martedì 25 ottobre 2011

Cospirazione. Isernia, settembre 1860


[Archivio Ettore D'Alessandro, Firenze.
Riprodotta in "Mandamento di Venafro nell'Unità d'Italia" di Edilio Petrocelli,
Volturnia, Cerro al Volturno 2011. Per gentile concessione di Edilio Petrocelli.]

«Eccellenza,

la mia persona di servizio, Ceca, affida a Lei il piano di domani ad Isernia per avviare il suo messo a Gaeta. Il Palazzo del Governo verrà attaccato dal gruppo del Belfiore, bene armato a far ripiegare gli armati del Ghirelli.

Si teme l'inutile linciaggio dei liberali traditori per mano del fedele popolo che difende la Croce e il legittimo Re. Serve l'intervento dei Reali, quali il Corpo di Gendarmeria, per controllare la guerriglia o altra Compagnia; manderemo il Salzillo di Pozzilli a Gaeta per le messaggerie.

Il maggiore De Liguoro è comunque in marcia verso la città e la sua colonna è forte. A Venafro i suoi quattrocento soldati hanno riportato l'ordine, cacciato i rivoltosi di Garibaldi e riposto lo stemma del Re. È servito porre la marziale legge contro la malsana Guardia Nazionale venafriana che già a luglio intervenne per soffocare nel sangue spietato i nostri contadini contrari agli occupanti.

Un rigoroso intervento dei Reali potrebbe riportare il controllo in Isernia, evitando ulteriore spargimento di sangue. Cosa fare nei paesi limitrofi, Sessano, Chiauci, Civitanova, [Pesche?], Pietrabbondante?»

martedì 18 ottobre 2011

La difficoltà di essere italiani. Isernia, aprile 1861


Carlo Corsi, di nobile famiglia fiorentina, è militare di carriera: nel 1844, disertando un futuro da diplomatico presso il Granduca, si arruola volontario nell'Armata Sarda, battaglione zappatori del Genio. Seguono ingaggi in eserciti e campagne diverse. Nel 1860, quando scende da capitano di cavalleria con l'Armata d'occupazione delle Marche e dell'Umbria ha già sedici anni di gavetta alle spalle. Combatte al Macerone, prosegue per Gaeta, che assedia con Cialdini. Caduta la cittadella il 14 di febbraio, l'Armata progressivamente smobilita e ritorna verso nord. Nel passaggio, a ritroso, lungo la Via degli Abruzzi, Corsi annota di un paese ancora incredulo, che non ha ancora pienamente compreso quanto accaduto. Le province napoletane risultano divise tra chi, per idea o profitto, ha spinto per l'annessione e chi - la gran parte - fa fatica a realizzare che un regno si sia potuto sciogliere come la neve a marzo.

