martedì 22 marzo 2016

Siamo tutti bulgari. Alzecone e i suoi nel Sannio del VII secolo.


Fino alla scoperta dell’agricoltura, nessuno nasceva e moriva nella stessa porzione di Terra, tutti costretti a muoversi per mangiare; ma anche dopo che si capì come avere un spiga partendo da un chicco, molti popoli hanno continuato a transumare per sorte o costume, entrando a casa d’altri con le buone o le cattive, miscelando sangue e geni. Migrare humanum est.

Scrivo questo non per commentare gli inutili muri che ancora si vogliono erigere a distanza di mille e cinque­cento anni dalla dimostrazione della permeabilità del limes romano, ma sull’onda emotiva di una recente visita a Montecassino; tra le tante suggestioni raccolte, mi sono ricordato del brano di Paolo Diacono in cui si dice che siamo tutti – noi che viviamo qui, tra Sepino, Bojano e Isernia – un po’ bulgari (e poi un po’ saraceni, normanni, spagnoli…).   

 

Paolo, monaco cassinense, scrive la sua Historia Lango­bardorum nel triennio 787/789. Il brano in cui parla di bulgari è questo:

«In questi tempi, un capo bulgaro di nome Alzecone avendo la­sciato il suo Paese per cause che non conosciamo entrò pacificamente in Italia insieme ai suoi e si presentò dal re Grimoaldo prometten­dogli di essergli fedele vas­sallo se questi gli avesse concesso un qualche territorio tra i suoi. Così il re lo inviò da suo figlio Romualdo, duca di Benevento, con l’ordine di conce­dergli terra in cui abitare con tutto il suo popolo. Romualdo lo accolse e, ben felice, gli assegnò un vasto territorio, che allora era disabitato, vale a dire quello ricompreso tra Sepino, Boiano, Isernia e altri paesi vicini, ordi­nando che Alzecone, mutando  titolo alla propria dignità, da capo delle sue genti divenisse gastaldo del re. Così che ancora oggi, in quelle terre, sebbene abbiano adottato lingua e costumi latini conservano ancora in uso le loro tradizioni e cultura[1]

Paolo racconta di fatti risalenti a oltre cento anni prima. Questo Alzecone (Alzeco, Altzek, Alcek o come si voglia chiamarlo) era un capo militare bulgaro – vuole la leggenda, uno dei cinque figli del  khan Kubrat, Grande Bulgaro, quando la Bulgaria era in Ucraina. Per sfuggire a lotte intestine apertesi per la successione al padre, Alze­cone migrò con tutto il suo clan verso la Germania prima (dove i Franchi di re Dagoberto gli offrirono un pogrom a sorpresa) e, con gli scampati, pare meno di mille, final­mente in Italia dove si rivolse – come ci dice Paolo – al re longobardo Grimoaldo (662-671).

Questo Grimoaldo si era da poco insediato sul trono pavese, avendolo strappato a Godeperto. La cosa è un po’ complicata: era successo che alla morte di Ariperto (661) il Regno longobardo venisse diviso tra i suoi due figli, Pertarito e Godeperto,  come fosse stato un campo di fave, ognuno a governarsi la sua porzione, uno a Milano, l’altro a Pavia. Ma i due, ovviamente, volevano rubarsi l’uno le fave dell’altro e ricostituire la Longobardia maior sotto un solo re. Della cosa approfittò il duca di Be­nevento, Grimoaldo appunto, cognato terrone dei due li­tiganti, che lasciò il ducato al figlio Romualdo e partì con le truppe a conquistarsi un regno.  

 

Così, quando Grimoaldo manda Alzecone da Ro­mualdo con l’ordine di concedergli terre da abitare, cono­sce perfettamente la situazione dei territori ai piedi del Matese e di buon animo ne vede un ripopolamento per mano bulgara. Il vantaggio è reciproco: il duca di Bene­vento guadagna un fedele vassallo – e infatti, di lì a poco, lo utilizza militarmente contro i Bizantini di Puglia – e i Bulgari trovano finalmente casa tra Boiano e Isernia. È da sottolineare che la concessione di terre viene preceduta dal mutamento di dignità: Alzecone viene nominato ga­staldo, che, nell’organizzazione del ducato di Benevento, equivale a vassallo che amministri una porzione di territo­rio per conto del duca (nella Longobardia maior, invece, il gastaldo è funzionario di nomina regia – come sarà il giu­stiziere con gli Svevi – posto a controllare, in funzione di contenimento, il potere territoriale dei duchi; in altri ter­mini il rapporto che intercorre tra il rex longobardorum e i molti duchi del regno è, nei ducati di Spoleto e Bene­vento, esattamente lo stesso che intercorre tra i due duchi e i loro gastaldi).

Ora, a Alzecone vengono dati territori che usque ad il­lud tempus deserta erant . Tuttavia, parlare di terre disabitate appare eccessivo. Paolo Diacono usa certo un espediente retorico per indicare civitas che rispetto al periodo classico risultano ora scarsamente popolate, ma non deserte. An­che perché i mille bulgari a seguito di Alzecone difficil­mente avrebbero potuto ripopolare da soli il gastaldato.

Non dico nulla di nuovo: lo sosteneva già Giovan Vincenzo Ciarlanti nel suo Memorie Historiche del Sannio: «è qui da notarsi che non si debba intendere che fossero tutti dishabi­tati, ma gli giudicasse per tali a paragone dei tempi passati».

