martedì 19 giugno 2012

Franco Ciampitti, Novantesimo minuto. Il primo romanzo italiano sul gioco del calcio

Pochi – credo davvero pochi – sanno che il primo romanzo in lingua italiana sul gioco del calcio è stato scritto da un misconosciuto avvocato isernino e pubblicato da “La Gazzetta dello Sport” nel 1932, anno X dell’Era Fascista e secondo del Quinquennio d’oro juventino, mesi prima che Umberto Saba pensasse alla palla maculata per le sue cinque poesie e quasi mezzo secolo avanti a quell’Azzurro Tenebra (1977) di Giovanni Arpino che la rete troppo frettolosamente accredita di un primato  che – fino a querela di falso – spetta a Franco Ciampitti col suo Novantesimo minuto [1].



  
Libro e moschetto, calcio e fischietto. Il contesto

Non più bizzarro passatempo per seminaristi inglesi[2], nei primissimi anni ‘30, il calcio parlato e giocato è già passione matura del popolo italiano: il campionato 1929-30 è il primo a disputarsi col Girone unico nazionale (la Serie A, per come la conosciamo ora), più organico alla sensibilità fascista di unità della patria rispetto alle precedenti formule divisionali che tracciavano una discriminante Gotica tra le élite del calcio settentrionale e le arrangiate schiere romano-napoletane. Il Fascismo è già entrato prepotente – qui come altrove – nel mondo del calcio. Nel 1927, per sterilizzare inopportune rivalità stracittadine, promuove la reductio ad unum tra società  presenti nella stessa città. Nascono così, per fusione, club moderni – la Fiorentina, la Roma – e fossili come l’Ambrosiana, vincitrice di quel primo campionato unitario. Resistono, invece, i due club torinesi, protagonisti, nel 1928, del primo scandalo del calcio italiano – altro sintomo della raggiunta maturità. È l’affaire  Allemandi, terzino della Juventus avvicinato da emissari granata per assicurare il risultato nel derby; scandalo modesto, quasi ingenuo se visto, in prospettiva, dagli anni di Calciopoli e a scoppio ritardato [3], intervenuto cioè quando si stava già giocando il campionato successivo. Ne seguì una pilotatissima inquisizione federale per mano di Leandro Arpinati, a un tempo presidente Federcalcio e podestà di Bologna, guarda caso squadra seconda classificata, con conseguente revoca dello scudetto assegnato al Torino.

Il rapporto tra calcio e Fascismo è, come visto, molto stretto. Il Regime, in questo lungimirante, mostra di aver ben compreso che la fascinazione popolare per il calcio, per lo sport in generale, può, deve essere usata come collante del consenso e, per altri versi, controllabile valvola di sfogo del conflitto sociale. Allora come ora, il calcio è oppio dei popoli, acquavite dello spirito. Si punta all’identificazione, anche subliminale. Sulle maglie attillate dei campioni, accanto al tricolore sabaudo che si dà alla squadra vincitrice del campionato – lo scudetto – compare immancabile il fascio littorio. La cosa funziona anche con altri sport. Nel bene come nel male, il regime s’identifica con i suoi figli sudati. I Mussolini boys alle Olimpiadi californiane del ’32. Vietato pubblicare in patria il gigante Carnera abbattuto al suolo.  

Serve, a questo punto, una mitopoiesi. In quegli anni in orbace sono molti gli intellettuali che rispondono alle sollecitazioni del Regime a impegnarsi fascisticamente a creare letteratura sportiva. Lo sport deve farsi verbo; si devono conciliare gli opposti, dopo che il Futurismo – unica avanguardia culturale autenticamente italiana del ‘900 – ha celebrato il guizzo d’atleta e il muscolo sudato come antitetici al piagato sedere degli intellettuali e predicato – non senza un’intima contraddizione, avendolo fatto su carta – il predominio della ginnastica sul libro [4]. Del resto, nello stesso anno in cui Ciampitti pubblica il suo romanzo breve, Benedetto Croce riconferma l’impossibilità della sintesi, dolendosi di come la diffusione del demone sportivo tra le masse abbia costituto, nella seconda metà del secolo decimonono, un falso ideale capace di distruggere ogni fine cultura [5].  

Così, tutta una serie di cronisti sportivi e scrittori laureati si impegna in uno stretto giro di anni a confezionare opere a tema, romanzi, poemi, e i gazzettieri ci riescono, in genere, meglio degli accademici. Sono gli anni in cui si pubblica Re Pallone (Bologna, 1933) romanzo di Bruno Roghi, direttore della Gazzetta prima e del Corriere dello Sport-Stadio poi; in cui un magistrato piemontese, Romolo Moizo, dà alle stampe la biografia futurista di un pallone di cuoio (Hansa Scrum, Milano, 1935). Prima di loro, c’era stato Osvaldo Giacomi (1931) con Storie di forti: due fratelli fiorentini, pugile l’uno, centravanti l’altro. Per tacere delle altre opere di narrativa che, in quegli stessi dinamici anni, vengono scritte sul mondo dell’automobilismo, dell’ippica, della boxe [6]. Anche le liriche che Umberto Saba dedica agli alabardati della sua Triestina sono della partita: c’è anche il suo di autografo sulla copertina azzurra della Prima antologia degli scrittori sportivi, curata dal nostro Ciampitti insieme all’abruzzese Giovanni Titta Rosa – altro esule adriatico nella Milano dell’editoria – e uscita per i tipi dell’editore Carabba nel 1934. 