«Frattanto, come se non bastasse quel primo aiuto dato da noi medesimi ai nostri nemici, venne da Torino, sul fine del marzo, l'ordine che il 4° Corpo e quasi tutta la cavalleria tornassero verso il Po. E infatti ai primi d'aprile quelle truppe mossero per la strada degli Abruzzi fino a Popoli, donde il 4° Corpo e il reggimento Lanceri di Novara proseguirono pel littorale adriatico verso Ancona e Bologna, e la brigata della cavalleria di linea con alcune batterie per la strada interna di Aquila, Rieti, Terni, ecc., verso Perugia e Firenze. Ciò produsse pessimo effetto nelle province napoletane. Fu fatta correr la voce che eravamo costretti a ritirarci perchè così voleva l'imperatore dei francesi, il quale avea deliberato di riporre il re Francesco sul trono di Napoli e restituire al Papa le province da noi toltegli. I paesi che attraversammo aveano aspetto strano e sinistro. I nostri partigiani scoraggiti, li avversi giubilanti, l'aria piena di'minacce. Nello appressarci ad Isernia il 10 aprile vedemmo gruppi di cafoni venirci incontro, fermarsi a guardarci con avida curiosità, colle labbra aperte come per gridar «Viva 'o re!» invece, riconosciuti li elmi e li azzurri pennoncelli dei nostri cavalieri, guardarci tra loro e restar muti e scuri. Aspettavano i francesi che seguivano i piemontesi per cacciarli fuori del regno. Ed avendo già veduto sfilare le truppe del general Cialdini, avean creduto finito con le ultime di quelle il passaggio dei piemontesi, ed erano accorsi a salutare i loro liberatori; così chè poco mancò ci accogliessero colle grida «Viva i francesi! Viva Francesco II! » Restammo stupiti allo udire come in quei paesi non si credesse ancora alla caduta di Gaeta e al nostro ingresso in Napoli, ma, all'opposto, che fossimo stati battuti, dai francesi o da altri, e sforzati ad andarcene come vinti. Udimmo che in un paese vicino della provincia di Molise nel giorno dopo Pasqua molti soldati borbonici e cafoni s'erano levati a rumore alle grida di «Viva Francesco II» ed aveano massacrato il parroco, il sindaco, un figlio ed una figlia di questo, il comandante della guardia nazionale, un figlio di lui ed il giudice, messo a ruba le loro case, atterrati li stemmi del re Vittorio Emanuele; che nella notte seguente, mentre quei selvaggi facevano baldoria, era sopraggiunto un drappello del nostro 6° reggimento di fanteria, che li avea assaliti, battuti e fugati, d'accordo colla Guardia nazionale d'un altro vicino paese; che 103 n'erano stati fatti prigioni, 23 dei quali fucilati poco dopo. Li amici nostri applaudivano a quei rigori, i tranquilli cittadini gemevano; tutti erano spaventati, deploravano la nostra partenza, si raccomandavano di adoperarci tutti per indurre il nostro governo a mandar subito in quelle province soldati, soldati e soldati, quanti più potesse, e mostrarsi forte, ed usar rigore, senza misericordia; altrimenti dessi, liberali, possidenti, galantuomini, sarebbero perduti. Metteva sdegno e pietà vedere come loro mancasse il coraggio per aiutarsi da loro medesimi, a fronte di quegli estremi pericoli da cui vedeansi minacciati e che la loro fantasia sregolata ingigantiva. La notizia che 100 uomini armati s'erano presentati ad una villa vicina e l'aveano messa a ruba fece quasi tremar le case d'Isernia. Misero paese! Erano così recenti le memorie dei lutti dell'ottobre!

Il giorno dipoi, sul far della sera, tre carabinieri nostri che seguivano a breve distanza la retroguardia di Piemonte Reale sulla salita dell'Apennino furono presi a fucilate da gente appostata presso la strada. Il drappello di retroguardia della cavalleria accorse a quel romore, e insieme coi carabinieri dette la caccia a quegli aggressori. Ma uno solo ne fu preso.»
Carlo Corsi, 1844-1869 - Venticinque anni in Italia, Firenze, Tipografia P. Faverio, 1870, p. 532

giovedì 13 ottobre 2011

Teodoro Salzillo e gli "altri" Mille



Settembre 1860: con Garibaldi a Napoli e la linea del fronte attestata sul Volturno, nei capoluoghi di distretto a nord del fiume, i filounitari sollevano il tricolore con lo scudo sabaudo, instaurando a macchia di leopardo governi provvisori in nome di Italia e Vittorio Emanuele. Nel giro di pochi mesi, interesse, fellonia e rassegnato fatalismo fanno crollare un regno europeo antico di secoli. La situazione è caotica ovunque: come candidamente dichiara a se stesso il suddiacono Nicola Nola, nel suo prezioso diario venafrano, non si sa a chi ubbidire. In questo contesto di insorgenza, reazione e controreazione si muovono personaggi degni della penna di Salgari. Tra di essi, certamente va annoverato il misconosciuto Teodoro Salzillo (altrove Salzilli, all’uso piemontese), capopolo, agente provocatore, primula rossa reazionaria e, al tramonto, malinconico scrittore di memorie.Sue notizie biografiche le dà Masciotta: nato a Santa Maria Uliveto (Pozzilli) il 20 febbraio del 1826, Teodoro Salzillo fu «tenuto agli studi da uno zio prete, acquistando una cultura superficiale ma varia così da essere in grado di soddisfare alla grafomania ond'era affetto». Grafomane lo è davvero se una nota bibliografica in ultima pagina del suo lavoro intitolato "Roma e le menzogne parlamentari nelle Camere de Comuni di Londra e Torino", edito nel 1863, ci dà dodici titoli tra saggi, poesia e prosa, pubblicati a quella data.Nell'anno delle rivoluzioni, il 1848, Salzillo è nelle schiere dei liberali. Dodici anni più tardi sarà invece tra i reazionari difensori dello statu quo. Non certo a parole.In quell’autunno del ’60, Salzillo, a capo di mille cafoni (gendarmi sbandati, guardie municipali non riconfermate, contadini fedeli al re e a monsignore), si muove agilmente tra Isernia e Venafro, dando battaglia alle Giubbe rosse, sostenendo ovunque serva – e con più energia degli uomini in divisa – l’esercito regolare duosiciliano nei suoi ultimi conati di resistenza allo straniero. Troviamo Salzillo e i suoi battersi alle pendici del Matese campano; a San Germano, inseguiti da Ghirelli; a Isernia contro la Colonna De Luca; a Pettorano contro Nullo e, stando a quello che si dice, sul Macerone, contro i bersaglieri. È lui stesso a ricordare le gesta di questi Mille senza giubba, dimenticati dalla Storia per aver sostenuto il re sbagliato:

«Questi volontari, parte guardie urbane e parte soldati congedati, formavano un battaglione di 1000 individui, da noi organizzato, senza il minimo concorso monetario del governo. Esso si distinse nell’occupazione di Venafro e di Fornelli; nell’attacco di Isernia con De Luca e Ghirelli; nell’attacco di Pettoranello e Carpinone col colonnello garibaldino Nulli (…). Nell’attacco al Macerone col Generale piemontese Griffini, comandante due battaglioni d’avanguardia, questi volontari mostrarono sommo valore, a già prima avevano liberato Forli da 200 garibaldini, prendendovi il procaccio con oltre a 7000 ducati, che trasportarono a Gaeta.»
Lucio Severo [ma Teodoro Salzillo], Di Gaeta e delle sue diverse vicissitudini fino all‘ultimo assedio del 1860-61, s.l. 1865, p. 13.

Con quale orgogliosa energia terrà a puntualizzare dal suo esilio romano – Salzillo segue Francesco II prima a Gaeta, poi a Roma – che contrariamente ad altri, i suoi uomini non si sono mai tirati indietro: polemizzerà per iscritto coi graduati dell’esercito regio:

«Ci reca maraviglia, osservando i rapporti del Maggiore de Liguori e di Scotti-Duclas Generale, rinvenire usurpata tutta questa gloria. Dopo la vittoria riportata su dei tre battaglioni garibaldini nel piano di Carpinone [contro Nullo], il de Liguori scriveva al Duca S.Vito: Abbiamo sostenuto un brillante fatto d‘armi. Gli domandiamo noi: e quando mai usciste da Isernia? Non vi ricorda che tra i vostri dipendenti, solo i tre sopraddetti ufficiali, [i capitani di gendarmeria Graux e Monteleone e l’alfiere de Vivo] volontariamente, con 85 gendarmi si spinsero con noi all’attacco? Non vi ricorda che tutto su di noi poggiavate? E poi, chi di noi due è stato processato? La storia Signor Maggiore, dirà: chi sostenne il brillante fatto d’armi! Il lettore sappia: che non solo il de Liguori così fece, ma tutti i Capi, i quali nascosero sempre le loro viltà sotto il coraggio dei dipendenti.»
Lucio Severo [ma Teodoro Salzillo], Di Gaeta e delle sue diverse vicissitudini fino all‘ultimo assedio del 1860-61, s.l. 1865, p. 13.

