lunedì 31 maggio 2010

Antologia della Reazione, parte III. Pettorano, Ponte delle Ferraine, 17 ottobre 1860

Jadopi, da Napoli, tiene alta l’attenzione su Isernia. Non è comunque il suo intervento ad essere determinante: anche senza il suo interessamento, i giochi sono fatti, e decisi altrove. La città, in mano ai Regi, è d’inciampo alla discesa dell’esercito sabaudo di Cialdini (e Vittorio Emanuele, of course) verso Teano e Capua. Il Governo dittatoriale si muove e invia le Camicie rosse di. Francesco Nullo, bergamasco, con Garibaldi dai tempi dei Cacciatori delle Alpi.

«Il maggiore della Guardia Nazionale di Boiano Girolamo Pallotta si presentava al quartiere generale di Garibaldi in Caserta e assicurava che a Boiano erano pronti ben 3000 volontarii, che occorreva la presenza e il comando di ufficiali garibaldini, che urgeva soffocare subito la reazione per non perdere il Molise, e forse anche gli Abbruzzi; e insistette tanto da far decidere Garibaldi a mandare due battaglioni comandati da suoi ufficiali. Costoro cui fu dato l’incarico furono il col. Francesco Nullo, il magg. Vincenzo Caldesi, il cap. Emilio Zasio, il luogotenente Alberto Mario e dodici guide a cavallo comandate dal tenente Candiani. (...) Gli ufficiali e le guide di Garibaldi partirono da Caserta il 13; il 14 giunsero a Maddaloni, dove risiedevano i due battaglioni del Matese e di Sicilia a cui fu dato l’ordine di marciare alla volta di Boiano con le guide. Gli ufficiali giunsero a Campobasso il 15 ottobre e vi pernottarono.»
Pietro Valente, Il 1860 a Isernia, Pettoranello e Carpinone - Notizie storiche, inedito. Copia manoscritta da Erminia Testa nel 1932 (Archivio Venditti).

Il 16 ottobre, Nullo

«Uscì da Campobasso con tre battaglioni detti dell'Etna, della Maiella, e del Gran Sasso, un migliaio di vagabondi d'ogni paese; e s'afforzò con una radunata di camorristi d'un Girolamo Pallotta da Boiano; gli uni e gli altri buoni a rapinare»
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 285

I camorristi sono i volontari molisani e matesini (pochi, per la verità) mobilitati da Girolamo Pallotta, pro-dittatore di Bojano e la Compagnia beneventana di De Marco. Nullo conosce il numero dei Regi presenti ad Isernia; sottostima, forse, la forza dei cafoni che s’accompagna all’esercito regolare duosiciliano. Prudenza imporrebbe di attendere Cialdini, per entrare insieme in Isernia. Malgrado gli ordini formulati direttamente da Garibaldi, Nullo ha fretta.

Eppure, nella Colonna Nullo si conosceva di che pasta fosse il nemico che si andava a fronteggiare:

«…qualcuno aveva messo in giro una voce perlomeno buffa: che qualche giorno prima, a Isernia più di mille garibaldini ci avevano rimesso la pelle, e ora le loro teste mozzate, col berrettuccio rosso, servivano d’ornamento alle antiche mura della città. »
Carlo Alianello, La conquista del Sud, Milano 1972, p. 183.

Così Domizio Tagliaferri, bojanese, camicia rossa, intruppato nella Colonna parla dei fatti del 17 ottobre:

«A Boiano la nostra colonna era costituita da circa seicento uomini, con una fanfara di trentadue persone di Apice, e di altri vicini paesi. Poi fu rinforzata da circa quattrocento altri del Battaglione Campagnano, di dugento di Bentivenga, oltre un forte numero di Campobassani e provinciali. Garibaldi, tra le altre istruzioni fornite al colonnello Nullo, aveva data quella di far sosta a Boiano, e di non muovere verso Isernia, prima del 20 ottobre, affinchè il nemico si fosse trovato bloccato fra noi ed il corpo d'esercito del Generale Cialdini, marciando per la strada del Macerone. Se nonchè Nullo, improvvisamente, verso le 10 antimeridiane ci comandò di avvicinarci ad Isernia, in fretta, senza che avessimo avuto l'agio di rifocillare lo stomaco, digiuno dal giorno precedente.
Nullo derogò agli ordini ricevuti, e ci espose a quella tremenda carneficina, che la storia stìgmatizza con parole di fuoco, e da cui pochi soltanto, ed a mala pena, scampammo.
Dopo tre ore, di penoso cammino, giungemmo presso Pettoranello di Molise sulla via, che congiunge questo paesuccio alla strada nazionale dei Pentri. Quivi stanchi ci sdraiammo per terra. Alberto Mario proseguì verso Isernia. Nullo e il suo Stato maggiore penetrarono a Pettoranello. »
Domizio Tagliaferri, La spedizione di Isernia, articolo pubblicato su “La Lega del Bene”, n. 28, del giugno 1890 (Copia fotostatica del manoscritto è presso l’Archivio della Biblioteca Michele Romano).

Tra gli ufficiali garibaldini c'è Alberto Mario,l’autore de “La Camicia Rossa” (caposaldo della memorialistica garibaldina, accanto agli scritti di Cecchi e Abba).

«A Pettorano apresi, solcata dalla consolare, una gola ripidissima e alpestre di ben tredici miglia, convergente sino a Castelpetroso e quasi parallela sino a Pettorano. Poi essa spandesi in dolce vallata ove giace Isernia che si vede e si domina da Pettorano. Nullo affidò un mezzo battaglione al capitano Zasio, incaricandolo di piantarsi su Carpinone, arduo monte di prospetto a Pettorano. Collocò il maggiore all'osteria con sessanta uomini di riserva; e a me ordinò di munire coi seicento rimanenti il colle di Pettorano che protende una delle sue pendici a guisa di cuneo orrizontale verso Isernia. Ciò fatto, spiegai in catena una mezza compagnia a traverso la gola per mantenere le comunicazioni fra le due schiere.»
Alberto Mario, La Camicia Rossa, edizione digitale, p. 79.

