la geografia delle terre di nuova conquista, i cronisti al seguito delle truppe e nei loro tomi di memorie si sbagliano, approssimano, riferendo come svolti a Isernia fatti effettivamente accaduti, ma altrove. Il luogotenente Luigi Carlo Farini, nel suo resoconto a Cavour, aumenta l’onta associata alla città collocando qui efferatezze irpine. A Isernia, invece, nessuno ha ucciso Carmina di Gneo che gridava dal balcone contro le giubbe rosse di Nicola de Luca.
È invece maturo il tempo per inquadrare criticamente il processo di unificazione nazionale attribuendogli connotati di guerra di conquista e, tragicamente, di guerra civile. L’appuntamento giubilare del 150° dall’Unità di Italia, col suo rifiorire di incontri e dibattiti, può servire allo scopo. Occorre portare luce sui lati oscuri del Risorgimento, senza per questo rimettere in discussione l’Unità: perché una storia sia davvero condivisa, deve essere conosciuta nella sua integrità, senza rimozioni o edulcorazioni, senza continuare col mito fondativo degli eroi puri e belli tutti da una parte e i cafoni abbrutiti e sanguinari confinati nell’altro campo; e ciò anche in considerazione del fatto che, invece, mistificazioni e errori, più o meno in buona fede, si commettono ancora. Riporto, in chiusura di intervento, un caso specifico, particolarmente significativo: quello delle così dette «teste tagliate di Isernia».
Fino a poco tempo fa, su Wikimedia Commons – l’archivio digitale di immagini, suoni e altri contenuti multimediali disponibili con licenza di libero uso all’indirizzo
http://commons.wikimedia.org/wiki/Main_Page – era ospitato un file dal titolo «teste isernia.jpg»: una fotografia sgranata, in bianco e nero, ritraente tre gabbie contenenti altrettante teste tagliate, lì apoditticamente riferite a briganti esposti ad exemplum fuori dalle mura della città di Isernia. La descrizione che accompagnava l’immagine digitale, infatti, testualmente recitava: «Teste mozzate di contadini esposte come monito dall'esercito savoiardo nei pressi di Isernia durante la campagna militare condotta per contrastare il brigantaggio nell'ex-Regno delle Due Sicilie». Non vi era alcuna indicazione autoriale, né riferimenti certi di date: soltanto il nickname dell’internauta che aveva caricato il file e reso fruibile ai tanti siti e weblog che ne hanno amplificato la diffusione. Procedendo a ritroso, inseguendo i rimandi contenuti in pagine personali, forum e blog, ho ricostruito che la primigenia attribuzione di queste teste tagliate ai briganti di Isernia si deve, con qualche probabilità, al catalogo della mostra iconografica “Briganti & partigiani”, edito da Campania Bella, Napoli, nel 1997: qui, infatti, compare con data certa l’associazione tra le tre teste dei meschini decapitati e la città pentra che tanto drammatici avvenimenti vide consumarsi nell’autunno del 1860.
La foto, inutile dirlo, è falsamente attribuita a briganti isernini. Già l’accennata povertà di dati circa il chi, e il quando, doveva spingere per una più attenta valutazione del documento fotografico; e ad essere un minimo critici, improbabile doveva essere la presenza di camera e treppiede nelle campagne isernine in età di dagherrotipi. Così, autorevolmente, lo storico Lucio Villari aveva dichiarato certamente falsa l’immagine delle tre teste in gabbia nella sua attribuzione al contesto italiano e risorgimentale (nell’opera Il Risorgimento. Storia, documenti, testimonianze, Roma 2007). E infatti, seppure con un ritardo di almeno due anni dalla pubblicazione, l’immagine delle teste tagliate, nel suo riferirsi a Isernia, ha avuto plateale smentita anche nel contesto Wiki, allorché si è riconosciuto in essa piuttosto un ingrandimento di una foto relativa a decapitazioni di Boxer nella Cina del 1900. Dal 5 agosto 2010, infatti, il nuovo titolo identificativo dell’immagine digitale in Wikimedia Commons è «boxer_heads_china.jpg» e la didascalia vede la riformulazione «Teste mozzate di contadini esposte come monito durante la rivolta dei Boxer in Cina. Dettaglio.» Sempre contadini, dunque; sempre decapitati e esposti come monito, ma nelle campagne cinesi del 1900 e non in quelle molisane del 1860. Determinanti, per la nuova, esatta localizzazione dei decapitati, sono stati gli scatti di un militare italiano che partecipò alla missione italiana in Cina: Giuseppe Messerotti Benvenuti.
La storia è particolarmente affascinante (almeno per me) e merita una deviazione. Benvenuti, classe 1870, tenente di sanità con l’hobby della fotografia, faceva parte del Corpo di spedizione italiano inviato in Oriente nell’agosto del 1900 per sedare la rivolta nazionalista dei Boxer – oggi si parlerebbe, con ipocrisia, di operazione di peace keeping. La missione italiana restò in Cina a lungo e l’impegno internazionale venne retribuito dal Celeste Impero con la Concessione commerciale di Tientsin, conservata dall’Italia fino alla II Guerra Mondiale. Per vincere la monotonia del suo ospedaletto da campo a cinque letti, il giovane tenente scriveva lunghe lettere a casa, accompagnate da foto fatte in libera uscita. Grazie agli scatti della sua Kodak, Messerotti Benvenuti portava all’Italia umbertina immagini di un continente lontano, immerso ancora in brume medioevali e percepito come quintessenza dell’esotismo come fosse davvero abitato da sciapodi o retto dal Prete Gianni. Tutt’altro che vicina, la Cina. Per capire l’approssimazione dei comandi militari, basti pensare che quando si dovette pensare all’equipaggiamento delle truppe italiane in partenza, le si vestì con zuccotti e sahariane, misconoscendo che nei luoghi di destinazione la temperatura poteva arrivare anche ai 20° sottozero (su queste vicende, si può leggere l’articolo di G. Fattori, La guerra dei boxers, in «Storia illustrata», n. 154, settembre 1970).