Pure, di Salzillo e dei suoi nella storia ufficiale del Risorgimento italiano non c’è menzione. È il destino degli sconfitti, certo; ma la damnatio memoriae nei confronti dei vinti del Risorgimento ha operato con maggiore energia. L’interpretazione orientata, unidirezionale e acritica, dei fatti e degli atti che hanno portato all’Unità, dall’olografia di De Amicis a salire, ha trovato d’accordo tutti: il Fascismo – che propose una continuità ideale tra Camicie rosse e Camicie nere – così come la Repubblica – non a caso, la Resistenza viene definita “Secondo Risorgimento”. Il Risorgimento era religione civile, mito fondativo del Paese, e non poteva essere messo in discussione. Gli archivi rimanevano inesplorati o lasciati all’esplorazione degli storiografi domenicali, facilmente bollabili come revisionisti e cazzari. Scrive Sergio Romano (sul Corriere della Sera del 18/05/2001):

«Il problema della “storia patria” sorge nel momento in cui gli Stati, dopo il 1848, diventano “nazionali” e adottano, uno dopo l’altro, il principio dell’educazione obbligatoria. Ai figli dell’operaio, dell’artigiano, dell’agricoltore e del bottegaio non basta impartire nozioni di lingua e di aritmetica. Occorre insegnare un catechismo civile, positivo ed entusiasmante. Occorre spiegare che la patria è sacra e che la sua storia è costellata da gloriose vittorie o immeritate sconfitte. (…) Una “buona” storia produce buoni soldati. (…) Spero che gli storici della sinistra militante non se n’abbiano a male se osservo che il loro modo di scrivere assomiglia come una goccia d’acqua a quello di molti dei loro colleghi degli anni Venti e Trenta: le stesse certezze manichee, le stesse scomuniche, la stessa inclinazione a leggere gli avvenimenti con gli occhiali dell' ideologia, nazionalista allora, marxista, proletaria e antifascista oggi.»

Torniamo a Salzillo, alle poche fonti che ce ne parlano. I contempranei di parte liberale ce lo dipingono come spia, doppiogiochista. Nei giorni immediatamente precedenti lo scoppio della Reazione di Isernia (30 settembre 1860) Salzillo prende contatti col comandante garibaldino Fanelli: da lui si fa consegnare 36 ducati con lo scopo di fare arruolamenti a Venafro, salvo poi involarsi a Teano per conferire, appunto, col maggiore borbonico De Liguori «per veder modo di fomentare una reazione in Venafro ed in Isernia». Non sappiamo quanto ci sia di consapevole pratica d'infiltrazione, quanto di lucro e personale interesse. Certo è che sceglie il partito sbagliato. La penna avvelenata di Jadopi così ce lo descrive:

«Nel giorno 2 ottobre il Salzilli recossi in Pozzilli (…) e convocato il popolo lo spinse a saccheggiare l’arbusto e il Casino de’ signori Lucenteforte, perché parteggianti pel nuovo ordine politico (…) Ne’ giorni 4 e 5 ottobre fu il Salzilli presente al saccheggio della Casa de’ signori Jadopi d’Isernia e della Sotto-Intendenza prendendone la sua parte, ed il pianoforte del Sotto-Intendente sig. Giacomo Venditti fu recato a Pozzilli in casa Salzilli, l’onde lo riprendeva il Governatore Nicola de Luca e lo restituiva al padrone dopo la venuta delle truppe Italiane. Ne’ giorni seguenti fino al 20 ottobre (…) non altro occupavasi che di recarsi di casa in casa alla requisizione di armi e munizioni ed estorquendo denaro dai più gonzi. (…) Nel giorno 22 ottobre (…) fuggì in Gaeta, e di là si rifuggiò in Roma dove ora esercita l’ufficio di arrolatore di briganti, e quando scrive alla moglie si firma col titolo di Cavaliere».
Anonimo [ma Stefano Jadopi], Reazione d‘Isernia, Il Giudizio innanzi la Corte d‘Assise ed i ricorsi in Cassazione, in Storia d‘Isernia al cadere dei Borboni nel 1860,s.l. [Italia], s.d., p. 160

Dopo le note vicende, passati piume in testa i bersaglieri per il valico del Macerone, Salzillo segue Francesco II nella sua malinconica ultima Thule. Caduta Gaeta seguirà la corte in esilio a Roma, al pari di altri campioni nostrani della causa lealista: il duca D'Alessandro, il ricevitore Gennaro De Lellis. Segue una breve parentesi a Malta, dove pubblicherà il citato "Roma" (1863), quindi di nuovo a Roma. Quando, col 1870, non avrà più senso offrirsi di spalle all'odiato nemico, tornerà a Venafro, città italiana. Qui muore il 20 giugno 1904.