«La Milano degli anni trenta» – ricorda Ciampitti in un dattiloscritto fortuitamente edito [7] – «mi aveva avvicinato ad uno scrittore di chiara fama, ad un critico competente e onesto: Giovanni Titta Rosa. Egli dirigeva allora l’attività della Casa Carabba (…), abitava in un appartamento pieno di luce in via della Spiga, dove mi invitò a pranzo molto spesso per aver modo di parlare con me. Fu lui a propormi di affiancarlo nella compilazione (…) della “Prima antologia degli scrittori sportivi”. Lavorammo intensamente ed il libro arrivò presto nelle librerie con un’originale copertina: esso ebbe buon successo di pubblico e di polemiche. Se gli ambienti letterari dedicarono un certo interesse all’antologia, quelli sportivi scoprirono che non ero il solo a raccontare i fatti di un mondo così entusiasmante e passionale. Il volume presentava ventidue nomi di narratori e di poeti tutti già affermati. A me però era toccato un primato particolare.»
Il primato cui accenna Ciampitti è di aver vinto, da principiante assoluto nel 1931, la prima edizione del concorso nazionale indetto dalla F.I.G.C., con giuria presieduta da Massimo Bontempelli. Il romanzo breve, che sarà poi pubblicato come Novantesimo minuto dalle edizioni della “Gazzetta dello Sport”, era stato presentato al certame col titolo più ermetico di Io cammino e arriverò. «Era stata una della federazioni del C.O.N.I. a bandire la competizione letteraria, destinata nelle previsioni della vigilia ad un autore di chiara fama. Non mi conosceva nessuno; nessuno poteva pensare a me

  

Il mio nome è Nessuno. Chi è Ciampitti

Questo signor nessuno nasce nel 1903 a Isernia – allora come ora, punto sulla mappa, luogo di ossimori: città a sud del nord, e a nord del sud, al centro della Penisola ma   periferica; perfetta per dare i natali a ignoti. Il padre di Franco è Giovanni Ciampitti, avvocato liberale e massone, poi deputato costituente per la Democrazia cristiana e senatore nella prima legislatura della Repubblica, tanto noto da meritarsi una voce biografica su Wikipedia. Dopo il liceo – al Fascitelli è allievo di Michele Romano – si iscrive a Giurisprudenza a Napoli, dove – come side project della carriera forense cui è irrimediabilmente destinato per calco paterno e che gli darà da vivere nel dopoguerra – approccia da avventizio il mondo delle redazioni sportive, fino alla stabile collaborazione, da cronista, nel “Mezzogiorno Sportivo” di Felice Scandone, celebre per aver cantato l’epifania del “Ciuccio fa’ tu” sulle curve partenopee. «Scavalcai ogni tirocinio quando egli scoprì che ero presuntuoso e disinvolto. I lettori non volevano resoconti aridi di tecnica e di dati, preferivano conoscere avvenimenti raccontati e vissuti come gli altri fatti della vita

Quando  le due colonne di cronaca iniziano a stargli strette, l’urgenza di «raccontare la gente» [8] si esprimerà a pagine. C’è tuttavia piena continuità tra il giornalista e il narratore: la novità portata da Ciampitti è trasfondere l’ambiente di panchine e spogliatoi frequentati per mestiere sulla pagina del romanzo. Dove gli accademici suoi contemporanei falliscono la prova perché relegano lo sport a un’occasione, un fondale su cui proiettare vicende da romanzo d’appendice e i cronisti-cronisti, di contro, non riescono a decollare dalla piattezza dell’arbitro severo e del granitico terzino, Ciampitti prova una terza via narrativa, una via «tutta sua, solitaria, che consiste nell’intrecciare e fondere insieme le ragioni umane dei suoi personaggi con la rappresentazione del loro impegno nella realtà sportiva». [9]
«[Gli] argomenti più congeniali ebbero carattere sportivo: e fu un’autentica fortuna. I primi decenni del secolo, mentre vedevano notevolissimi sviluppi dello sport, lasciarono indifferenti o quasi il mondo degli scrittori; un tale divario facilitò l’inizio della mia attività di narratore. (…) Quando la gente vide nelle librerie il mio primo romanzo forse cominciò a pensare che la narrativa italiana si era accorta finalmente dell’importanza di un giuoco che abbisognava soltanto di un pallone per scatenare entusiasmi

