martedì 29 marzo 2011

Giocchino Toma «pittore del grigio» nelle carceri d'Isernia

Giocchino Toma, salentino di Galatina, viene definito da Wikipedia «pittore italiano, tra i maggiori dell'Ottocento napoletano e tra i più originali del suo tempo in ItaliaLa sua vita d'infelice - orfano, povero, romeo - impregnò «la sua opera di tristezza, tanto che la critica ufficiale dell'epoca lo definì il pittore del grigio». Qui ne parliamo perché sfiorò - ahilui! - l'Isernia del 1860 vestendo la camicia rossa dei volontari della Legione del Matese, intruppati nella Colonna Nullo, sfiorando la morte per mano di cafone e guadagnandosi un soggiorno premio nelle carceri cittadine di Santa Maria delle Grazie.

I fatti andarono così: giovane antiborbonico nella Napoli del Re Bomba, viene arrestato e confinato con pennelli e tavolozza a San Gregorio Matese dove entra in contatto con Beniamino Caso, patriota. Quando i tempi sono maturi, s'immatricola ventiquattrenne nella Legione del Matese, partecipando a tutti i fatti d'arme dell'estate 1860. Giunto ottobre, quando Nullo prova a liberare Isernia dai regi di De Liguori, la Legione accompagna il bergamasco fino a Pettoranello. Qui il sottotenente pittore del grigio se la vede nera: per salvarsi dalla fucileria borbonica si getta in un orrido e viene dato per morto (tanto che la sua ordinanza, riparata a Campobasso coi resti della spedizione, organizzarà una colletta tra i commilitoni per le onoranze funebri). Toma, invece, col far della notte, riesce dal fosso e si perde per la campagna controllata dai cafoni. Arriva fino a Castelpizzuto dove un gruppo di contadini lo ferma, lo riconosce per garibaldino dal rosso della camicia che pure spunta da una giubba bianca che ha indossato per freddo più che per paura, e lo porta prigioniero a Roccamandolfi.


«Mi fecero alla fine fermar in mezzo alla piazza. tutto quel popolaccio mi si fece d'intorno, caricandomi d'insulti e di parolacce; ma, ormai io non mi accorgevo neppure di quanto mi accadeva d'intorno e, digiuno com'ero da due giorni, non reggendomi più per la fame, chiesi che mi dessero un pezzo di pane. Un di loro per tutta risposta mi rise in faccia (...)» (Gioacchino Toma, Ricordi di un orfano. Autobiografia, Atripalda 2008, p. 87.)


Malconcio, Toma ha comunque salva la vita (e non è poco per chi vesta il rosso nelle campagne intorno a Isernia, il 18 ottobre 1860). Viene infine affidato ai gendarmi e portato a Isernia, nel carcere dell'Annunziata.


«Quand' io vi entrai v'eran già una decina di garibaldini feriti» - tra cui, sappiamo, Domizio Tagliaferri - «ed uno di essi, col cranio crivellato e con gli occhi fuori dalle orbite, già quasi agonizzante.»


Toma rimarrà prigioniero fino alla sera del 20 ottobre, quando Cialdini e le sue penne nere arriveranno a far quartiere in città. L'esperienza del cercere isernino lo segnerà tanto e sarà d'ispirazione per una delle sue tele più famose, quella Roma o Morte del 1863 (Lecce, Museo civico) recentemente esposta a Palazzo Braschi, a Roma, nella mostra celebrativa Il Risorgimento a colori: pittori, patrioti e patrioti pittori nella Roma del XIX secolo. Nel quadro, ci sono quattro garibaldini colti nel forzato riposo della galera. Uno di essi traccia sul muro « O roma o Morte, Viva Garibaldi.»


Val la pena ricordare che Alberto Mario, a Campobasso, a teatro, la sera del 20 ottobre, verrà quasi alle mani con De Luca che troncò d'imperio l'esecuzione dell'inno a Garibaldi nell'intermezzo dell'opera, opponendo agli scampati di Nullo il successo del sabaudo Cialdini al Macerone. Da allora in poi si doveva gridare non più viva Garibaldi, ma viva il Re Galantuomo.


giovedì 24 marzo 2011

Molise 1860, il libro

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Livello bibliografico: Monografia
Tipo documento: Testo a stampa
Titolo: Molise 1860 : verso l'Unita tra rivoluzione e conservazione / Sergio Bucci, Gabriele Venditti ; con saggio di Francesco D'Episcopo, prefazione di Stefano Trotta, presentazione di GianCarlo Bregantini, introduzione Nicola D'Ascanio
Pubblicazione: Campobasso : Palladino, 2011
Descrizione fisica: 387 p. : ill. ; 22 cm.
Paese di pubblicazione: ITALIA
Lingua di pubblicazione: italiano
Codice del documento: IT\ICCU\MO1\0028282

lunedì 21 marzo 2011

Le teste tagliate di Isernia. Storia di un refuso che non cambia le cose

(Noto che gran parte degli accessi a questo sito, negli ultimi giorni, si concentrano intorno alle chiavi di ricerca "teste tagliate", "briganti teste" etc. Ne avevo già scritto, ma è l'occasione per riprendere l'argomento e darne più compiuta trattazione.)