«Così A. Mario nella “Camicia Rossa”. Però Mario ignorava che Carpinone trovasi un bel po’ distante da Pettoranello e che i colli su cui si schierò Zasio non sono affatto di confine tra i territori dei due comuni, che nel punto più breve tra loro trovasi a circa un chilometro distante in linea retta. Il cap. Zasio schierò i suoi sui colli Montano, Cacchito, Cesafatica, e forse anche ne mandò su Sierra d’Ambla che ergesi più su della Taverna, nella quale fu lasciato Caldesi, con 60 uomini di riserva. Mario fece inoltre occupare le pendici del colle ove è situato Pettoranello, pendici che digradano verso il piano, e spiegò mezza compagnia alla base del comune, di fronte alle posizioni occupate da Zasio. Le truppe furono affidate agli ufficiali dei battaglioni, e gli ufficiali di Garibaldi entrarono in Pettoranello, ove furono ospitati dalla famiglia Santoro che li rifocillò.»
Pietro Valente, Il 1860 a Isernia, Pettoranello e Carpinone - Notizie storiche, inedito. Copia manoscritta da Erminia Testa nel 1932 (Archivio Venditti).

Nullo lascia quindi le linee e ripiega su Pettoranello, all'assalto del tavolo da pranzo, in casa dei Santoro. La truppa attende sotto il sole, non senza rilevare l'assenza del colonnello e del suo Stato Maggiore. Tagliaferri appare quantomai critico sulla conduzione di Nullo:

«Verso le 2 pomeridiane, mentre ognuno si cullava in un sospirato riposo, gran numero di gente bene armata si mostrò sulle vicine alture di Castelpetroso, e fra le rocce di Pettorano.
Datosi l'allarme, io e il capitano Pietro Rampone con qualche altro corremmo al paese per avvertire il colonnello Nullo. Lo trovammo seduto al pianoforte suonando, e dopo avere ascoltato da noi, che il nemico ci era sulle spalle, rispose, in tuono burbanzoso - Sono io, che comando. Tornate ai vostri posti -. Ci guardammo stupefatti, e tornammo donde eravamo partiti, annunziando la risposta di Nullo.»
Domizio Tagliaferri, La spedizione di Isernia, giugno 1890.

I Regi avanzano lungo la Consolare. Una forza composita, di circa tremila uomini, costituita da un battaglione di fanteria, gendarmi, un mezzo squadrone di cavalleria e, disposti a ferro di cavallo, i cafoni in numero imprecisato.
Mario e tra quelli che dànno avvio allo scontro: con i suoi, carica l’avanguardia borbonica.

«Per animare i nostri con una prova segnalata di valore, Nullo mi fece raccogliere le guide e i soldati d'ordinanza. Eravamo diciotto. Indi scendemmo da Pettorano; toccata l'osteria, il maggiore e Mingon si aggiunsero al drappello. Di là al galoppo all'incontro dell'avanguardia borbonica sulla consolare. Quei di Carpinone,»

il “mezzo battaglione” di Zasio e i volontari di De Marco,

«testimoni del fatto, ci battevano le mani, e mandavano alte grida d'entusiasmo ripercosse dal contrapposto monte. Spintici in prossimità dei regi, li caricammo a briglia sciolta e li mettemmo in volta disordinati.
— Indietro, indietro! I cafoni al monte! urlarono di repente i nostri di Carpinone. Noi li udimmo, ma nondimeno proseguimmo la carica.»
Alberto Mario, La Camicia Rossa, edizione digitale, p. 79.

Compaiono, inaspettati, i cafoni, gli irregolari armati di moschetto che attaccano di lato i garibaldini, con tecnica di guerriglia:

«E per verità una vivissima e inaspettata moschetteria ci colse di fianco dalla pendice avanzata di Pettorano che io avevo guernita di duecento uomini. Nullo non sapeva persuadersi come quella importante posizione fosse stata presa senza lotta, e temendo di perdere Pettorano divisò di rifare il cammino sino alla borgata. Si accese pertanto un combattimento strano fra noi cavalieri e i cafoni che dietro agli alberi ci bersagliavano diabolicamente a pochi passi.»
Alberto Mario, La Camicia Rossa, edizione digitale, p. 79.

«Il nemico, che ci era abbastanza da presso die' principio alle fucilate. Fummo tutti, come un sol uomo, all'impiedi. Corremmo verso i cafoni e li respingemmo, quantunque si trovassero garentiti dalle nostre palle, dietro macigni di ogni dimensione, e grossi alberi. Intanto uno scalpitio di cavalli mi fece volgere, e vidi Nullo e lo Stato Maggiore al trotto, alla volta d'Isernia. Ci gridò: - avanti ragazzi! E noi andammo oltre. Giunti sul ponte senza pezzi, che trovasi dopo la prima discesa tra Pettorano ed Isernia, le fucilate al nostro indirizzo incominciarono più incalzanti di prima. Fu allora che Nullo col suo Stato Maggiore, dopo di averci ordinato di andare avanti, ed io, che gli era vicinissimo, lo sentii precisamente dire - Non vi perdete d'animo, vi recherò subito rinforzi - rifacendo la via già percorsa, lanciò al gran galoppo il suo cavallo verso Boiano, scappando ch'era un piacere! Non vedemmo più nè il Nullo, nè il De Marco, nè arrivarono i promessi rinforzi!»
Domizio Tagliaferri, La spedizione di Isernia, giugno 1890.

Gli scontri continuano, intermittenti, fino a sera. I garibaldini sono in rotta. Nullo ripara a Bojano. I Regi conquistano Pettorano.

«Salendo con crescente sospetto, in prossimità delle prime case di Pettorano arrestai un contadino che discendeva, e impugnata la rivoltella gli domandai:
- Vieni da Pettorano?
- Sissignore.
- Vi sono gli uffiziali garibaldini, quei della camicia rossa?
- No.
- Come no? Dimmi il vero o ti buco la testa con due palle.
- Signore! ci sono i gendarmi e i soldati di re Francesco che mangiano e bevono in allegrezza.
- Ma gli uffiziali e la truppa garibaldina?
- Circondati e vinti dai soldati e dai paesani, un'ora innanzi sera i cavalieri tentarono ritirarsi per laconsolare, e i fanti per i monti sulla direzione di Boiano.
Sbalordito da questo annunzio fulmineo, stetti alquanto sospeso e mi lampeggiarono alla mente inriprova gli ordini indarno aspettati, i colpi di moschetto di Pettorano, i carri di provvigione e ildrappello tagliati fuori, il silenzio, i feriti senza soccorso, l'osteria abbandonata. Poscia ripigliai:
- I cafoni, dove si diressero?
- Si accamparono sulle alture che dominano la consolare da qui a Castelpetroso.
- Sono in gran numero?
- Non saprei quanti con precisione, ma certo da due a tremila.
- Tu m'inganni ed io t'ucciderò.
Dissi e montai il cane della rivoltella; indi soggiunsi:
- Precedimi a Pettorano.
Mossi il cavallo; e il contadino a me:
- Arrestatevi, signore; v'assicuro che là trovate i gendarmi, e v'incamminate alla morte. Se volessi ingannarvi, vi direi: - andiamo.
- Ebbene, va a verificare di nuovo, io t'attenderò ai piedi della salita; giurami sull'ostia sacra che ritorneraie mi riferirai la verità; io ti regalerò due piastre.
- Giuro e vado per accontentarvi; ma i gendarmi ci sono come voi siete qui.»
Alberto Mario, La Camicia Rossa, edizione digitale, p. 81.