Si arriva, così, alla stesura del romanzo breve, che sarà poi Novantesimo minuto. Come già detto, l’opera prima di Ciampitti vince il Concorso nazionale indetto dalla F.I.G.C.;  l’ambitissimo premio è fissato a diecimila lire e, soprattutto, la possibilità di seguire come embedded journalist la Nazionale italiana di Vittorio Pozzo nel biennio successivo, epifanico della conquista della Coppa Rimet ai Campionati mondiali di Roma, del 1934.
Ciampitti è raggiante, è il treno che passa una sola volta nella vita, e lui l’ha preso.  «Avrei collezionato, come spettatore, un buon numero di divertenti avventure e di appassionanti confronti, in compagnia di comitive dei più celebrati giuocatori e dei più qualificati tecnici sportivi, senza contare i viaggi, soggiorni, eventi di altissimo interesse». Per di più – e qui viene fuori l’anima molisana – tutto questo «senza spendere un soldo di tasca mia». 
L’ingresso nel circo azzurro, tuttavia non è dei più facili. I soggiorni in ritiro sono reclusioni in alpeggio, dove il massimo del divertimento è cantare Ta pum: Pozzo è stato tenente degli alpini nella Grande guerra, fascista di regime, non di rivoluzione  – il che significa «uno che apprezza i treni in orario ma non sopporta gli squadrismi» [10], né la goliardia del s’è mangiato, s’è bevuto e s’è scopato[11] . Ciampitti è un outsider, per di più meridionale in una compagine che – a parte il romano  Ferraris e i molti oriundi latinoamericani – vede gli altri nati oltre la linea del Po. Ci sarebbe per la verità pure un abruzzese, Mario Pizziolo, che però preferisce dirsi fiorentino; a rivelare la cosa è proprio il giornalista: «Che nella Nazionale azzurra Pozzo avesse ficcato un abruzzese, non lo sapeva nessuno, ma a Capodanno sono giunti tanti telegrammi da Pescara, che Pizziolo ha dovuto confessare. Altro che Toscana! Pizziolo è dell’Abruzzo forte e gentile[12] 
Il giornalista embedded ha accesso a tutte le indiscrezioni. «Presero a considerarmi amico e io feci del mio meglio per confermarli nella loro opinione. Nei servizi giornalistici che curavo, le loro previsioni, le loro confidenze mi fornirono sempre primizie interessanti ed agevolarono costantemente il mio lavoro».

Per tutti gli anni ’30, Ciampitti scrive di sport, da giornalista e novelliere.  Il suo secondo romanzo – Cerchi, edito da Carabba nel 1934 – sebbene mediocre, e più vicino al feuilleton, sarà scelto a rappresentare la narrativa italiana alle Olimpiadi di Berlino del 1936, quelle di Goebbels e Leni Riefensthal, che  Ciampitti incontrerà annotandone «la semplicità [del] sorriso, che ai lineamenti marcati dà un’espressione di luminosa dolcezza» [13]. Gli appunti presi nel suo soggiorno berlinese daranno vita a Campioni del mondo, una raccolta di idealtipi d’atleta che, pur vincendo il Premio San Remo per la narrativa sportiva nel 1940, rimarrà inedita, come orfano di editore rimarrà anche lo scomodo La rete bianca, del 1940, in cui si racconta, sì, di automobilismo e Mille Miglia intrecciandone però le vicende a sanatori e malattia di mente. La rete bianca – che è quella che separa i sani dai malati, nell’Ospedale psichiatrico di Cogoleto – riceverà il secondo piazzamento al concorso letterario indetto da “Il Popolo di Brescia”, dovendo cedere il primo perché, sostanzialmente, non allineato ai dettami del Min.Cul.Pop. Cotronei, a capo della giuria, dirà nella motivazione del premio: «Franco Ciampitti ha offerto un romanzo denso e originale, ma non ha letizia né luce. Si tratta di un’avventura dolorosa [in cui] le ferneticazioni, i patimenti, gli incubi le illuminazioni improvvise affermano le doti dello scrittore, ma dicono anche che il suo sport è più nero che roseo; certamente non fonte di ottimismo e di dinamismo.»


Novantesimo minuto. La solitudine del terzino sinistro

Inorganico all’idea fascista di sport – come «fatto di agonismo e militarismo, di azionismo e spettacolarità massificata» [14] – è, se si vuole, anche Novantesimo minuto, romanzo del disagio interiore e della solitudine che affligge il calciatore di terza linea chiamato a giocare contro la sua squadra, contro la sua città, sotto gli occhi della sua ex.
Nel calcio d’antan, il terzino è un killer ruminante asservito al catenaccio che pascola sulla trequarti in attesa di frangere altrui tibie e peroni. Osserva il Codice Rocco (Nereo, non Alfredo): «Colpisci tutto quello che si muove a pelo d’erba. Se è il pallone, pazienza».  Mario, invece, protagonista del romanzo di Ciampitti, che ci coinvolge nel suo monologo interiore à la Schnitzler – come rileva Bontempelli nell’introduzione alle due edizioni italiane, 1932 e 1960  [15] – è un terzino sui generis, malinconico e deponente. Mario è un proletario romano non pasoliniano, che il calcio ha elevato a certa fama nazionale, sebbene transeunte, e che dopo aver giocato con successo nella Fortitudo [16], dopo essere diventato intimo del presidente Vandelli e dei suoi figli – Walter, giocatore mediocre che deve al cognome il suo posto in squadra; e Marta, che con lui amoreggia, gioca al gatto e al topo, lo illude fino a determinarne l’imbarazzante richiesta di matrimonio, platealmente rifiutata – viene scaricato a un club milanese, la Juventus [17], e deportato in quella metropoli del Nord. Questo e altro lo si apprende come antefatto, poiché il romanzo – in questo molto moderno – si svolge tutto in una domenica capitolina di campionato, dalle otto alle sedici e quarantacinque.