[Alcune opere di Teodoro Salzillo sono integralmente presenti su Google Books: per chi voglia, qui trova il volume sull'assedio di Gaeta, pubblicato nel 1865 col nom de plume di Lucio Severo; qui invece c'è il citato "Roma (...)" e qui invece c'è il volume sull' invasione garibaldesca dello Stato Pontificio del 1867.]

martedì 11 ottobre 2011

L'Editoriale di ArcheoMolise n. 9

«Mi è stata chiesta una mezza pagina su “Cultura in generale e molisana in particolare”. Dato il tema, tanto vasto da spiazzare quasi quanto l’argomento a piacere che inchioda con sottile perversione lo studente alla scelta del proprio supplizio, decido di virare sul personale. Dirò quindi cosa sia per me cultura, quali suggestioni, in libertà, il termine evochi.

Cultura è l’atto di interessarsi del mondo, di curarsene. Cura e cultura condividono stessa radice semantica: provengono entrambe da quel verbo latino colere che ha come primo significato il coltivare la terra, antonomastico atto di cura del mondo. A spartirsi la stessa radice latina c’è anche un altro lemma che richiamo non a caso: curiosità. L’atto culturale è sempre un atto di curiosità. Curioso è chi «ha desiderio irrequieto e inconveniente di cercare e sapere i fatti altrui e ciò che a lui non appartiene» (Pianigiani, 1907). A parte la connotazione negativa introdotta dall’aggettivazione del desiderio, tutto il resto ci sta bene: potremmo tranquillamente definire cultura il processo di interiorizzazione di ciò che non ci appartiene fino al raggiungimento dell’appartenenza. Mi viene in mente quel precetto espresso in versi da Nazim Hikmet, che al figlio dice: «Non vivere su questa terra/come un inquilino». Ecco: l’atto culturale emancipa gli uomini dall’essere indifferenti abitatori della terra, sciatti inquilini tardi a sapienza, e quindi presti a morte, come malinconicamente scrive Leon Battista Alberti (che, al pari di Leonardo, è invece figura emblematica di curioso poliedrico, che infila il tartufo del proprio naso in ogni piega dello scibile).

Se cultura è cura del mondo, il primo mondo di cui avere cura, per prossimità, è quello che insiste sotto le nostre scarpe, quella porzione minima che chiamiamo nostra; la terra in cui affondano le radici. Il primo atto culturale da compiere, utile a sapere chi siamo, è quello che ci porta a conoscere da dove veniamo e questo non (o almeno non solo) per mero nozionismo. La ricerca storica locale, purgata dalle approssimazioni folcloriche, dovrebbe renderci in prospettiva l’immagine di quello che siamo oggi. Tanto per dire, un molisano deve sapere di avere sangue bulgaro, normanno e saraceno e questo – prima ancora del ricordo dei nonni passati per Ellis Island e trapassati a Monongah – dovrebbe portarlo a considerare nella giusta prospettiva il già presente problema della società multiculturale, il tema dell’accoglienza dell’altro. Un molisano dovrebbe conoscere dei tratturi per ignorare l’autostrada.

C’è molto da fare. Scriverlo su una rivista che si occupa (e bene) di archeologia potrebbe sembrare piaggeria, ma lo faccio ugualmente: il primo, doveroso atto culturale da compiere, se cerchiamo le nostre radici, è quello che – più o meno metaforicamente – si fa scavando

[Il testo è quello che ho scritto come editoriale per il n. 9 di ArcheoMolise, ottobre/dicembre, 2011. Per abbonarsi alla rivista, va inviato un contributo di € 15,00 tramite bollettino postale o bonifico intestati a: Associazione Culturale ArcheoIdea via Campania, 217 86100, Campobasso
Causale del versamento: contributo per 4 numeri di ArcheoMolise. Per il bollettino postale il numero di conto corrente è: 50357649.
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giovedì 6 ottobre 2011

Guida all'area templare sottostante la Cattedrale di S.Pietro




Aesernia, già città dei Pentri, diviene colonia latina nel 263 a. C., a conclusione della Terza guerra sannitica (290 a.C.). L’erezione di un grande tempio dedicato - con molta probabilità - alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva), culto ufficiale del mondo romano, è da mettere in relazione con questa data.
Del tempio rimane visibile il solido basamento, con perimetro discontinuo di circa 33 per 22 metri (corrispondenti a circa 120 per 80 moduli, calcolati con piede osco di 0,27 cm.), in pietra calcarea locale e modanatura con doppia sagoma a cuscino, tipica dei manufatti realizzati in contesto italico.

