lunedì 21 febbraio 2011

Una Guida che non guida - La San Giacomo templare erroneamente collocata.

Nella Guida all'Italia dei Templari, quando si parla di San Giaco­mo del Tempio di Isernia, la si colloca nella «piazzetta di Sant’Angelo, detta oggi di San Giuseppe». In assenza di fonti che attestino una precessione della com­menda lungo Vicolo Storto Castello, spostare in Sant'Angelo ciò che notar Carlucci colloca - come già detto - «di rimpetto al vicolo che condu­ce a San­t'Angelo», costi­tuisce un errore. L'inesatta localizzazione si deve, probabilmente, ad un frainten­dimento delle parole usate dal notaio, che pure il compilatore della scheda su San Giacomo mostra di aver letto, considerato che il volume di Erman­no Turco – unico a trascrivere integral­mente il cabreo notarile conservato nell'Archi­vio capitolare – viene citato nella bibliografia della Guida.
Se l'ingresso del palazzino era, nel 1745, «di rimpetto al vicolo che condu­ce a San­t'Angelo», la commenda doveva aprirsi sull'as­se viario che, allora come ora, unico at­traversa la città – sto parlando dell'attuale Corso Marcel­li – nel punto in cui si ha di fronte l'imbocco del vicolo che porta a Piazza Sant'Angelo (Vico Storto Castello).
Ulteriore prova è fornita dal riferimento al «pozzetto col jus del­l'acqua»: a rileggere la descrizione del notaio Carlucci appare evidente che la presa d'acqua posta nel cor­tile della commenda attingeva la stes­sa «dalla con­dottiera, seu viale dell'acqua della città»; ebbene, ab urbe condita, il trac­ciato dell'acquedotto, dentro la cinta muraria, segue l'anda­mento della strada principa­le, tradizionalmente identificata con il locativo Piazza e, dal 1870, Corso Marcelli. In nessun modo potrebbe ritenersi che il pozzetto vada identifi­cato con la fontana pubblica posta al centro di Piaz­zetta Sant'Angelo, che è, invece, solo della fine dell' '800,
«allorquando fra il 1893 e 1897 fu re­staurato e rifatto l'intero acque­dotto e fu allargata la rete idrica a tutte le piazze e ai vicoli interni» (F. Cefalogli).
L'errore che la Guida compie – e che taccia inevitabilmente di approssima­zione l'inte­ro contenuto della scheda – ingenera ulte­riori frainten­dimenti quando riferisce come appartenenti a San Giacomo le mura delle costru­zioni che insistono su Piazzetta San­t'Angelo. Continuando nella lettura del­la scheda, sotto la ru­brica Che cosa rimane, si sostie­ne, infatti, che «di San Giaco­mo restano ancora tratti di mura antiche sia nella piazzetta che nello strapiombo sulla strada sottostante (l'anti­ca via che scendeva da Roccaraso). Nel tratto di vecchie mura che de­limita un lato della piazzet­ta, in antico il cortile della precettoria, si può ancora vedere parte del “palazzino” dove allog­giava un elegante portale cinquecentesco»Non si comprende dove, e in che cosa, gli autori della Guida abbiano volu­to vedere e riconoscere i descritti resti del Palazzino. Chi conosce Piazza Sant’Angelo – va detto en passant che il locativo non compare nella topo­nomastica ufficiale (che vi vede solo uno slargo del Vico Storto Castello) ma certo esiste in cordibus – sa che la stessa è delimitata, oltre che dal vi­colo a oriente, nel tratto a sud, dal muro di fabbrica del­l’antica chiesa di San Giuseppe; nei rimanenti tratti a occidente e settentrione, dall’o­riginale alternarsi di vuoti e pieni delle case a schiera poste là dove tradizionalmen­te si vuole esistente il Castello longobardo. Non è dato sapere dove il com­pilatore della guida abbia visto alloggiato l’elegante portale cinquecente­sco dell’asserito palazzino. Allo stesso modo, le mura antiche viste nello strapiombo sulla strada sottostante pos­sono al più essere quelle della cinta muraria cittadina, nella ricostruzione presumibil­mente intervenuta dopo che Federico II, nel 1223, ordinasse la distruzione totale delle mura della città.
Non c'è nessuna antica via che scende da Roccaraso: la strada sottostante a piazzetta S. Angelo, via Occidentale, tangenziale ante litteram alla città, fu aperta alla metà dell'Ottocento allorché si comprese che il budello di Cor­so Marcelli – colmo per lungo tempo delle macerie del sisma del 1805 – costituiva una innaturale strozzatura.