Novanta minuti in uno solo (sinossi & florilegio)

Mario si sveglia nella cattività dell’albergo, dove divide la stanza con Lewis, il mister, fermamente deciso a non scendere in campo contro i suoi, quelli della Fortitudo, Vandelli padre e figli.

«– Chi lo ha rotto?
L’allenatore che sta rovistando nella valigia ha tirato fuori dalla guaina di cuoio lo specchio che è rotto. Mi stringo nelle spalle, chè non so nulla e resto muto. Ecco un cattivo presagio!
 – No, mister, io non voglio giuocare oggi.
Lewis rimette piano l’oggetto al suo posto, si volge a guardarmi e viene verso di me. Sono in piedi presso il vano della finestra e per darmi un contegno guardo gli alberi del giardino fatti più verdi dal sole già alto.
Sento la mano di lui sulla mia spalla, così come mi par di sentire su di me il suo sguardo.
– Mario…
Lewis mi chiama per nome quando deve dirmi una cosa importante.
Parla, parla, amico, quando avrai finito, ti ripeterò la mia decisione, ti annunzierò di nuovo che non voglio giuocare.»

Se deciderà di giocare sarà solo dopo aver visto i giornali del mattino, sui quali legge un’intervista all’ex presidente in cui viene chiamato con disprezzo “il fabbro di San Lorenzo”. Sul punto, Mario ha i nervi scoperti: sente ancora aperta la ferita del rifiuto di Marta, dovuta proprio alle sue origini proletarie.   
Alle quindici è negli spogliatoi. Ciampitti ci riporta la fotografia di un atleta di altro secolo.

«Sulle calze metto i parastinchi, poi i calzettoni e poi le cavigliere. Prima di calzare le scarpe, muovo il piede in modo che si adatti bene nella stretta elastica delle cavigliere. Quindi mi metto le scarpe e cammino un poco prima di legarle con la fettuccia bianca, che passa negli occhielli e gira sotto la pianta due o tre volte, prima di essere annodata intorno alla caviglia. Uso sotto la maglia dai colori sociali una canottiera di lana bianca e niente altro. Dopo aver messo il sospensorio, infilo il calzoncino che un elastico mi assicura alla vita. Ho bisogno di ravviarmi i capelli prima di stringere attorno al capo un fazzoletto bianco, che lego dietro l’occipite. Così la mia toeletta di gioco è completa.»

Entrano in campo. Mario incrocia lo sguardo di Vandelli figlio, che gli era amico fraterno, e ora è idolo polemico. La scena viene costruita efficacemente, procedendo dall’interno verso l’esterno, con un rapido ribaltamento nel finale, in cui si sterilizza l’odio di Mario nell’ipocrisia decoubertininana della stretta di mano e scambio dei gagliardetti.

«Qualche stretta di mano viene scambiata, e l’arbitro chiama i capitani: due nomi detti con rapidità, nel silenzio che d’improvviso si è fatto: il mio e quello di Vandelli.
Fo un passo e sono davanti al capitano della Fortitudo. Mi sembra di essere solo, assolutamente solo, di fronte a Walter Vandelli. L’arbitro, i compagni, la folla sono spariti d’incanto, lasciandoci soli col nostro insanabile odio. (…)
Odio te e tuo padre che un giorno mi mise alla porta, mi scacciò come un cane e gridava il disprezzo per me, ch’ero un fabbro.
Odio. Odio anche quella tua cattiva sorella , che sembrava bruciasse d’amore ed invece preparava una beffa, che sapeva tanto baciare e poi, una sera, rideva chiamandomi pazzo.
Ecco… ora… io… e…
Ma che vuole quest’arbitro?
Ci ha messo le braccia sulle spalle e ci avvicina.
Io non ho ascoltato le parole che diceva in principio, ma ora le sento, le intendo. Egli dice che lo sport è un campo fatto per gli uomini leali. Per incontrarsi su quel campo, bisogna dimenticare i rancori. Distruggere ogni ruggine e battersi a viso aperto, serenamente.»

Alle quindici e quindici, il calcio di inizio. Comincia la partita, decisiva per le sorti del campionato. Lo stile narrativo è asciutto, mimetico di una radiocronaca.

«Castellani tocca la palla e la lascia a Benelli. Un colpo di tallone la manda indietro a Bianchi. Il mediano attende da fermo Munegati e poi allunga a Viotti, che fugge lungo la linea, pressato da Fanelli.»

Siamo a metà del romanzo. Le cento pagine che seguiranno, sono tutte per la partita: si alternano monologo interiore e descrizione puntuale delle concitate fasi di gioco, in chiasmo.
Mario tocca la sua prima palla. Contro di lui – infame, venduto – bordate di fischi, che «entrano in testa, dànno fastidio, ma non mi turbano»; e però è distratto, lascia che il gioco si svolga lontano dai suoi piede, dalla sua testa. Cerca Marta sugli spalti, là dove l’ha sempre vista salutarlo durante altri incontri, ma non c’è.