«Sopraggiunse la notte, ch'era freddissima, e verso la mezzanotte scorgemmo un fuoco ad un paio di chilometri di lontananza. Credemmo lo avessero acceso gli altri garibaldini, che erano con Nullo, e andarono alcuni esploratori per provvederci di munizioni e cibi, e per affrettare i promessi rinforzi! All'alba tornarono gli esploratori, e ci narrarono che quel fuoco era stato acceso dai regii, che avevano occupato Pettorano, dopo che la gran parte dei nostri era stata massacrata. Quale fu il nostro sbalordimento, il nostro dolore, la penna non sa dirlo! Dopo breve consiglio si decise di aprirci una strada verso Boiano. Giunti appena sulla strada consolare, dove la sera precedente avemmo la prima scarica del nemico, ci trovammo circondati da stuoli di gendarmeria borbonica, dalla fanteria di linea, e dai cafoni. Questi ultimi erano armati di scure, uncini, ed altre armi di forma strana, il cui nome non ho mai conosciuto. Una grandinata di fucilate ci assaliva da ogni parte. Le nostre munizioni erano completamente finite. Il numero dei nostri diminuiva, mano mano, sopraffatti dai nemici. Quanti in quel funesto giorno furono scannati, massacrati dai cafoni! quanti altri spogliati, derubati dai regii! Fu un'eccidio, fu una vera ecatombe!»
Domizio Tagliaferri, La spedizione di Isernia, giugno 1890

«(...) nella fuga, molti caddero sotto il piombo dei cafoni reazionarii di Carpinone, tra cui Mascieri Nicola fu Benedetto, [detto] Muccoluso, morto in carcere durante il processo e Jacopo Armenti di Castelpetroso, appostati dietro alberi e macigni. Così al Ponte delle Ferraine, da quei di Castelpetroso, furono uccisi i cavalli della carrozza dello Stato Maggiore; il cocchiere, l’unico che non fu denudato, il sottotenente Bettoni ferito, e altri che erano nella carrozza, Temistocle Mori, Silvio Lavagnoli e Mingon, l'ordinanza di Caldesi che seguivano a cavallo, di scorta, e fu predata una borsa con seimila ducati da tal Cifelli Nicola fu Generoso, che si vantò poi d’avere ammazzati due garibaldini con un sol colpo di fucile allora chiamato sfrattacampagna
Pietro Valente, Il 1860 a Isernia, Pettoranello e Carpinone - Notizie storiche, inedito. Copia manoscritta da Erminia Testa nel 1932 (Archivio Venditti).

Ecatombe, eccidio. La maledizione scagliata da Giuseppe Cesare Abba (e che ha trovato inveramento sotto altra forma che non sia la meteorologia) parla da sola:

«Pettorano, Carpinone, Isernia, meritereste che su voi non venisse più né pioggia né rugiada, fin che durerà la memoria dei nostri, ingannati e messi in caccia e uccisi pei vostri campi e pei vostri boschi!
Tornano gli avanzi della colonna di Nullo; non si regge ai loro racconti; non sanno dire che morti, morti, morti! Par loro d'avere ancora intorno l'orgia di villani, di soldati, di frati che uccidevano al grido di Viva Francesco secondo e Viva Maria.»
Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno, Bologna 1880.


giovedì 27 maggio 2010

Antologia della Reazione, parte II. Isernia, 4 e 5 ottobre 1860

La caccia al liberale, al grido di “viva Francesco e viva Maria”, viene praticata con profitto fino al 4 ottobre, quando

«(...) alle ore diciannove giunse una colonna di circa mille garibaldini a piedi e a cavallo, e fu attaccato fuoco circa due miglia fuori l'abitato (...) il fuoco fu proseguito sino alle ore 23 circa dentro il paese, allorché finita la munizione si dovette retrocedere ed essere in Venafro per avere forza maggiore dalle reali truppe.»
Missiva del Capo urbano Vincenzo Di Ciurcio dell'11 ottobre 1860, integralmente riportata in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Risposte a V.M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d'Isernia, Torino, 1862, p. 49.

I garibaldini sono gli 800 appiedati e i 60 cavalieri della Guardia Nazionale, provenienti da Campobasso e guidati dal Governatore di Molise, Nicola De Luca. A notte, entrano in città per ristabilire l’ordine.

«Napoli, 5 ottobre 1860, ore 10 pom.
Il Segretario generale del Governo di Molise al signor dittatore Giuseppe Garibaldi.

Vittoria completa! vittoria! dopo tre ore di fuoco siamo entrati in Isernia alle ore 23: dei nostri tre soli leggermente feriti, dei reazionari e dei gendarmiche con essi si battevano non ancora sappiamo il numero dei morti e dei feriti; però non deve essere insignificante. ho fatto numerosi arresti, tra quali i due capi del Governo provvisorio, il vescovo e il penitenziere, De Lellis, ed altri; è stata una magnifica retata; tutti niuno escluso si sono slanciati all'assalto come tanti leoni; evviva Molise! (...) »
Telegramma di Nicola De Luca al dittatore Giuseppe Garibaldi, integralmente riportato in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Risposte a V.M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d'Isernia, Torino, 1862, p. 49.

Tra i volontari di Molise, ci sono gli albanesi di Luigi Demetrio Campofreda:


«Certifico io qui sottoscritto Capo dello Stato Maggiore che il Capitano dei volontari albanesi D. Luigi Campofreda in tutti i fatti d’arme nel distretto d’Isernia, e massime il giorno 4 ottobre, si distinse per zelo, per coraggio ed abnegazione, combattendo coi suoi alle prime file, come primo penetrò nella città, che si prese per assalto. Mi piace ancora attestare per onore del vero che il suddetto Sig. Campofreda ha mostrato in quella il maggior disinteresse e decisione possibile in sostegno della gloria e libertà d’Italia.»
Diploma rilasciato dal Capo di Stato Maggiore Ghirelli in Campobasso, 20 ottobre 1860.