Il percorso di visita — che si sviluppa in ambiente ipogeo, in parte sotto la cattedrale di San Pietro Apostolo, in parte sotto il cortile dell’Episcopio — prende avvio dal lato posteriore del podio (dalla scala di accesso, proseguendo frontalmente). Va rilevato che il tempio ha orientamento opposto a quello dell’attuale Cattedrale, ma coerente con quello della prima basilica paleocristiana (V sec. ?) di cui, infatti, può vedersi l’abside.
Nella zona absidale, due sarcofagi romani sono stati riutilizzati per sepolture cristiane, probabilmente vescovi: la tradizione vuole che quello ricompreso nell'abside sia del vescovo Benedetto, primo presule della chiesa isernina, fine del VI sec.

Tornando indietro verso il punto di accesso, si può notare parte del basolato originale, composto da ampi lastroni squadrati. Va detto che il piano stradale si è progressivamente alzato per effetto dei tanti terremoti distruttivi che, in più occasioni, hanno funestato la città.

Avendo sulla sinistra il lato lungo del podio (qui privo della doppia sagoma a cuscino), sulla destra è possibile vedere un ambiente ipogeo (il donarium del tempio?). Si notino gli elementi in pietra appartenenti al coronamento del tempio, crollati e lasciati così come rinvenuti in fase di scavo archeologico; da notare, altresì, le decorazioni policrome, con colori particolarmente brillanti.

Proseguendo, incontriamo il podio del secondo tempio, di epoca successiva — seconda metà del I secolo a.C. — e probabilmente dedicato al divo Cesare. Il tempio, più evoluto, è perfettamente orientato secondo l’asse Nord-Sud, e per questo non coincidente con il tempio maggiore. La visita si completa con il lato anteriore del tempio maggiore (proseguendo oltre la galleria).

[il testo riproduce quello redatto per la brochure realizzata dall'Assessorato alla Cultura - giugno 2010; Principale fonte consultata: Isernia / di Dora Catalano, Natalino Paone, Cristiana Terzani. - Isernia : C. Iannone, 2001.
Fotografie: Gabriele Venditti, alcuni diritti riservati.
L'area archeologica è aperta dal mercoledì alla domenica, ore 10:00/12:00 e 16:00/18:00, esclusi i festivi. Ingresso gratuito. Per informazioni: cultura@comune.isernia.it]

martedì 4 ottobre 2011

L'Auditorium ante litteram: il Teatro comunale di Isernia (1835-1855)

La fabbrica dell’ Auditorium Città di Isernia porta a riprendere storie anche più remote dei centocinquanta anni di Unità che l’opera celebra.
Non tutti sanno che a metà Ottocento, a Isernia, in Palazzo San Francesco, funzionava un teatro da 200 posti: il Teatro comunale. A ricordarcelo è Stefano Jadopi nella
sua monografia del 1858: descrivendo la città nelle sue luci e ombre, dice che nell’«antico soppresso Monistero de’ Conventuali» – Palazzo San Francesco, – «si pensò di costruire un teatro, e se ne ottenne l’autorizzazione col Real Decreto del 18 Agosto 1835; ma non si diede principio ai lavori prima del 1839, lavori che rimasero sospesi nel 1845. Fu poscia proseguito nel 1847; e la decorazione si è alla fine portata a termine a spese particolari nell’anno 1855