«Lonati ferma Vandelli e mi lascia il pallone sul quale piomba Guarnisi. Ma gli rubo il tempo (…) allungo a Faldi, che dribbla il mediano e fila lungo la linea…
Può darsi che…
Marta…
È qui… vicinissima, appoggiata alla rete di ferro che cinge il campo… è qui… l’ho vista, l’ho riconosciuta. Io lo sapevo che sarebbe venuta , che non poteva mancare… la guardo: ha un sorriso sprezzante che dà più fredda luce al suo viso. (…) Ma è bella… Dio!, com’è bella!... Io la guardo e…
      – Mario! Mario!
Dove? Dove? Qui? Lì?
Ma dov’è il pallone?... Ah! Carpi… Ma Carpi è fermo e Guarnisi è passato. 
Ma perché Cardeni non para Munegati…»
La Fortitudo va in rete. Colpa di Mario, della sua distrazione. Si riprende, cerca il riscatto: doppiamente ferito nell’orgoglio, dà il massimo, spinge, suda; sa di giocare sotto gli occhi di Lewis, dei suoi compagni di squadra, soprattutto sotto quelli, freddi, di Marta. L’odiata, amata Marta. 
Nulla da fare: il primo tempo si chiude sotto di un gol.
Nella ripresa, la Juventus ottiene subito il pareggio.

«L’incontro ritorna sulla linea di partenza, riprende tutta la sua incertezza».

Il riscatto passa per la presa di coscienza di ciò che si è.

«… che si sappia che io mi sono battuto come una belva, che si dica che se abbiamo segnato e se segneremo ancora si deve a me. Infatti nessun uomo dell’attacco ha dovuto ripiegare per difendere e la nostra mediana sovlge quasi esclusivamente un indiavolato lavoro di sostegno: sono otto uomini schierati in permanenza di fronte alla rete romana (…).
Ecco: Lewis ci ha detto di insistere con le finte a sinistra ma di manovrare a destra le azioni risolutive… e va bene… ma … bisogna attaccare, attaccare, non dare respiro all’avversario (…) Tutto questo è stato possibile, sarà possibile perché io sto a metà campo.
Bisogna aver fatto del foot-ball per sapere che cosa significhi un terzino a metà campo. Vuol dire dare del coraggio ai propri compagni, dell’avvilimento agli avversari, costringere questi a lavorare con precipitazione, con orgasmo (…)
Ma per questo lavoro il terzino deve essere di classe, perché ogni tanto sboccia da periodi siffatti uno spunto, uno scatto, una folata che può essere pericolosa per la sua porta. È in questi casi che brilla la classe del terzino: la prontezza dell’istinto, la tempestività dello scatto, la velocità degli spostamenti, la caparbietà dell’uomo, la calma sul pallone, la sicurezza nel dribbling, la potenza dei rimandi, l’astuzia nei passaggi, lo sconcertante lavorìo delle finte, tutto occorre in un uomo che giuochi in terza linea. E se ne hanno di soddisfazioni a fare il terzino: siamo due soltanto e gli attaccanti sono cinque.»

Tanto premere porta al risultato. Si arriva al gol del vantaggio – «Faldi, Faldi vieni, ti voglio baciare…» –  ma la stanchezza inizia a mordere lo stomaco, si fa saliva acre nella bocca, schiuma da cavallo sfiancato. Dalla panchina si avvicina Lewis, e dà a Mario qualcosa (droghe? Nel mondo del calcio? Suvvia…).

«Ma che cosa ho bevuto?
Il dolore è finito ed anche la stanchezza scompare. Rifluisce nei muscoli attossicati dalla fatica un vigore nuovo. Respiro. Non ho più l’affanno: respiro e mi sembra di essere leggero, fresco, come quando sono uscito dal sottopassaggio. La tua medicina mi ha risotrato , si direbbe tu mi abbia fatto rinascere…
Ma cosa ho bevuto?»

Ore sedici e quarantacinque. Incontro, e romanzo, volgono al termine. Resta da battere un calcio d’angolo.

«Corner, ecco il pericolo, ecco l’insidia.
(…)
Siamo pronti. Carpi ha messo il pallone nell’angolo e attende il fischio dell’arbitro. Intorno si è fatto silenzio: la folla si è ammutolita di colpo. Si direbbe che preghi. Anche noi siamo muti, pronti alla difesa, guardinghi, coi visi trasformati dalla fatica e dall’impegno. Per i romani, questa si può considerare l’ultima carta da giuocare. Per noi rappresenta l’ulltimo ostacolo da superare.
(…)
Il tiro è scoccato, vedo la palla ingrandirsi, arrivare… levatevi… è mia…
(…)
Scatto, mi scompongo nella disperata, rabbiosa, violenta folata e sono sul pallone, arrivo e un ultimo balzo…arrivano… in tre… anch’essi arrivano… vogliono la palla… la pa…
Ahi!... Mamma mia… le gambe!
Per carità, per carità fate piano… Ahi!...Sì, è la sinistra… la gamba… sinistra… ahi! Non la toccate… non toccate il ginocchio… non toccate la caviglia… Signor Paredi… mister Lewis… dite che facciano piano… ma chi è che mi fa male?... ma chi è che mi tocca?... In nome di Dio… lasciatemi stare… una barella? E per chi?»

Niente da fare, ginocchio e caviglia rotti. Fine della carriera professionistica e fine del romanzo.


