martedì 23 ottobre 2018

«La Storia di Isernia del Garrucci illustrata da Cesare De Leonardis»



Il Garrucci di De Leonardis. Ex uno, plures
(Gabriele Venditti)

Il libro che avete aperto e di cui state leggendo l’introduzione – questo libro, questa introduzione –  è unico; o meglio: unico è l’originale da cui sono stati tratti, in ristampa, i molti volumi tra cui il vostro. Andiamo a spiegare: La Storia di Isernia raccolta dagli antichi monumenti è un dotto divertissement – l’ossimoro è calzante – di un gesuita napoletano di metà Ottocento, Raffaele Garrucci – o, vezzosamente, Raffaello, come apposto dallo stampatore del 1848. Nell’unico dagherrotipo che lo ritrae maturo, in tre quarti, ha sguardo severo e mento volitivo, più adatto a un capitano di ventura che ad un archeologo e numismatico in abito talare, autore di oltre cento volumi, nessuno dei quali imprescindibile, eccettuata forse la monumentale Storia dell’arte cristiana. Va da sé che, se ci fermassimo al testo riprodotto in anastatica nelle pagine seguenti, potremmo solo convenire di essere incappati in una delle tante monografie comunali di gusto antiquario, dal titolo anche fuorviante perché limitato alla storia della sola città romana, tratta dalle numerosissime epigrafi che quel mondo ci ha generosamente lasciato, scritta per la curiosità dei pochi che – allora come ora – si muovono a loro agio tra l’epigrafia e altre morenti discipline.
Chiariamo, allora: questo libro – anzi, quel libro: l’originale – è unico non per le sue duecento pagine di testo, ma per la nutrita appendice che il notaio isernino Cesare De Leonardis, nell’ultimo decennio del XIX secolo, fece aggiungere in calce alla sua personale copia del Garrucci, rendendola personalissima; su quei cento e più fogli di carta filigranata rilegati col volume del gesuita napoletano a formare un corpo unico, De Leonardis ha riportato, a matita, a china e inchiostri colorati, piccole vedute della sua città, schizzi e disegni, la gran parte assolutamente inediti, che lui, perché appassionato di storia locale e archeologia, fece di luoghi, monumenti e reperti archeologici allora visibili a Isernia e nel contado; bozzetti che costituiscono l’unica testimonianza visiva attualmente nota – quasi fotografie da un età prefotografica – di ciò che non è più esistente o di ciò che, fino ad ora, nemmeno si conosceva come esistente.
Non so se, a questo punto, è chiara l’unicità del Garrucci di De Leonardis. Pensate, allora, alla Venezia del Settecento senza il Canaletto, alla Roma drammatica ritratta a bulino da Giovanni Battista Piranesi. Ora, riducendo del dovuto, vorrei continuare la proporzione (a:b = c:d) intercalando Isernia e De Leonardis. Pensate alla difficoltà di ricostruire il paesaggio urbano che fu per città che non sono Roma o Venezia, tante volte e da tanti ritratte; ma per terre di provincia, periferiche e misconosciute, con pochi cantori e ancor meno illustratori, che pure hanno storia millenaria e tante volte hanno modificato il loro volto, fino a cancellarne anche le cicatrici. Consideriamo Isernia, devastata – fermandoci all’ultimo millennio – da almeno quattro terribili terremoti e provata dal fuoco di eserciti antichi e moderni, i Francesi del 1799, i Piemontesi del 1860, gli Angloamericani e i Tedeschi in ritirata del 1943; per non parlare di nemici meno eclatanti ma altrettanto perniciosi, nel loro continuo, silenzioso operare da tarlo: il cemento selvaggio, l’incuria, l’ignoranza di chi non distingue tra antico e vecchio. Continue trasformazioni, che non sempre – o quasi mai – procedono lungo la linea che porta verso la bellezza, l’armonia. Quanto importante, allora, è avere avuto, se non il Canaletto con la sua Camera obscura, almeno un devoto notaio, animato dall’amore per la città, che dobbiamo immaginare curvo sul suo taccuino a raccogliere per vie, vicoli e mulattiere schizzi di antiche pietre, da riprodurre poi in bella copia, a sera, alla luce di un lume a petrolio, sull’album in calce al suo Garrucci.