Degli assaliti, molti riparano a sud, verso Venafro; altri mostrano il meglio di sé: don Antonino Melogli, tornato liberale, accoglie gli occupanti facendosi trovare

«…sul davanzale di sua casa col ritratto di Garibaldi ad una mano, e coll’altra dimenando un bianco pannolino.»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 32

S’inizia la controreazione: De Luca impone una tassa di guerra e procede ad arresti tra i sollevati. Ne fa le spese pure Saladino, qui dipinto come un mansueto da Giacinto de’ Sivo:

«Trovato il vescovo in chiesa ginocchione avanti al Santissimo, non gli valse l'età, la fievolezza, il carattere, l'atto, il luogo, non la presenza di Gesù sacramentato; afferratolo, strascinaronlo pe' gradini, e se nol difendeva col corpo e con le lagrime il canonico Del Vecchio, l'ammazzavano. Tratto fuori, minaccianlo di fucilazione, gli comandano dir “Viva Garibaldi”: il misero vecchio tacente sospirava. Una donnicciola, al vedere dalla fmestra quello strazio, dà un grido pietoso; e in risposta una schioppettata la figliuoletta le ferisce, lei uccide.»

(...)

«Saccheggi simiglianti in altre case. In quella del ricevitore distrettuale Gennaro De Lellis, a lui stesso drizzano i moschetti al viso, e stette vivo per favor d'alcun Nazionale. Sendo il denaro della cassa in salvo, manomisero la roba, mobili, arnesi e dispense; una cappelletta disfecero, bucherarono una tela di S. Francesco, i calici sparirono. E il De Luca gavazzava , quasi l'unità italica raffermasse col subisso delle ricche case isernine. Dove non eran ricchi, rubavano a'poveri; a chi il vestito, a chi l'anello, la caldaia o il pane. n'empievano carrette, e via per Campobasso.
Peggio la notte. Uccisioni e libidini turbarno molte casucce. La notte del primo del mese i reazionarii, cieca plebe, colpiti, s’eran vendicati di tre nemici; saccheggiarono, non stuprarono, non percossero cose sante; gli uomini di chiesa anche nemici rispettarono. La gloria di straziare in chiesa un vescovo, e saccheggiare e bruttare un paese si conseguì da un governatore co’ poteri illimitati, venuto ad alzare il re galantuomo e la morale d'Italia.»
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 284

Ma Isernia è liberale per una sola notte. Il 5 ottobre, da Venafro, partono i Regi per riprendersi la città.

«Il dì seguente il governatore spedì varii drappelli a perlustrare le campagne e la via che mena a Venafro. Ritornati verso il mezzodì riferirono che una forte colonna di Borbonici era a tre miglia da Isernia. Erano un 500 soldati di fanteria con circa 50 cavalli, molti gendarmi e contadini armati, mentre altri contadini in armi coronavano i monti che fiancheggiano la strada da Isernia a Bojano. Il governatore convocò a consiglio tutti i capitani e venne deciso di ritirarsi, soprattutto perché si difettava di munizioni ed era perduta ogni speranza di aver soccorso dal Pateras, le cui promesse non s'erano verificate. Si scelse la via degli Abruzzi per rionero e Casteldisangro per la speranza di ricongiungersi alle forze di Pateras e per impedire che la reazione negli Abruzzi si propagasse.»
La Colonna De Luca, estratto dal Giornale ufficiale di Napoli, 3 novembre 1860, in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Risposte a V.M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d'Isernia, Torino, 1862, p. 54.

Come spiega bene De’ Sivo, la Colonna borbonica, salendo da Venafro, si scinde e procede a tenaglia: i cafoni – fuoriusciti isernini e del distretto – vanno a bloccare l’uscita a nord; i regolari risalgono per la Consolare. I garibaldini che residuano in città – il grosso, con De Luca, è già in fuga verso l’Abruzzo – rimangono inermi. Segue massacro di camicie rosse, e l’avvio della contro-controreazione, con nuovi saccheggi e rapine:


«Il maggiore Sardi [altrove: Gardi] comandante i regi spiccò i volontarii dalla parte di Fornelli e Sessano, per isboccare alle Grazie sull'alto della città, a serrare 1' uscita del paese; egli avanzando sulla via consolare, giunto alla contrada Forni a un miglio dalle mura, trasse una cannonata, quasi ad avvertire il nemico. Poi entrò per la via a dritta, i soldati percotendo quanti vedevano rossi, che sbalorditi non fecero difesa. Fuggivan su, ma vista la uscita presa alle Grazie, rinculavan dentro; vagavano per le strade, ed eran colti; ad ogni sbocco percussori, e le case serrate; sforzandole venivan sugli scalini stramazzati; altri per le tetta inerpicandosi tombolava. Chi potea toccar la via di Campobasso credevasi salvo; ma scontrava gendarmi e villani, che fuggiti la vigilia, al rumore de' colpi tornavano vendicatori spietati. Queii che scortavano i carcerati, investiti da questi stessi, si sbandarono per le macchie; e in vario modo ebbero morte o prigionia. Fresco il peccato, prontissima la punizione. Certi garibaldini sorpresi nel palazzotto Jadopi, credendo reazione plebea, si difesero; onde i soldati furiosi, posto fuoco all' edifizio, il più di quelli passarono per l'arme; e i contadini seguitando inviperiti contro l'odiate mura, tra le fiamme e le ruine fecero il resto. Nella città sola fur morti da quaranta, molti feriti, e/o prigionieri ; il resto pe' campi perì o campò come il caso volle.»
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 285

L' incendio ed il saccheggio di casa Jadopi compito, altre case di liberali derubaronsi. Dirigente il cameriere del Vescovo segnava le vittime, e le case da aggredire e quali preservava, e Michele Sardi Maggiore di Guardia Reale ad incitar sempre più la plebe a tali assassini arringando da Casa Perpetua dichiarava « che Re Francesco dava per sei mesi di libertà al basso popolo di far quanto volesse» .
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 32

Viene ristabilito formalmente il Governo borbonico, ma le truppe di Sardi/Gardi ripiegano su Teano. Isernia rimane a sé stessa; il nuovo Sottintendente è un de Lellis, Vincenzo, che tuttavia, avveduto della fluidità della situazione nazionale, non si fa vedere in città e preferisce Venafro; il nuovo Sindaco – che parrebbe essere stato eletto contro la propria volontà – è Michelangelo Fiorda, addirittura un conosciuto avversario del cav. Gennaro, che così facendo può rarefare il suo coinvolgimento nei fatti della reazione, anche in vista del prossimo arrivo dei Piemontesi, impegnati nello Stato Pontificio, ma in discesa lungo l’Adriatico.