Il primo romanzo in lingua italiana sul gioco del calcio

Noventesimo minuto, si è detto, dà al suo autore certa notorietà, e fino all’entrata in guerra dell’Italia, fino alla caduta del Fascismo, Ciampitti sarà impegnato più o meno intensamente con l’editoria. Il diritti del romanzo vengono ceduti per edizioni in Germania, Olanda, Romania (dove verrà ristampato fino a tutti gli anni ’40), Polonia, Cecoslovacchia, Spagna, e contatti vengono presi anche per un edizione nel florido mercato anglosassone. Peccato che non se ne farà nulla, così come, alla lunga, timida deve essere stata pure la risposta del mercato italiano, se è vero che è datata giugno 1934 una nota della «Gazzetta dello Sport» che invita Ciampitti al riacquisto dell’invenduto – 1900 esemplari, per £. 2,00 a copia  – nella migliore tradizione, anche ventura, dell’editoria italiana in cui è l’autore il primo limone da spremere [18].
Negli anni ‘60, con Ciampitti tornato mansueto nell’alveo della provincia e impegnato in incarichi di sottogoverno democristiano (sarà presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo di Campobasso)[19], Novantesimo minuto tornerà a fare fuoco di paglia per i tipi della Vito Bianco Editore, presentato nelle rare veline pubblicitarie come “il drammatico romanzo di un giocatore indeciso”.





Note al testo.

[1] Franco Ciampitti, Novantesimo minuto - Romanzo vincitore del primo premio nel concorso Nazionale bandito dalla F. I. G. C., prefazione di s. E. Massimo Bontempelli, Milano (La Gazzetta Dello Sport Edit. Tip.) 1932.
[2]«Italia piccola e triste, carica di monumenti in redingote, nella cui capitale il gioco del calcio, italianissimo, dovevano essere i primi a giocarlo, con gran fuga di bambinaie e contravvenzioni di guardie municipali, i seminaristi inglesi, nei prati di Villa Borghese». (Orio Vergani, prefazione a Vita al sole, antologia di racconti di
Emilio De Martino, Milano, 1929).
[3] Marco Sappino (a cura di), Dizionario del calcio italiano, Milano 2000, p. 1669.
[4] Programma politico futurista (pubblicato su Lacerba, 15 ottobre, 1913).
[5] Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1932, pp.298-303.
[6] Un esempio si ha in Io povero negro, di Orio Vergani, edito da Treves, Milano, nel 1927 e che racconta la vera storia di Battling Siki, boxeur senegalese, e dell’opportunità che gli è offerta di stendere al tappeto il campione del mondo Georges Charpentier (Rocky Balboa non si è inventato nulla).  
[7] Per questo e per gli altri corsivi senza indicazione di nota che seguono nel testo, vd. Giambattista Faralli, Franco Ciampitti, Isernia 1998, pp. 22 e ss..
[8] Giuseppe Caroselli, Franco Ciampitti – La memoria, la pagina, Campobasso 1990, p. 76: «Su un cartoncino giallo (…) trovo vergata dalla sua mano ferma (…) questa bellissima e compiuta definizione del suo lungo cammino attraverso i sentieri della narrativa: “la vocazione essenziale: raccontare la gente»
[9] Giuseppe Caroselli, Op. cit., p. 39.
[10] Giorgio Bocca. Pozzo, Meazza e Piola. L'Italia a misura d'uomo. «La Repubblica», 7 luglio 2006.
[11] Cito il gerarca toscano di Film d'amore e d'anarchia ovvero: stamattina alle 10, in via dei Fiori, nella nota casa di tolleranza… (Lina Wertmuller, 1973) interpretato magistralmente da Eros Pagni: «Bella giornata, perdio:  S'è mangiato, s'è bevuto, s'è riso... S'è ruttato, s'è scopato, scorreggiato... s'è cahato... Occosa vuoi di più, eh? Iè la domenica ideale».
[12] Franco Ciampitti, Con la carovana azzurra a Bologna, «Mezzogiorno Sportivo», gennaio 1933.
[13] Giuseppe Caroselli, Franco Ciampitti – La memoria, la pagina, Campobasso 1990, p. 116.
[14] Giambattista Faralli, Franco Ciampitti, Isernia 1998, p. 55.
[15] C’è nel prefatore l’aristocratico distacco del letterato verso il giornalista sportivo: «Ciampitti ha avuto l’audacia d’inquadrare in una tecnica monolighista alla Schnitzler (“La signorina Elsa”, ma son certo che non la conosce) (…) quel supremo raggiungimento di sanità e azione e equilibrio che è lo sport, e specialmente uno sport ultragonistico e collettivo quale il giouco del calcio».
[16] Una squadra di questo nome c’è stata davvero a Roma negli anni ’20 del Novecento,  ma nel romanzo credo stia come nome di fantasia.
[17] Anche in questo caso, un club milanese chiamato Juventus è esistito davvero, ma credo che, come per l’antagonista Fortitudo, Ciampitti abbia voluto usare un nome di fantasia.
[18] Giambattista Faralli, Franco Ciampitti, Isernia 1998, p. 48, in nota 18.
[19] Non può tuttavia tacersi l’ottima prova narrativa de Il Tratturo, Napoli, 1968 su tematiche completamente diverse, di riscoperta del primitivo mondo dei pastori transumanti.