Su Wikimedia Commons – l’archivio digitale di immagini, suoni e altri contenuti multimediali disponibili con licenza di libero uso all’indirizzo http://commons.wikimedia.org/wiki/Main_Page – era ospitato un file dal titolo «teste isernia.jpg»: una fotografia sgranata, in bianco e nero, ritraente tre gabbie contenenti altrettante teste tagliate, lì apoditticamente riferite a briganti esposti ad exemplum fuori dalle mura della città di Isernia. La descrizione che accompagnava l’immagine digitale, infatti, testualmente recitava: «Teste mozzate di contadini esposte come monito dall'esercito savoiardo nei pressi di Isernia durante la campagna militare condotta per contrastare il brigantaggio nell'ex-Regno delle Due Sicilie». Non vi era alcuna indicazione autoriale, né riferimenti certi di date: soltanto il nickname dell’internauta che lo aveva caricato e reso fruibile ai tanti siti e weblog che ne hanno amplificato la diffusione.

Procedendo a ritroso, inseguendo i rimandi contenuti in pagine personali, forum e blog, la primigenia attribuzione delle teste tagliate ai briganti di Isernia si deve, con qualche probabilità, al catalogo della mostra iconografica “Briganti & partigiani”, edito da Campania Bella, Napoli, nel 1997: qui, infatti, compare con data certa l’associazione tra le tre teste dei meschini decapitati e la città pentra che tanto drammatici avvenimenti vide consumarsi nell’autunno del 1860.

Ma davvero la foto che ci occupa ritrae isernini? Già l’accennata povertà di dati circa il chi, e il quando, doveva spingere per una più critica valutazione del documento fotografico; e ad essere un minimo critici, improbabile doveva essere la presenza di camera e treppiede nelle campagne isernine in età di dagherrotipi. Così, autorevolmente, lo storico Lucio Villari aveva dichiarato l’immagine delle tre teste in gabbia certamente falsa nella sua attribuzione al contesto italiano e risorgimentale (nell’opera Il Risorgimento. Storia, documenti, testimonianze, Roma 2007). E infatti, seppure con un ritardo di almeno due anni dalla sua pubblicazione, l’immagine delle teste tagliate, nel suo riferirsi a Isernia, ha avuto plateale smentita anche nel contesto Wiki, allorché si è riconosciuto in essa piuttosto un ingrandimento di una foto relativa a decapitazioni di Boxer nella Cina del 1900. Dal 5 agosto 2010, infatti, il nuovo titolo identificativo dell’immagine digitale in Wikimedia Commons è «boxer_heads_china.jpg» e la didascalia vede la riformulazione «Teste mozzate di contadini esposte come monito durante la rivolta dei Boxer in Cina. Dettaglio.» Sempre contadini, dunque; sempre decapitati e esposti come monito, ma nelle campagne cinesi del 1900 e non in quelle molisane del 1860. In più, c’è finalmente un autore dello scatto, identificato nel modenese Giuseppe Messerotti Benvenuti, classe 1870.

La storia è particolarmente affascinante (almeno per me) e merita una sosta. Messerotti Benvenuti, tenente di sanità con l’hobby della fotografia, faceva parte del Corpo di spedizione italiano inviato in Oriente nell’agosto del 1900 per sedare la rivolta nazionalista dei Boxer – oggi si parlerebbe, con ipocrisia, di operazione di peace keeping. La missione italiana restò in Cina a lungo, e l’impegno internazionale venne retribuito dal Celeste Impero con la Concessione commerciale di Tientsin, conservata dall’Italia fino alla II Guerra Mondiale. Per vincere la monotonia del suo ospedaletto da campo a cinque letti, il giovane tenente scriveva lunghe lettere a casa, accompagnate da foto fatte in libera uscita. Grazie agli scatti della sua Kodak, Messerotti Benvenuti portava all’Italia umbertina immagini di un continente lontano, immerso ancora in brume medioevali e percepito come quintessenza dell’esotismo come fosse davvero abitato da sciapodi o retto dal Prete Gianni. Tutt’altro che vicina, la Cina. Per capire l’approssimazione dei comandi militari, basti pensare che quando si dovette pensare all’equipaggiamento delle truppe italiane in partenza, le si vestì con zuccotti e sahariane, misconoscendo che nei luoghi di destinazione la temperatura poteva arrivare anche ai 20° sottozero (su queste vicende, si può leggere l’articolo di G. Fattori, La guerra dei boxers, in «Storia illustrata», n. 154, settembre 1970).