«Fiorda conosciuto liberale nel 1820, per 40 anni aveva avuto agio di studiare tutte le arti di casa de Lellis, che lo voleva Sindaco, e tra perché temesse compromettersi, e tra perché il governo dittatoriale vi ravvisasse il rappresentante d'Isernia reazionario, sene fuggì. Molti popolani però gli furono spediti dietro e così costretto per forza a tornare. Fu necessità al Fiorda per iscampar la vita divenir passivo nelle funzioni municipali»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 40.

martedì 25 maggio 2010

Antologia della Reazione, parte I. Isernia, 30 settembre - 3 ottobre 1860


Si avvicinano gli anniversari, occorre essere preparati.
Un po’ di ripasso, allora, utile per non essere rimandati a settembre, mese fatidico.

Il 7 settembre 1860, fujutosene Franceschiello in quel di Gaeta, Garibaldi entra a Napoli e vi instaura il Governo dittatoriale, in attesa di dare tutto in mano ai Piemontesi. Il resto del mondo duosiciliano, s’adegua.
Basta un giorno e, a Isernia, si cambiano bandiere: il fresco Sottointendente Giacomo Venditti, insediatosi solo il 26 agosto, ammaina quella gigliata dei Borboni e issa lo scudo savoiardo; poi, perché sia chiaro a tutti l’avvenuto cambiamento, testimonia lo sprezzo per il regime divenuto ancient da una mezz’oretta, sputacchiando pubblicamente il Borbone effigiato sul dorso di una moneta, subito seguito da tale Raffaele Falciari che, sulla stessa moneta, buttata a terra, ci piscia. Tutto questo, in piazza. Quindi invia telegramma a Napoli, recando notizia dell’adesione della città alla causa.
Nuovo sindaco è nominato Stefano Jadopi, possidente, liberale, già deputato al parlamento di Napoli sebbene osservato speciale della polizia borbonica. Il 12 settembre la città si rivolge a Garibaldi esprimendo questi voti:

«Illustre generale e dittatore - Cittadini, Municipio, Clero, Guardia Nazionale e Autorità tutte di Isernia salutano il liberatore del Regno e rendono consenziente omaggio per l'annessione al Regno italiano sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, onde venga compatto di forza e potere. Questi liberi sensi umilia a te Isernia tutta, Contado di Molise, coll'anima e col cuore»
(citato da Francesco Colitto, "Patriottismo e reazione nel Molise durante l'epoca garibaldina" in Almanacco del Molise 1984, p. 101)
Seguono le firme dei maggiorenti, tutti sinceri liberali: i de Lellis, i Melogli, i Cimorelli, un Cimone, un Belfiore. Quanto sia effettivo e sincero l’afflato unitario, si vedrà da lì a venti giorni, sulla punta dei forconi.
Il presidio garibaldino, a Isernia, si compone di ventidue uomini, al comando del maggiore Giovanni Filippo Ghirelli, romano, venuto in città per formare una colonna di volontari e contrastare il possibile arrivo dell'esercito borbonico dal venafrano. Altra forza armata presente è la Guardia Nazionale cittadina - milizia di autoconvocati con funzioni di controllo del territorio, passata tal quale dal servizio dei Borboni alla nuova causa: nelle posizioni di vertice i soliti noti, che tuttavia, nel settembre del 1860, cautamente di defilano.
Queste le occupazioni dei garibaldini in città, raccontate da parte avversa:
«Passando un uffiziale regio, strapparongli i bottoni della divisa; quanti reduci d'Abruzzo transitavano alla spicciolata, o incitavano a disertare o insultavano, e rubavano del bagaglio; onde questi s'andavan frementi di vendetta, e nel popolo testimone il fremito instillavano. Quei ribaldoni scorazzando sforzavano le case altrui, e stuzzicavano l'ire, acciò la gente tumultuasse, e lor desse pretesto al sacco. »Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 282
Il memorialista filoborbonico così ricostruisce la genesi della Reazione in Isernia:
«Sendo pochi i garibaldini rimasti a Isernia, presero la notte del 11 settembre, sulla via, un Altopiede contadino, sospetto ladro; imputarongli il furto d'una valigia, frustaronlo, insozzaronlo, e con minacce di morte strasciaronlo pel paese; all'accorso fratello lo stesso; ambi gittarono in criminale. L'arbitrio del sospetto, e '1 soverchio della sevizia, fu astio a' popolani.
Quel dì 14, il Jadopi ch'era sindaco, prevista la reazione, tolsesi il meglio di casa, e abbandonando la cosa pubblica, in Napoli si trafugò. I garibaldini con a capo il galeotto Costantino Sarcione, saputo che il maggiore Achille De Liguoro con una mano di gendarmi moveva da Migliano su Venafro, quasi tutti a’ 27 [settembre] si partirono. Il Venditti chiamò a difesa i Nazionali, ma non li trovò; onde in carestia di uomini partiti, pensò rimutare mantello, e cercò in fretta i deposti borbonici suggelli; ma troppi testimoni v'era. I contadini carpate quante poterono arme e mazze, corsero a festeggiare i regi; e lo spaurito Venditti aprì le carceri, arringò a' delinquenti, e credé averli persuasi a difendere contro il popolo la libertà. Questi prima ubbriacati, fecero pattuglie pel buon ordine; dappoi vista folta la popolazione, svelarono i timori del sottintendente, e ad essa s'unirono.
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 283