martedì 12 giugno 2012

Isernia, settembre 1943. Una testimonianza arrivata via email

Pochi giorni fa ho trovato nella casella di posta elettronica della biblioteca la preziosa testimonianza che - con il permesso dell'autore, Enzo Visaggio - decido di rendere pubblica. È presto per anniversari - nel 2013 saranno settanta gli anni che separano le macerie morali dell'attualità da quelle reali del settembre 1943 - tuttavia la conservazione della memoria è esercizio che necessita di allenamento costante, non soltanto a scadenze fisse.
Per rispondere a una domanda che si trova nella lettera, le missioni di bombardamento su Isernia furono diverse e non soltanto nella giornata del 10 settembre, importante perché prima, ma non unica. Gli Alleati colpirono la città nei giorni 10, 11, 12 e 16 settembre, e da ultimo, trovandola tragicamente deserta, il 15 ottobre.Una bibliografia elementare sui fatti che ci occupano non può non partire dal volume di Giuseppe Caroselli (12° uragano su Isernia, Roma 1968), per passare alle testimonianze raccolte da Pasquale Damiani nel suo Il bombardamento di Isernia (Isernia, 1993); il catalogo della mostra  La seconda guerra mondiale e i bombardamenti del 1943 nelle carte del Tribunale di Isernia, a cura dell'Archivio di Stato
di Isernia (Isernia, 2007); il volume collettaneo edito da Iannone e curato dal prof. Cerchia, Il Molise e la guerra totale (Isernia, 2012).




«Sono un vecchio napoletano di 85 anni ed abito da più di quindici  a Tolentino ma nella mia vita di lavoro (dal 43 al 96) ho toccato differenti parti d'Italia. Avendo  mio padre avuto due sorelle a Campobasso, l'una sposata Guacci e l'altra Ciaccia, trascorrevo buona parte delle vacanze scolastiche estive presso i miei zii, in felice compagnia con i cugini. Mio padre, che era rimasto vedovo dopo meno di dieci anni di matrimonio, sposò in seconde nozze nel 40 una Gigliani, allora residente a Napoli con la famiglia ma originaria di Agnone; il padre era stato orefice, ed una sorella era sposata ad Isernia, se non ricordo male, in Ruggiero.
Quando nel 42 i bombardamenti a Napoli cominciarono ad intensificarsi, la mia matrigna col figlioletto di meno di due anni sfollò ad Isernia insieme a sua madre ed alla famiglia del fratello, avvocato Armando. prendendo alloggio in due diversi appartamenti ma rimanendo in contatto. Io frattanto, con la chiusura a tempo indeterminato delle scuole di Napoli fin dal Natale di quell'anno, ero tornato a Campobasso. L'11 settembre del 43, un mio zio, Gianbattista Ciaccia, ingegnere del Genio Civile, essendo pervenuta la notizia del bombardamento di Isernia, vi si recò col l'intenzione di fare una ricognizione dei danni supponendoli quantificabili. Sapendo dei miei parenti, mi avvertì ed io andai con lui. Naturalmente, avvicinatici al piazzale anteriore della vecchia stazione ferroviaria (esiste ancora?) ci dovemmo arrestare per l'impraticabilità della strada. Ci lasciammo subito perché io cercavo qualcuno che mi desse informazioni su dove ritrovare i miei parenti, mentre lui  si dovette ben presto arrendere di fronte alla enormità delle rovine. Ritrovati, non senza difficoltà i parenti, tutti fortunatamente illesi, stavamo percorrendo la vecchia statale che scorre lungo il lato ovest della città, quando, era verso mezzogiorno, il mio orecchio già avvezzo avvertì l'avvicinarsi della formazione aerea. Lanciai l'allarme e tutti  ci appiattimmo a terra in attesa delle nuove bombe. Che arrivarono nel giro di meno di un minuto ed io riuscii a vederle ancora in cielo cadere come tante gocce d'inchiostro schizzate via da altrettante stilografiche (allora si usavano e lo schizzo spesso si verificava quando la penna smetteva di scrivere e  la si scuoteva come si è fatto fino a poco tempo fa col termometro a mercurio prima di infilarlo sotto l'ascella).




Mi permetto queste spiegazioni perché ritengo Ella sia giovane e non conosca i vecchi arnesi di un tempo.
Riepilogando: ci accampammo in basso in un pagliaio ben oltre la periferia sud (di allora) della città e, se non ricordo male, ci fu ancora, nei giorni successivi, almeno un' altra incursione.  Erano formazioni di  24, ma forse 36, quadrimotori che arrivavano da sud ovest ad una quota  intorno ai 3000 metri e, avendo come obbiettivi sia la strada che correva ad ovest, sia la ferrovia che stringeva da est a meno di un chilometro l'una dalla altra, riuscivano più che altro a colpire al centro cioè sull'abitato. Per quanto riguarda i miei parenti,  mio zio, non so come, avverti qualcuno ad Agnone che venne dopo circa una settimana con un traino equino su cui montò tutta la famiglia Gigliani con le poche masserizie recuperate riportandoli, non so dopo quante ore o giorni, al paesello natio, dove poi, nell'inverno, ebbero nuove vicissitudini.
Io, percorsi a piedi la statale per alcuni chilometri  e alla stazione di Pettoranello trovai miracolosamente un treno che dopo alcune ore partì per Campobasso, quasi vuoto e la raggiunse come Dio volle prima di sera.
Ora la mia perplessità è la seguente: su internet trovo una serie di notizie sul " bombardamento di Isernia eseguito il 10 settembre 1943" come se di azioni di quel tipo ve ne fosse stata una sola. Mentre io invece ricordo sicuramente quello del giorno successivo che peraltro fece allontanare definitivamente quei cittadini rimasti sul posto, magari con la speranza di essere lasciati in pace per poter salvare qualche familiare rimasto ancora vivo sotto le macerie.
Da quel pomeriggio le rovine di Isernia si accrebbero ma soprattutto rimasero deserte come un vecchio cimitero abbandonato anche se i morti che si si sono poi contati  sicuramente non lo erano ancora tutti. Dopo il secondo, ve ne fu almeno un'altro, se la memoria non mi inganna.