Lettere e fotografie di Messerotti Benvenuti sono pubblicate nel volume “Giuseppe Messerotti Benvenuti: un italiano nella Cina dei Boxer”, catalogo della mostra organizzata a Modena dalla Fondazione Panini nel 2000. Tra di esse, compare una serie di scatti che hanno ad oggetto la cruenta decapitazione dei boxer; la raccolta delle teste spiccate in gabbie di bambù e la successiva infissione delle gabbie su un tripode (la macabra sequenza si trova disponibile all’indirizzo http://turandot.ish-lyon.cnrs.fr/Bibliography.php?ID=57).

A guardarle, non residuano dubbi circa l’identità tra le teste di Isernia e le teste cinesi. Ma pure se appare ormai assodato che la foto incriminata nulla a che fare con i cafoni di Isernia, il danno è fatto: per la sua forza espressiva – e per l’essere royalty free – l’immagine è stata utilizzata in molti siti internet, come pure in qualche opera a stampa, e posta accanto a quelle – forse addirittura più efferate – in cui briganti, celebri e meno celebri, posano afflosciati, tumefatti, scomposti, come macabri trofei di caccia del neonato Regio esercito, rimpallando a ogni uso l’idea che a Isernia, all’indomani dell’arrivo dei Piemontesi in città (23 ottobre 1860) o, forse, nei primi anni del Regno d’Italia e delle drammatiche campagne militari contro il brigantaggio, si sia fatto macabro scempio delle teste dei fucilati.

Sia chiaro: nel 1860, i Piemontesi, a Isernia come altrove, si sono comportati coi mezzi spicci di un esercito di conquista e esecuzioni sommarie, stupri e vittime collaterali del conflitto, sono state all’ordine del giorno. Il museo degli orrori dello pseudoscienziato Cesare Lombroso richiedeva teste di briganti da analizzare fisiognomicamente e c’è in rete la raccapricciante corrispondenza tra ufficiali italiani – siamo ormai nel 1869 – circa la testa imbalsamata del brigante Palma fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito. La scoperta di un falso non elide le responsabilità accertate di Cialdini e soci.

Ciò che è particolare è che, in quei forum in rete in cui si scontrano ancora (centocinquanta anni dopo Teano e Gaeta) neoborbonici e veterosavoiardi, il falso delle teste tagliate di Isernia viene utilizzato, estensivamente, da questi ultimi a tacciare di calunnia tutti quegli episodi di barbarie agita da italiani su italiani, bersaglieri contro donne e bambini, come se Boxer fossero anche gli 8968 fucilati dei primi mesi di guerra al brigantaggio, o che ribelli cinesi abitassero gli interi paesi di Pontelandolfo e Casalduni, oggetto di una decimazione recata con metodo scientifico, ottanta anni prima di Marzabotto. È tempo per inquadrare criticamente il processo di unificazione nazionale attribuendogli connotati di guerra di conquista e, tragicamente, di guerra civile. Occorre portare luce sui lati oscuri del Risorgimento, senza per questo rimettere in discussione l’Unità: perché una storia sia davvero condivisa, deve essere conosciuta nella sua integrità, senza rimozioni o edulcorazioni, senza continuare col mito fondativo degli eroi puri e belli tutti da una parte e i cafoni abbrutiti e sanguinari confinati nell’altro campo.

Piuttosto, ci si può interrogare su come – in origine – una foto di teste tagliate abbia determinato la macabra associazione con l’Isernia del 1860. Notizie certe di teste spiccate, infisse su pali, poste alle finestre come zucche ad Halloween, per Isernia ce ne sono tante ma tutte riportano all’efferatezze dei contadini verso i garibaldini, mai au contraire. Sul punto, le carte processuali sono quanto mai precise ed elencano una serie di episodi. La vulgata, del resto, parlava di un premio in moneta per ogni testa di garibaldino spedita a Gaeta col suo berrettuccio rosso. Il 5 ottobre 1860, al Mercatello, Zaccaria Corrado infierisce sul cadavere di un garibaldino, tagliandogli la testa; a lui i verbali ascrivono un totale di sette decapitazioni di cadaveri, consumate insieme con tale Giuseppe Laliccia. Sempre il 5, davanti a Palazzo Jadopi, il volontario campobassano Errico Filipponi, non ancora diciassettenne, viene colpito alle spalle con un colpo d’ascia; gli viene poi, more solito, tagliata la testa. L’anonimo estensore del memoriale noto come La Colonna De Luca ricorda «tredici teste di volontarii uccisi (…) menate in trionfo per Isernia» e poi «risposte sotto gli archi del cortile del Monistero dei Monaci Osservanti: e la mattina situate al largo della Fiera», mentre Jadopi descrivendo da contumace l’assalto della plebaglia al suo palazzo parlava di «teschi umani recisi che erano rotolati per la strada dai carpinonensi Antonio Fabrizio, Michele Martella La Vacca, e molti di Pesche». Facile, quindi, pensare che l’immagine di teste in gabbie più o meno consapevolmente abbia portato a generare la falsa attribuzione di cui abbiamo parlato.

Isernia e teste tagliate. Forse un destino: ricordiamo che i santissimi Cosma e Damiano, in città venerati forse più del patrono, ebbero il loro martirio per decapitazione.