Nell’Archivio storico comunale (b. 122, fasc. 2000) si conservano gli atti che consentono di dare polpa alle brevi note vergate da don Stefano.
Prima del 1835 un teatro comunale a Isernia c’era già, annesso all’ «antica Casa comunale» in Palazzo d’Avalos e funzionante da « epoca bastantemente remota» , come può leggersi nella nota al Sottointendente del distretto di Isernia del 14 agosto 1847. Allorché venne decisa la vendita del Palazzotto ai Laurelli, con delibera del collegio municipale del 3 marzo 1835, l’atto venne recato, via Intendente provinciale, all’approvazione superiore del sovrano, Ferdinando II, che il 18 agosto 1835 – come già sappiamo da Japopi – vi appose, sì, la firma, ma «a condizione che si ergesse altra Casa e più commodo teatro».
La nuova sede comunale, e del teatro, fu quindi individuata in Palazzo San Francesco, fabbrica versatile che nel corso della sua storia plurisecolare ha ospitato di tutto: frati, scolaresche, ladri e amministratori (amministratori ladri?). Vengono iniziati i lavori di ristrutturazione dell’immobile – acquisito al patrimonio per effetto delle leggi murattiane – spendendo i 2100 ducati ottenuti dalla vendita del Palazzotto ai Laurelli.
Il teatro viene realizzato nel locale più ampio tra quelli che si affacciano sul chiostro dell’antico convento – per capire: è dove ora sono gli uffici dell’Anagrafe – e si sviluppa, in altezza, fino al tetto (per rimanere legati all’attualità, non c’era, allora, il solaio che fa da cesura tra Anagrafe e Sala consiliare).







Da una nota del 20 settembre 1846, spedita dal Sindaco all’Intendente provinciale, con l’invito a voler concedere la «superiore approvazione all’apertura e attivazione di questo Teatro comunale», si conosce che il teatro aveva, a quella data, «palco scenico completo e platea»; mancava solo un «acconcio ordine di palchi». Eppure, come si legge in altra nota rinvenuta nel fascicolo, «nel disporsi la cessione del locale della Casa comunale e Teatro nel largo Palazzotto al sig. Ippolito Laurelli, si stabilì che rimaneva ai cittadini conservato il diritto di costruire i palchi nel nuovo teatro che andava dal sig. Laurelli a farsi in San Francesco in sostituzione dell’antico, e che la spesa sarebbe stata da realizzarsi fra i cittadini che vi avessero voluto concorrere ».

Ma, ora come allora, la spesa per cultura non è mai una priorità dei governi. Una nota del Sottointendente di Isernia al Sindaco della città, don Stefano Jadopi, del 26 ottobre 1847, rispondendo all’ennesima richiesta della municipalità, riferisce virgolettata una missiva interna dell’Intendente: «Trovandosi costì un teatro, ove vi è costantemente agito da varie comiche compagnie, e dovendo tal locale non altro che abbellirsi (…) io non incontro difficoltà che si dia mano ai lavori di ornamento, non essendo per essi applicabile la Sovrana risoluzione che vieta l’ultimazione dei teatri incominciati e non terminati in fabbriche».
Cosa si intendesse per i lavori di ornamento non è dato saperlo. Quel che è certo è che per i palchi occorre attendere il 1855. Agli atti si conserva un progetto del 1855, a firma di Luigi de Cesare, architetto tuttofare al quale in quegli anni si commissionò quasi tutto – c’era stato il terremoto del 1805 e un’intera città andava ricostruita – dal ponte Santo Spirito, al Cimitero, all’area di nuova espansione di Santa Marie delle Grazie (La Fiera, attuale Parco della Rimembranza).
Il progetto relativo al «confezionamento pei palchi, platea e palcoscenico» reca in calce l’approvazione del sindaco pro tempore, Gaetano Mancini, apposta in data 14 aprile 1855, nonché le firme dei deputati del Decurionato cittadino con delega alle opere pubbliche: Giacinto Santoro, che sarà il primo sindaco dell’Isernia italiana, nel 1861, e Alessandro de Lellis, figlio di don Gennaro e a noi noto per i fatti di reazione del 1860. Uno stato estimativo della spesa, che si rinviene nella medesima cartella, parla di trentadue travi di quercia da infiggersi nel pavimento e usarsi per l’ossatura delle tre file sovrapposte dei palchi; di tavole di pioppo «prive di scheggiatura e bene spianate con pomice» per la costruzione dei prospetti, dei pavimenti e divisori dei ventisei palchi, che andranno ai maggiorenti della città, laddove il palco centrale – a imitazione di quanto avviene al San Carlo per Ferdinando – va destinato al Sottointendente. Tutti i legni vanno finiti ad olio, «con bassi rilievi a stucco nel fondato dell’imbugna de’ parapetti». All’interno dei palchi va invece collocata carta francese. Ai palchi si accede attraverso due scalinate laterali, con ossatura in quercia, ciascuna di ventiquattro gradini. Per quanto riguarda la platea, vanno qui collocate ottanta sedie con seditoia in paglia, spalliera e braccialetti. Totale intero, ducati 725,06.