C’è stata dunque sovrapposizione e integrazione tra vecchi e nuovi abitanti, pacifica o meno non è dato sa­perlo. In ogni caso, stupra o iustae nuptiae, ci sarà stata mi­scela di sangue, piccoli protobulgaro-sanniti, àvaro-iser­nini avranno percorso ciabattando il selciato malmesso del cardo maximus ora intitolato ai Marcelli.

Già, quale Isernia trovarono i bulgari di Alzecone? Si conoscono le caratteristiche generali della città altomedie­vale nel contesto dell’Italia meridionale – e per questo ri­feribili a grosse linee anche agli abitati di Isernia e Boiano che città lo erano state già con Roma. Queste caratteristi­che vanno riassunte nello scadimento qualitativo, rispetto agli insediamenti di età romana, degli edifici privati, per i quali si registra la quasi totale sostituzione del legno alla mura­tura, con la conseguenza della riduzione della volu­metria e dell’alzato; nell’abbandono degli spazi ed edifici pub­blici, che spesso modificano la loro originaria destina­zione e, se diruti, subiscono la spoliazione dei compo­nenti architettonici per riutilizzi privati; nella “pervasività” dell’elemento “campagna” all’interno dello spazio urbano (orti e terreni incolti a fare cesura dell’abitato) e la conse­guente creazione  di più aggregati coesistenti nello spazio urbano originariamente occupato dalla città romana e in­dividuato dal perimetro murario; collegato a questo, la diffusione delle aree di sepoltura all’interno dei centri abitati.[2]

Certo i Bulgari fermarono qui il loro lungo peregri­nare. Abitarono case di legno, ma case. Umberto Eco nel Pendolo parlava di Urbanistica nomadica come disciplina uni­versitaria dell’impossibile. Qui ci andiamo vicino.

Tutto quello che sappiamo dei Bulgari molisani è per la penna di Paolo Diacono. Potrebbe trattarsi anche di uno scherzo.

No.

Negli anni ‘80 del secolo scorso, in una località chia­mata Vicenne, nella pianura di Campochiaro, (dunque tra Sepino e Bojano) vennero ritrovate numerose sepolture di cavalieri con cavallo, all’uso asiatico.

Come scrive Bruno Genito, la necropoli di Vi­cenne 

«rappresenta  un  unicum  culturale,  ad  un tempo “asia­tico” e “noma­dico” caratterizzato dalla presenza di numerose tombe con cavallo che ri­mandano ad analoghe forme di sepolture rinvenute proprio tra i popoli nomadi delle steppe Eurasiatiche (…) Non esi­stono molte informazioni storiografiche relative all’epoca altomedioe­vale nell’area del rinvenimento della necropoli di Vicenne con la sola eccezione del famoso passo di Paolo Diacono relativo alle truppe Bulgare di Alzecone arrivate nella piana di Sepino, Bojano e Iser­nia».[3]

Siamo tutti mistisangue, meticci.
È così, fuori di dub­bio.






[1] Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, a cura di L. Bethmann - G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Lang. et Italic. saec. VI-IX, I, Hannoverae 1878, p. 154. «Per haec tempora Vulgarum dux Alzeco nomine, incertum quam ob causam, a sua gente digressus, Italiam pacifice introiens, cum omni sui ducatus exercitu ad regem Grimuald venit, ei se serviturum atque in eius patria habitaturum promittens. Quem ille ad Romualdum filium Beneventum dirigens, ut ei cum suo populo loca ad habitandum concedere deberet, praecepit. Quos Romualdus dux gratanter excipiens, eisdem spatiosa ad habitandum loca, quae usque ad illud tempus deserta erant, contribuit, scilicet Saepinum, Bovianum et Iserniam et alias cum suis territoriis civitates, ipsumque Alzeconem, mutato dignitatis nomine, de duce gastaldium vocitari praecepit. Qui usque hodie in his ut diximus locis habitantes, quamquam et Latine loquantur, linguae tamen propriae usum minime amiserunt». La traduzione è mia.
[2] vd. Gian Pietro Brogiolo, Sauro Gelichi, La città nell’alto medioevo italiano, Bari, 2007
[3] Bruno Genito, Sepolture con cavallo da Vicenne (CB): un rituale nomadico di origine centroasiatica. In “I Congresso Nazionale di Archeologia Medievale. Pré-tirages (Pisa, 29-31 maggio 1997)”, a cura di S. Gelichi, Sesto Fiorentino, 1997, p. 286.




mercoledì 9 marzo 2016

Un altro primato cittadino: il colera

(dal «Western Daily Press» del 19 novembre 1884. Per gentile concessione di Chris)

Dal nostro agente sotto copertura alla British Library riceviamo ed entusiasti pubblichiamo un estratto dal «Western Daily Press» del 19/11/1884 che attesta un altro primato cittadino, certamente misconosciuto ai più: il colera, a Napoli, nel 1884, l'abbiamo portato noi.
Il primo caso di colera ufficialmente censito - come si legge nell'articolo - viene riferito, infatti, ad un carrettiere di Isernia, registrato in data 19 agosto 1884.
La sensibilità anglosassone ci nega il nome dello sfortunato concittadino untore, che è anche il primo dei 7994 morti. 

Ricordiamo che l'epidemia di colera del 1884/87 - non la prima, non l'ultima - è quella descritta da Matilde Serao ne Il ventre di Napoli (prima edizione: Treves, Milano, 1884); quella che fece esclamare ad Agostino Depretis «Bisogna sventrare Napoli!» e che portò alla realizzazione della grande arteria trasversale - il Rettifilo, Corso Umberto I - al posto dei maleodoranti bassi dell'angiporto.


(Ricordiamo, en passant, ai tanti tifosi di compagini padane che, quando insistono nel definire colerosi i Napoletani, ci devono delle royalties).