Il 30 settembre Isernia si solleva.
Il vescovo, il feroce Saladino, presule della migliore tradizione sanfedista, millantando il prossimo arrivo dei borbonici e la palingenetica ondata che ricaccerà Garrubaldo al di là del Faro, dà il via a settecento cafoni armati che con ronche e falci percorrono, a notte, la città, da Largo Fiera fino alla Sottintendenza, nell’ex Convento dei Celestini. A guidarli
un Di Ciurcio, qualche Crudele, Corrado, quell’Altopiedi ritenuto ladro e liberato dal Venditti per errore di calcolo: nomi poco blasonati; a tirare il sasso nascondendo la mano, i soliti noti:
«…vuol la storia che notassimo come le sole abitazioni di Gennaro de Lellis , Vincenzo Cimorelli , Francesco Cimone, Achille Belfiore, Giovanni Canonico Penitenziere Giura, e quella de' fratelli Melogli venissero tutelate dagli stessi insorti.»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 20
Assaltano la Sottindentenza, difesa dai pochi garibaldini del maggiore Ghirelli.
«Con un pugno di uomini il Ghirelli si mise in difesa del palazzo della Sottintendenza. E ne era tempo,perchè una massa di circa 700 contadini, al grido di viva Francesco II, assalta il posto della G.N. già chiuso, ne sfonda le porte, abbatte lo Stemma di casa Savoia, e si avanza a dar l'assalto al palazzo del Governo.
Ivi sorge un conflitto, ma i pochi Garibaldini resistono per dar tempo al Venditti di mettersi in salvo; indi, caricando alla baionetta quella massa imponente, scampano da sicuro eccidio. La città, intanto, cade nell'anarchia. Ogni casa diliberali è picchiata, chiedendo fucili e munizioni con minacce di morte.
L’osteria di Cosmo Tamburo viene investita. Gittate a terra le porte, la folla irrompe contro di quattro Guardie Nazionali di Civitanova, che vi si erano rinchiuse, le quali furono ferite e spogliate del meglio che avevano.
Si passa all'assalto della casa del Sig. Alfonso Abeille. Il portone cede sotto gli urti furibondi; l'Abeille mette in salvo i suoi giorni fuggendo sui tetti:ogni masserizia è data al sacco ed al fuoco. Si procede al sacco dell'abitazione del Signor Giuseppe Pietrantonio,il quale scampò per miracolo la vita. Con l'inoltrare della notte il tumulto cresceva in ferocia ed intensità.E grida e colpi d'archibugiate ed aggressioni ed arresti facevano chiaro che si voleva l'eccidio di quanti fossero in voce di liberali.»
Alfonso Perrella, Effemeride della Provincia di Molise, 1891, vol. II, p. 153 e ss.
Assaltano casa de Baggis.
«Avvicinavasi al suo mezzo quella notte orribile,quando il signor Cosmo De Baggis (il quale si era chiuso in casa sua in
compagnia del giudice Boccia, del giovane Francesco Jadopi, dei Signori Luigi De Baggis, Michele Martino Majola, Giuseppe Battista ed una gentildonna moglie di un garibaldino) sente ripetuti colpi di scure,che, in breve, atterrano il portone della sua abitazione. L'orda irrompe. Il De Baggis ed i suoi ospiti si restringono nella stanza da letto: il giudice Boccia e Luigi De Baggis cercano di frenare quelle furie uscendo loro incontro col simulacro della Vergine del Carmine; erano sul limitare della stanza,quando un colpo di fucile mandò in frantumi la sacra immagine, ed altre fucilate fanno cadere mortalmente Cosmo de Baggis, il Boccia e lo Iadopi.
Ai colpi di schioppo succedono quelli di scuri, e sevizie: il De Baggis muore, il Boccia è creduto morto.
Lo Iadopi, semivivo, è trasportato in una stanza contigua, ove immani sevizie lo torturano, e donde agonizzante vien portato nel carcere tra gli urli, gli scherni, i colpi di quell'orda infernale, capitanata dal contadino Vincenzo di Ciurcio.
Il Battista fu ferito di baionetta, e violentata venne la gentildonna garibaldina.»
Alfonso Perrella, Effemeride della Provincia di Molise, 1891, vol. II, p. 154
A Francesco Jadopi, figlio di Stefano, cavano gli occhi (morirà il pomeriggio del 1° ottobre: dopo aver peregrinato inutilmente per case di parenti, portato a braccio, prima di raggiungere finalmente la madre, donna Olimpia de Lellis).
Va detto, en passant, che Francesco è, a un tempo, figlio di Stefano Jadopi e nipote del cav. Gennaro de Lellis, capo occulto della reazione: ecco che a Isernia, per economie di scala, la tragedia assume toni grotteschi di farsa, in cui l'avo infierisce sul nipote per dispetto al genero.
[Per l'omicidio, tanto efferato, di Francesco Jadopi, la memorialistica antiliberale prova a dare deboli scriminanti, alibi che non reggono, va a ricercare cause remote, percorre (superandolo) il limite della calunnia e diffamazione:
«E qui mi è necessità intrattenermi un istante su Stefano Jadopi, onde fosse noto chi sia costui, e quali i motivi pei quali la plebe infuriò poi contro il figlio. (...) Pessime fra le triste passioni sono l'ambizione e la sete delle ricchezze. Stefano Jadopi lasciò dominarsi da entrambe, e divenne il nemico di sé e dei suoi, il flagello d'Isernia (...) Fu sindaco e prese a volgere a suo profitto i beni del Comune (...) Prese a dirigere le fabbriche del Seminario che il vescovo Saladino volle ricostruire dalle fondamenta, e l'appaltatore Luigi de Cesare, minacciato da lui della perdita dell'appalto, per non soggiacervi dové somministrargli materiali e mano d'opera per la costruzione del Casino. Divenuto ambizioso cominciò a far la corte e strisciare presso lo stesso vescovo Saladino, pretendendo pei di costui mezzi, la modesta carica di Sottindentente ad Isernia. Restò deluso. Venne il 1848, sperò cangiar fortuna col cangiar politica (...) divenne di botto liberale. (...)
arrivando tuttavia alla consapevolezza che
«(...) gli eccessi, i fatti nequitosi possono essere compianti, scusati non mai.»
V. M. Briamonte,
Cause, mezzi e fine della reazione d'Isernia avvenuta nel 30 settembre 1860, s.d., p. 20.
Alle accuse di Briamonte (probabile nom de plume, di un don Luigi Testa, piemontese, già gesuita e, all'epoca dei fatti, professore al Seminario di Isernia) risponderà puntuale Stefano Jadopi, col suo Risposte a V. M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d'Isernia, pubblicato - anonimo - nel 1862, terzo volume di una guerra editoriale giocata, a distanza, tra anonimie e alias e che avrà altri significativi episodi.]