(Foto: 1.
«di rimpetto al vicolo che condu­ce a San­t'Angelo»; 2. «(...) vicolo che condu­ce a San­t'Angelo»; 3. «piazzetta di Sant’Angelo, detta oggi di San Giuseppe». Le foto sono mie. Se le utilizzate, citate la fonte: si vive di piccole soddisfazioni.)
.

giovedì 3 febbraio 2011

Templari a Isernia. 1745, 1373

Prima che si mobilitino Giacobbo ed emuli cazzari con sindoni, graal e bafometti, occorre chiarire che per la storia di San Giacomo del Tempio di Isernia, commenda urbana dei Cavalieri Templari della primissima metà del XIII secolo (forse), l'unico mistero templare da chiarire e se sia davvero esistita.
Partiamo dal certo, e facciamo un lungo salto in avanti. La descrizione di quella che era la chiesa di San Giacomo alla metà del XVIII secolo la dà il notaro Carlucci in un do­cumento del 1745: nel fare l’inventario dei beni che, in Isernia, s’appartengono alla «Venerabile Com­menda di San Gio: di questa Città di Isernia», il notaio si reca a visionare i due stabilimenti che la compongono: quello, epo­nimo, di San Giovanni Batti­sta (sito «fuori le mura, dove si dice la Fiera», cioè dalle parti del­l’attuale Parco della Rimembranza) e l’altro, subalterno, di San Giacomo. Il documento - che dovrebbe essere conservato presso l'Archivio Capitolare della Cattedrale - è riportato integralmente da Ermanno Turco nel suo «Isernia in cinque secoli di storia», edito a Napoli nel 1948 e di recente ristampato anastaticamente.
Dice Carlucci attraverso Turco:
«Personalmente ci semo conferiti nel Palazzino di questa Ven.le Commen­da (...) chiamato vulgarmente S. Giacomo ed è sito dentro questa città d’I­sernia, e tra le due parroc­chie di S. Maria e S. Elena». Precisa è l’indicazione dell’ingresso del Palazzino de’ Signori Commenda­tori, «il portone del quale è di rim­petto al vicolo che conduce a S. Angelo, ora S. Giuseppe»; questo im­mette in un «cortile non molto largo e ad un canto di questo cortile, e proprio a sinistra nell'entrare, vi è pozzetto col jus dell'acqua, la quale riceve dalla condottiera, seu viale dell'acqua della città.» Superato il piccolo cortile si accede alla chiesa «racchiusa e posta nel recinto e clausura di detto Pa­lazzino». Dalla via principale, aperto il portone che immette nel piccolo cortile, si sarebbe vista la por­ta a doppia battuta di San Giacomo: «ha ella la sua porta per linea diretta al portone predetto». Il notaio procede poi in modo un po’ confuso, alternando punti di vista al­l’interno e di nuovo all’esterno dell’immobile: «È ella di gran­dezza capa­ce, così pure nell'altu­ra; nel fondo di essa vi è l’Altare con il suo quadro pittato al muro con l’Effige di Nostra Signora e Bambino Giesù nelle braccia; posta tra S. Gio: Battista a destra e S. Giacomo Apostolo a sini­stra, nel di cui altare vi è un dosello di legno pittato (...) Il pavimento di detta chiesa è astrico ben battuto e polito; dietro la porta, a destra nel­l’entrare, vi è una colonnetta di pietra ben lavorata e sopra di essa la fon­te dell’ac­qua benedetta. Vi è la sua campana ben corrispondente alla chiesa ed è posta in un archetto di fabbrica, che sta nella punta della fac­ciata d’avanti, corrispondente alla porta, la quale è ben foderata e lavora­ta ed apre a due».