Le ho scritto questa lunga lettera, che spero non l'abbia annoiata, perché credo che debba esistere almeno un testo ben documentato che raccolga le notizie certe su quelle tragiche giornate che videro distrutta una città e più che decimata la sua popolazione senza che in quei tristi tempi se ne fosse potuto diffondere lo scandalo. (...)»

(fotografie: Isernia, 1944. Imperial War Museum, Lambeth Road, London)

martedì 5 giugno 2012

«Fútbologia». Il calcio fa bene non soltanto alle ossa.


Su Carmilla on line si parla di Aesernia Calcio.
Se ne parla per lanciare «Fútbologia», festival internazionale e internazionalista per ripensare il calcio. 
Facciamo rimbalzare qui la palla, per i nostri sei lettori quotidiani.



ZZ III
di Christiano "Christo" Presutti


Ricorreva il terzo anniversario della fine della guerra.
Tre anni esatti dalla firma del trattato di pace mondiale di Berna. In ogni città erano celebrazioni e sommosse, messe cantate e masse suonate.
Sempre in quel giorno si concludeva la prima edizione del campionato continentale di Lega Grande Europa.
Era il giorno numero 171, correva l’anno 62 Dopo Breivik.
Una partita da giocare, tre squadre in testa alla classifica con gli stessi punti: Sa Zoventude Nuova Cagliari, Das Kapital Duisburg e Aesernia Calcio.
A Podgorica, fuori dallo stadio, si contavano otto morti.
Dentro lo stadio, sotto i riflettori, l’Aesernia Calcio incontrava i Montenegro Killers, la squadra locale in lotta per la retrocessione. Da sempre, da tutti, considerati avversari mortali in casa.
Già da molto tempo prima che la partita fosse iniziata, i tifosi del Montenegro scagliavano bulloni e mazze di ferro contro l’acciaio della panchina blindata degli ospiti. Zdeněk Zeman III, con tipica espressione imperturbabile, sembrava ignorare quel frastuono.
Lo sguardo monocolo fissava il campo da gioco blu cobalto, il volto era illuminato dal basso dai riflessi delle strisce laterali al neon. L’occhio destro era coperto da una benda nera per celare il vuoto lasciato dalla guerra, aveva il collo immobile e non voltava mai la testa. In effetti l’unico movimento del corpo era quello dell’occhio sinistro, che seguiva ora la palla, ora i giocatori, a volte altro, nel vuoto, i suoi pensieri al tempo stesso lì e altrove.
La sirena del calcio d’inizio risuonò marziale a coprire il chiasso dello stadio. I cinquanta arbitri in tenuta antisommossa sfoderarono i manganelli e la partita ebbe inizio.
A quel punto Zeman III portò lentamente la mano alla bocca e mosse appena le labbra. Aveva acceso la prima delle sue Lucky psichiche senza filtro e sbuffò via una nuvola di niente dalla bocca semichiusa.
Io, molto più anziano di lui, sedevo sull’altra panchina.
L’ultima partita – ancora una – alla guida dei miei Killers.
Il gioco non catturava la mia attenzione. I giocatori giocavano, gli arbitri menavano, io continuavo a fissare il mio avversario. Nel farlo, scorrevo a mente le foto, i libri, i disegni, i ritagli: tutti i reperti vintage da collezione che riguardavano il suo celebre antenato e che conservavo da anni. Non permettevo a nessuno di toccarli. A chi mi chiedeva di vederli, a chi voleva saperne qualcosa, semplicemente li raccontavo, li elencavo a memoria, con attenzione ai particolari.
All’inizio, quando avevo preso a farlo, pensavo che potesse servire a qualcosa. Nessuno mi aveva mai dato retta.
Oramai, per quanto perseverassi in questo mio rituale, esso avveniva nella tipica inerzia delle cose che, quando si è avanti con la vita, si continuano a fare anche se si è smesso di crederci da tempo, come andare in chiesa senza avere più religione, come scopare una donna che non si desidera più, come insegnare calcio quando il calcio – quello che tu pensi debba essere il calcio – non esiste più da tempo. Cenere.
Da lì a poche ore sarei morto. A partita finita sarebbero stati i miei stessi giocatori a uccidermi nello spogliatoio. Questo avrebbe permesso loro di presentare una vendetta consumata e, in questo modo, salvarsi la vita dai tifosi inferociti per la retrocessione.
Io lo sapevo, gli sarei andato incontro, glielo avrei lasciato fare. In verità speravo che i miei giocatori trovassero la salvezza e io la mia salvazione.
Ma il buio era sceso da prima della guerra.
Nessuno, in realtà, si sarebbe più salvato.