Tornando alla narrazione degli accadimenti, abbiamo in Vincenzo di Ciurcio, alias Pagano, contadino, una fonte di prima mano: nominato Capo urbano dai sollevati, sottoscrive come utile testa di legno una missiva a Francesco II in cui relaziona sui fatti d'Isernia:

«A Sua Sacra Real Maestà Francesco II (...) il contadino Vincenzo di Ciurcio, alias Pagano, d'Isernia fedelissima, suddito divotissimo ed attaccatissimo alla Maestà Sua (...) l'espone che egli ha mossa la popolazione e messosi alla sua testa (...) si assaltò li 30 a sera il corpo dellaGuardia Nazionale (...) Il giorno seguente, 1° ottobre la popolazione distrusse qualche individuo della Maestà sua. Furono arrestati i corrieri e le corrispondenze dei garibaldini da esso esponente,
il quale fece pure aprire il commercio dei generi per Capua, stato impedito dai detti garibaldini onde far morire di fame i regii; ripristinò gli stemmi e la bandiera borbonica; attivò il servizio urbano al numero di circa mille scelti tra i migliori pagando grana venti il giorno per ognuno di denaro tolto dalla cassache si sapeva essere stata fatta per il mantenimento del Corpo della Guardia Nazionale (...)»
Missiva del Capo urbano Vincenzo Di Ciurcio dell'11 ottobre 1860, integralmente riportata in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Risposte a V.M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d'Isernia, Torino, 1862, p. 48.


La reazione trova la sua consacrazione la sera del 3 ottobre, quando arrivano - pochini, in realtà -

«…i tanto aspettati e sollecitati gendarmi [borbonici] al numero di cento. Monsignor Saladino riuniti i ribelli nella sala episcopale diceva loro «la Madonna aver fatto il miracolo mandando i gendarmi a proteggere il movimento». E bisognava esser sicuri, ché preservate poche famiglie, le rimanenti dovevano soggiacere a carcerazione ed altro, perché erano nemici del re e della religione. In tal modo la città finalmente ebbe conferma di chi la reggesse, ed i liberali si videro a fronte non un popolare ammutinamento, ma un'organizzata, diretta e trionfante reazione.»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 25

Il che, per altro, non mitiga gli eccessi: il meschino Falciari – quello della pubblica minzione sui gigli del Borbone – viene
«…catturato e, stretto fra ritorte di legno, vomitava sangue. Trascinato in sulla piazza fu martoriato, impiccato ad un lampione, e si giunse (orrore a dirsi!) a recidergli le ascose membra virili e riporgliele in bocca!»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 27
[A voler riportare quel che dice Briamonte, Falciari meschino lo era davvero, e da prima che lo evirassero:
«Tristo per natura, liberale mentito, dava in vessazioni e ruberie di ogni sorta: vendeva al Municipio a caro prezzo olio, legne, paglia che non comprava con altra moneta tranne quella di promettere ai contadini di non arrestarli, avendo, come diceva, il potere di farlo: rubava gli stessi Garibaldini nella misura, nelpeso e nella somministrazione di tali generi: i reclami non temeva, di tutti si burlava»
V. M. Briamonte,
Cause, mezzi e fine della reazione d'Isernia avvenuta nel 30 settembre 1860, s.d., p. 17.]

lunedì 17 maggio 2010

Neri bipedi e venti africani. Isernia, autunno 1860

Sarà stata l'attitudine dell'uomo di mondo (anzi, dei Due mondi), capace di cogliere il senso delle cose ad un primo sguardo; pure, questo Giuseppe G., nel suo breve, e non facile, transito, coglie di Isernia una verità ancora attuale. Cambiano i bipedi, non necessariamente tutti di colore nero; l'ignoranza si stempera forse con corsi europei di marketing territoriale e promozione turistica, ma la ricchezza inespressa di queste contrade sta ancora là, a svilire sotto l'ennesimo sconsiderato cattivo uso del territorio.

«Isernia, capitale dell'antico Sannio occidentale, potrebbesi intitolare, come Palermo, la Conca d'oro. Circondata dalle alte cime del Matese - ove tesoreggiano sorgenti abbondantissime ed inesauribili da una parte, fra cui dominano le cataratte del Volturno, dall'altra completando la corona altre delle alte cime apenniniche, ne fanno veramente un paese incantevole, ove il touriste, che fugge le aride ed infocate contrade, può trovare quanto brama di verdure, aure fresche e deliziose ed acque zampillanti e cristalline quanto quelle delle Alpi. Paesi a cui natura fu prodiga d'ogni suo benefizio, e che perciò attrassero il nero bipede che predica l'astinenza e si pasce di lussuria. Sì! il prete come il simoun isterilisce in quelle magnifiche contrade ogni fonte di progresso e di prosperità. Là, ove potrebbero sorgere dei Chicago e dei Manchester, sorgono invece delle città appena note sulle carte geografiche, come Isernia e Campobasso, con popolazioni robuste sì, ma annegate nella più crassa ignoranza.»

Il Simoùn è un vento africano. Giuseppe G., l'avrete capito, non è un G. qualsiasi. Il pezzo su Isernia è tratto da «I Mille», Torino, Tip. e lit. Camilla e Bertolero, 1874. (qui, l'edizione digitale).

martedì 4 maggio 2010

Benno strikes back. Isernia, 1955

La sindrome di Stoccolma è quella particolare condizione psicologica nella quale una vittima arriva a manifestare sentimenti positivi (in alcuni casi anche fino all'innamoramento) nei confronti del proprio aguzzino.
Benno Geiger nell'ottobre 1955 ritorna a Isernia.


«M'ero preparato a rivedere Isernia come l'avevo lasciata, sporca sì, ma, ad onta degli zingari che vi risiedono e delle pinzocchere che lavorano al tombolo da Annibale in poi sulla strada, nobilitata da qualche elemento d'arte romana o sannitica, quale la Fontana Fraterna al bivio del centro, una specie di pubblico lavatoio, con la sua mezza dozzina d'archi a sostegno d'altri dodici archetti sovrapposti; con qualche pietra miliare antica agli angoli delle strade; con il convento medievale dei Domenicani, la chiesuola gotica a fianco e il grande chiostro interno, racchiuso da una doppia fila di loggie all'intorno. Quel convento che m'aveva ospitato e al quale avevo finito di assuefarmi, se non proprio a volergli bene.»