Non si muove una pialla fino alla successiva delibera del 4 settembre 1855, nella quale il Decurionato - preso atto che la vendita dei palchi tra i maggiorenti della città ha realizzato poco più di 600 ducati (in termini di promessa a pagare), e che la rimanente cifra occorrente sarà raccolta con sottoscrizione volontaria presso chi si accontenta della platea - approva i lavori e manda all’Intendente provinciale per gli ulteriori adempimenti.
L’Intendente, da Campobasso approva a sua volta i disegni di De Cesare, autorizzandone l’esecuzione a gravare «sul fondo delle equivalente offerte volontarie», con si legge in nota del 20 settembre 1855; di tre giorni successiva è la nomina che il Sottointendente fa a Achille Belfiore in qualità di cassiere del fondo che andrà a raccogliersi tra i cittadini (è il caso di ricordare che Achille Belfiore, cinque anni più tardi, sarà nominato economo anche
dell’Ospedale militare che i savoiardi apriranno in città dopo la battaglia del Macerone, 20 ottobre 1860).
Vediamo chi sono i sottoscrittori, per 30 ducati ciascuno, destinatari dei realizzandi palchi. Ecco il Gotha cittadino, nomi noti a chi abbia scorto le cronache del 1860 (per economia, omettiamo il Don davanti a tutti i nomi): Alessandro de Lellis; Francesco Cimone; il sindaco Gaetano Mancini; Vincenzo Cimorelli; Giovanni Senerchia; Achille Belfiore; Vincenzo Apollonio; Emiddio Laurelli; Giuseppe Melogli; Antonino de Sanctis; Cosmo de Baggis; Ildefonso Abeille; Francesco Pecori; Raffaele del Vecchio e Raffaele Perna (per quindici ducati ciascuno); Gaetano Jengo; Erennio e Luigi Piccoli; ecc. ecc.
De Lellis e Jengo verranno anche cooptati dal sindaco Mancini in un direttorio che seguirà i lavori. È questo comitato ristretto, nel dicembre 1855, a firmare i contratti con le maestranze: il muratore Gennaro de Matteis, il falegname Giovanni di Pilla e il decoratore Costantino Buccini.
I lavori si concludono a giugno 1856; la spesa lievita a ducati 897,29 (un aumento percentuale tutto sommato accettabile rispetto a certe nostre moderne varianti in corso d’opera). L’ultimo atto del fascicolo è la dichiarazione (1 luglio 1856) di Giovanni di Pilla, maestro d’ascia, al quale viene data la custodia del teatro «fino a tutto l’anno cinquantotto» per il compenso di dieci carlini al mese, utilissima descrizione di quello che era il complesso degli arredi fissi e mobili: «Dichiaro io qui sottoscritto di aver preso in consegna e custodia dal sindaco, D. Gaetano Mancini, il teatro di questo Comune corredato di tre mutazioni di scene, cioè bosco, città e stanza, con due bussole di tela, dieci lumi con tubi pel palcoscenico otto chinchè [uno strano piemontismo preunitario: vale “lampada a petrolio, lucerna a più di un lume”; vd. Vocabolario Piemontese-Italiano, Ponza, Torino 1830] con campane e tubi per l’interno del teatro e otto bracci d’ottone per tre ceri ognuno, otto lumi per le scene senza tubi, sette lumi pei camerini, sei lumi pe’ corridoi; lo scenario è tutto corredato di ciò che bisogna per potere agire: nello ingresso della platea vi è un portiere [illeggibile], le sedie tutte in buono stato, ed il palco ballabile con le corrispondenti filagne per sostenerlo; il machenismo pe’ lumi è anche in istato di agire, e vi sono anche le tende da covrire [illeggibile] la buca del suggeritore nelle feste da ballo, vi esiste anche il cupolino del suggeritore di tela