Lettere e fotografie di Messerotti Benvenuti sono pubblicate nel volume “Giuseppe Messerotti Benvenuti: un italiano nella Cina dei Boxer”, catalogo della mostra organizzata a Modena dalla Fondazione Panini nel 2000. Tra di esse, compare una serie di scatti che ritraggono la cruenta decapitazione di boxer, fotoraccontata nell’aprile del 1901. Tra di esse, una in particolare ricorda fin troppo la famosa immagine comparsa su Wikipedia. Messe di fianco, le due fotografie appaiono essere l’una l’ingrandimento dell’altra. Residuano minime differenze di grana e colore. Amplificando queste, qualcuno ha provato ancora, caparbiamente, a smentire l’attribuzione della foto al contesto cinese, riportandola alle campagne isernine. Ma anche per questa circostanza c’è una migliore spiegazione: come ha opportunamente fatto rilevare Marzio Govoni, proprietario dell'archivio fotografico Messerotti Benvenuti, in un messaggio rivoltomi sul blog della biblioteca, furono diversi i militari che in quel giorno di gita fuoriporta fotografarono l’esecuzione dei boxer. Uno in particolare, Rodolfo Borghese, scattò una foto assai simile a quella di Messerotti Benvenuti. È questa quella delle «teste tagliate di Isernia»: quasi un secolo dopo, qualcuno – revanscismo neoborbonico? – ha utilizzato il particolare di una delle illustrazioni del libro di memorie di Borghese («In Cina contro i boxers», Ardita 1937, pag. 144) spacciandola per una testimonianza delle esecuzioni di briganti compiute a Isernia.
Ma pure se appare ormai assodato che la foto incriminata nulla a che fare con i cafoni di Isernia, il danno è fatto: per la sua forza espressiva l’immagine è stata utilizzata in molti siti internet, come pure in qualche opera a stampa, e posta accanto a quelle – forse addirittura più efferate – in cui briganti, celebri e meno celebri, posano afflosciati, tumefatti, scomposti, come macabri trofei di caccia del neonato Regio esercito, rimpallando a ogni uso l’idea che a Isernia, all’indomani dell’arrivo dei Piemontesi in città (23 ottobre 1860) o, forse, nei primi anni del Regno d’Italia e delle drammatiche campagne militari contro il brigantaggio, si sia fatto macabro scempio delle teste dei fucilati. Sia chiaro: nel 1860, i Piemontesi, a Isernia come altrove, si sono comportati coi mezzi spicci di un esercito di conquista e esecuzioni sommarie, stupri e vittime collaterali del conflitto, sono state all’ordine del giorno. Il museo degli orrori dello pseudoscienziato Cesare Lombroso richiedeva teste di briganti da analizzare fisiognomicamente e c’è in rete la raccapricciante corrispondenza tra ufficiali italiani – siamo ormai nel 1869 – circa la testa imbalsamata del brigante Palma fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito. La scoperta di un falso non elide le responsabilità accertate di Cialdini e soci; e invece, in quei forum in rete in cui si scontrano ancora (centocinquanta anni dopo Teano e Gaeta) neoborbonici e veterosavoiardi, il falso delle teste tagliate di Isernia viene utilizzato, estensivamente, da questi ultimi per tacciare di calunnia tutti quegli episodi di barbarie agita da italiani su italiani, bersaglieri contro donne e bambini, come se boxer fossero anche gli 8968 fucilati dei primi mesi di guerra al brigantaggio, o che ribelli cinesi abitassero gli interi paesi di Pontelandolfo e Casalduni, oggetto di una decimazione recata con metodo scientifico, ottanta anni prima di Marzabotto.
Riportando il discorso su Isernia, ci si può piuttosto interrogare su come – in origine – una foto di teste tagliate abbia determinato la macabra associazione con la città del 1860. Notizie certe di teste spiccate, infisse su pali, poste alle finestre come zucche ad Halloween, per Isernia ce ne sono tante ma tutte riportano all’efferatezze dei contadini verso i garibaldini, mai au contraire. Sul punto, le carte processuali sono quanto mai precise ed elencano una serie di episodi. La vulgata, del resto, parla di un premio in moneta per ogni testa di garibaldino spedita a Gaeta col suo berrettuccio rosso. Il 5 ottobre 1860, al Mercatello, Zaccaria Corrado infierisce sul cadavere di un garibaldino, tagliandogli la testa; a lui i verbali ascrivono un totale di sette decapitazioni di cadaveri, consumate insieme con tale Giuseppe Laliccia. Sempre il 5 ottobre, davanti a Palazzo Jadopi, il volontario campobassano Errico Filipponi, non ancora diciassettenne, viene colpito alle spalle con un colpo d’ascia; gli viene poi, more solito, tagliata la testa. L’anonimo estensore del memoriale noto come La Colonna De Luca ricorda «tredici teste di volontarii uccisi (…) menate in trionfo per Isernia» e poi «risposte sotto gli archi del cortile del Monistero dei Monaci Osservanti: e la mattina situate al largo della Fiera», mentre Jadopi descrivendo da contumace l’assalto della plebaglia al suo palazzo parlava di «teschi umani recisi che erano rotolati per la strada dai carpinonensi Antonio Fabrizio, Michele Martella La Vacca, e molti di Pesche». Facile, quindi, pensare che l’immagine di teste in gabbie più o meno consapevolmente abbia portato a generare la falsa attribuzione di cui abbiamo parlato.

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