Se questa è la descrizione della San Giacomo melitense del XVIII secolo, conoscendo la vicenda successoria che ha portato i beni dei Cavalieri Templari, dopo lo scioglimento cruento del 1312, a giungere agli Ospitalieri e da questi ai Cavalieri di Malta, e dando fede a quell'unica fonte -
Archivio Segreto Vaticano, Instrumenta miscellanea, ms. Latino 2780; documento citato da Loredana Impe­rio, San Giacomo del Tempio di Iser­nia, in Atti del VII Convegno di Ricerche Templari a cura della L.A.R.T.I., Latina, 1991, p. 40 - che, nel 1373, ci parla di uno stabilimento degli Ospitalieri «un tempo commenda templare», è più che legitttimo ritenere che la commenda descritta dal Carlucci nel 1745 sia nello stes­so luogo – e, plausibilmente, abbia anche so­stanziale di­mensione e composizione – della originaria, asserita precettoria tem­plare di San Giacomo.
Per adesso, basti sapere questo.


mercoledì 2 febbraio 2011

In vino paupertas. Isernia 26 luglio 1857

Nell’estate del 1857, nel giorno di Sant’Anna, allorché venne introdotto il dazio comunale sul vino – particolarmente odioso perché imposto sul consumo, come testatico gravante finanche sui dodicenni – due o trecento contadini, al grido di “Viva il Re! Non vogliamo il dazio sul vino” marciarono lungo la Piazza (l'attuale Corso Marcelli) fino alla Sottointendenza.

«Dato così il segnale due di essi, uno suonando la zampogna, ed un altro il tamburrello, si mettono alla testa degli altri e si danno a scorrer le strade del paese. Anche un tamburriere, incontrato a caso col suo strumento sulle spalle, vien arrestato e con minacce costretto a batter il tamburo. Ad appello sì clamoroso rispondono i contadini coll’accorrer da tutte le vie a riunirsi. (…) E costituitisi quindi in numero imponente, difilati procedono verso la casa del Sotto-Intendente. Quivi giunti, come a lava, irrompono nel cortile e scossa quell’autorità dal suono de’ cennati strumenti e dalle grida di Viva il Re, vestita di uniforme, discende in unione dell’Ispettor di Polizia»
(Gran Corte Criminale di Molise, Udienza 3 dicembre 1857, in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Reazione d’Isernia, Il Giudizio innanzi la Corte d’Assise ed i ricorsi in Cassazione, in Storia d’Isernia al cadere dei Borboni nel 1860, s.l. [Italia], s.d., pp. 172-177)

Seguono schermaglie da manifestazione di piazza: i contadini chiedono rispettosamente che si tolga il balzello. Il sottointendente eccepisce non esser quello il modo di chieder grazie, e invita la folla a disperdersi; ma questa, anzi, cresce di numero, spinge. Si dirigono tutti fino a casa del sindaco Gaetano Mancini, al quale impongono l’ostensione del ruolo, perché venga lacerato; ma il ruolo è presso il municipio, e allora tutto il corteo, con sindaco, sottointendente, ispettor di polizia, e sei gendarmi al seguito, si porta presso la casa del misero cancelliere comunale, perché vada in comune a prendere il libro mastro. Finalmente, il ruolo viene esibito, dato a uno del popolo. Passa a altre mani, fino a restarne lacerate le prime pagine. Sorge però un dubbio: e se quell’involto che sta passando di mano in mano come un trofeo dovesse essere inutile carta e non il preteso ruolo? In una città dove sa leggere uno su cento, il problema è trovare terze parti che sappiano confermare la bontà di quel brogliaccio. Si provvede:

«(…) preso a forza l’uscier Santorsola, a via di minacce lo costringe a salir sulla fontana ed a leggere ad alta voce quelle carte, con che, non essendo più dubbio di contenere esso il ruolo disputato, uno di quegli insensati lo strappa dalle mani dell’usciere, ed egli ed altri riducendolo a brani, a gara ognuno di questi bravi si provede, e se li fuma nella pipa. Conseguito così l’intento a poco a poco quella ciurmaglia dileguasi, finiscono le eccedenze, e tutto ritorna nell’ordine.»

Gli eventi del 26 luglio 1857, assolutamente incruenti, quasi al limite (interno) della rilevanza penale – se si tace del ceffone assestato a un guardiaboschi ritroso, della violenza privata usata all’usciere Santorsola, con minaccia di diruparlo per la Prece e poco altro – pure portarono la Gran Corte Criminale di Molise a irrogare pene di sette o sei anni di reclusione ai ventiquattro imputati.