Geiger non sapeva nulla del bombardamento alleato del 10 settembre 1943.
Venato da un sottile razzismo jugendstil, ecco il suo commento alla scoperta:


«Un benefico bombardamento degli Americani, specialisti nello sterminare dall'alto della loro cultura di jazz gli inermi, eteroclita miscela di pellibianchi, della quale fra non molto solo i negri, quale razza dell'avvenire, saranno i padroni, aveva nel 1944 (sic!), durante una chiara notte di luna (sic!), troncata la vita a 6000 (sic) iserniesi ed accumulato macerie, non ancora rimosse, un poco dovunque. La piazzetta in fondo al paese, da dove si godeva una bella vista sui piani e sui colli circonvicini, con l'eremo dei Santi Cosmo e Damiano difronte, a me caro, già posto mio di ricreazione (...) aveva lasciato il posto a casolari ingombranti , che toglievano il respiro. La Fontana Fraterna era scomparsa. Le vecchiette del tombolo, vieppiù invecchiate, sedevano immemori sulla soglia dei loro abituri (...) il mio convento era diventato una laida prigione, in parte adibita agli zingari vagabondi, in parte ai reclusi (...)»


Al di là della sua ossessione mitteleuropea per gli zingari (citati in poche pagine di diario almeno cinque volte), quello che si fa notare è che Geiger annota a malincuore, nell'elenco delle tante, vere perdite che la città ha subito, che il suo campo di internamento - che il ricordo ingentilisce, ma che certo è cosa diversa dal Grand Hotel - si sia svilito in comune, "laida prigione".

lunedì 3 maggio 2010

Piccoli proprietari terrieri, zingari e muli. Isernia, 1940

Benno Geiger è poeta, traduttore e critico letterario del secolo scorso (o, anche, di quell'altro ancora, essendo nato nel 1882). Per una serie di coincidenze, e poiché la fortuna è cieca, il «viennese di nascita e veneziano di cuore» venne a passare, nel 1940, un periodo di villeggiatura a Isernia, in Santa Maria delle Monache, dove, allora, era attivo uno campo di internamento per confinati. Per quella strana condizione psicologica che può istaurarsi, a volte, tra vittima e (proiezioni del suo) aguzzino, codificata come Sindrome di Stoccolma, il rapporto tra Geiger e la città diviene (vedremo) d'amore/odio. Così intanto descrive l'Isernia del 1940 nel suo «Memorie di un veneziano», Firenze, 1958, pag. 237 e ss.:


«S'era alla fine del luglio del 1940 e l'incubo, nella fattispecie, prese la forma concreta di due carabinieri che un giorno, mentre facevo colazione (...) vennero a prelevarmi. Sull'ordine ministeriale che mi fu presentato stava scritto: Isernia. Da allora in poi questa parola ha avuto per me sempre qualche cosa di ossessionante; e quando, molti anni dopo, lessi «Isernia» in un quadro su di un codice dipinto dall'Arcimboldi in mano del riformatore Calvino, mi chiesi quale disgrazia quel nome avesse rappresentato anche per lui.»

«Viaggiai con due guardiani al fianco (...) sino ad Isernia, patria di papa Celestino V e di Farinacci, ricordati con lapidi entrambi. E' questa una cittadina assai antica (...) abitata da piccoli proprietari terrieri, da zingari che spidocchiano i loro rampolli tenendoseli fra le ginocchia, e da muli. Questi vivono al piano terra di ogni casa e fomentano col letame uno sciame densissimo di mosche che tappezzano tutti i muri all'esterno ed interno, i quali risultano pertanto completamente neri.»

«In questa città primitiva presi stanza obbligata nel cosiddetto «Campo di concentramento», un vecchio convento di frati domenicani soppresso, e sistemato per il nuovo uso , in via Marcelli 58, con una grande fontana d'acqua purissima, tipo Fiuggi, all'ingresso, ed una specie di chiostro a due piani intorno ad una corte interna. (...)»

«Come dovunque, anche lì era in auge la corruzione. Il Governo passava undici lire al giorno per il nutrimento d'ogni internato. Per la pastasciutta, per un piatto di carne con contorno di verze o patate, per il pane e un bicchiere di vino ce n'era d'avanzo. Ma il vivandiere, al quale le somme erano devolute, se ne tratteneva una parte a beneficenza propria; e, avendo l'appalto della mensa e non dovendo risponderne ad alcuno, dava da mangiare a noi disgraziati null'altro che coratella, frattaglie e polmone, il cibo dei gatti.»


[aggiornamento 2019]
Aggiungo, ad uso dei pignoli, una minuta biografia di Benno Geiger, tradotta dalla pagina Wikipedia tedesca:  

Benno Geiger (da web)

Benno Geiger (pseudonimo di Egon E. Nerbig, nato il 21 febbraio 1882 a Rodaun, vicino Vienna e morto il 26 luglio 1965, a Venezia ) era figlio dell'ingegnere Theodor Geiger e della pittrice Pauline Geiger (nata von Schultz). Trascorse l'infanzia con sua madre e sua zia - sorella di Pauline - Ella Adaïewsky, musicologa e pianista, a Venezia. Dal 1884 al 1889 visse con parenti in Livonia. Frequenta la scuola a Venezia. A partire dal 1901 studia storia dell'arte e letteratura tedesca presso l' Università di Lipsia e l' Università di Berlino. Dal 1910 al 1914 lavora presso il Kaiser Friedrich Museum di Berlino.

Successivamente, Geiger ritorna a Venezia, dove lavora come scrittore freelance e mercante d'arte . Viaggia a Roma, Parigi e Vienna. Si occupa di arte italiana e intrattiene corrispondenza con Rainer Maria Rilke, Hugo von Hofmannsthal, Stefan Zweig. Si trasferisce in Svizzera e poi in Francia. Nel 1935 ritorna a Venezia. In questo periodo si avvicina al partito nazista, divenendone membro. Nel 1942 e nel 1943 collabora con la cd. Agenzia Mühlmann (Dienststelle Mühlmann) divenendo referente per l'Italia e accompagnando Franz Kieslinger e Kajetan Mühlmann nelle loro campagne di rapina di opere d'arte nei paesi occupati. 

Del periodo di detenzione a Isernia, sappiamo da quanto scrive in "Memorie di un veneziano".

Dopo la fine della seconda guerra mondiale ritorna a Venezia.

Benno Geiger ha scritto non solo saggi storici d'arte, ma anche poesie. Inoltre, ha tradotto Dante e Petrarca in tedesco. Per la sua opoera di traduttore, ha ricevuto nel 1959 il premio "Johann Heinrich Voss" dall'Accademia tedesca per la lingua e letteratura tedesca di Darmstadt.