Perché è così che operava il nostro Cesare: con i suoi amici – tra tutti quel Domenicantonio Milano autore di una monografia su Isernia che solo quest’anno è stata finalmente edita – esplorava il territorio alla ricerca di antichità, che riportava su fogli sciolti, sul retro magari di grigia corrispondenza notarile (spesso, dietro le minute dei disegni, ci sono appunti inconferenti, che parlano di ipoteche o compravendite). Poi, con calma, ricopiava in bella, a china e colore, sui fogli ocra del Garrucci. Non sempre, tuttavia, c’era posto per le note, l’indicazione del luogo di ritrovamento, le misure del manufatto. Sull’originale, sulla bella copia, spesso molte informazioni sono andate perse (tante che, per molti disegni, è spesso ignoto addirittura l’oggetto ritratto). Per questo, le minute, gli antigrafi – fortunatamente conservati nell’Archivio familiare dei De Leonardis, insieme al volume di Garrucci – completano, quando possono, con i dati che recano, i disegni dell’appendice (e in questa edizione si è deciso di riportare in didascalia, laddove sono state trovati, gli appunti delle minute).
Molte di queste informazioni, tuttavia, possono forse non avere più significato: non sappiamo, noi lettori tardi, giunti dopo oltre un secolo a sfogliare di nuovo il Garrucci di De Leonardis, quale sia il «fondo che si coltiva da Vincenzo Di Falco, sulla strada che mena a Fornelli»; dove il giardino del signor D. Cosmo Melogli, nel quale il 3 giugno del 1890 Cesare trovò e disegnò un certo rudere;  gli esatti confini della tenuta del signor D. Ippolito Laurelli, alla Quadrella, così ricca di epigrafi.
Ma per tanti altri disegni e glosse, è diverso. Come una macchina del tempo, ci aprono finestre su una città che non esiste più: troviamo perfettamente ritratta, in ogni suo dettaglio architettonico, la facciata della Chiesa dell’Annunziata – che, sconsacrata, si conservò fino al 1896 per poi cedere superficie all’attuale palazzo Pansini – della quale era noto soltanto il portale perché finora apparso, fuori fuoco, in una foto d’epoca. Assolutamente inedita, invece, la Porta di Giobbe, aperta nel tracciato delle mura medievali, dove ora termina il vicolo che ne ha mutuato l’odonimo, e che scopriamo ora avere arco a tutto sesto, affiancato lateralmente da due bertesche. Così anche il Convento di Santa Maria delle Grazie, che conoscevamo unicamente in pianta e, per il solo lato che dava sul Tratturo, per una fotografia scattata in occasione di una Fiera delle Cipolle di anteguerra. Allo stesso modo, inedita è la vista a volo d’uccello di Palazzo S. Francesco, ritratto dal suo lato orientale, sovrastante i magnifici orti urbani che caratterizzarono la città, e indicato in didascalia come «diruto monastero di S. Francesco», perché ancora colpito, a fine secolo, dagli effetti del devastante terremoto del 25 luglio1805.    
Viene chiarito il mistero dell’obelisco di Piazza Mercato, o Largo San Pietro, come allora altrimenti si chiamava la piazza centrale di Isernia, mutuando il nome dall’intitolazione della Cattedrale: e questa è storia che merita una digressione. Fino all’inedito bozzetto del notaio, l’obelisco era rappresentato in due sole immagini: una stampa di metà Ottocento, più volte riquadrata e modificata, e una sgranata fotografia dell’ultimo decennio del secolo. Nella stampa, meno nella fotografia, la piazza veniva rappresentata, al centro, con fontana e obelisco. Dal punto di osservazione scelto – spalle a via Marcelli e faccia alle Mainarde – sembrava quasi che fontana e obelisco, schiacciati nella prospettiva, costituissero un tutt’uno e che l’obelisco si ergesse dal centro della vasca. Per vero, fonti d’archivio, ci riferivano già di come l’obelisco fosse distante dalla fonte almeno una decina di metri e di come ne nascondesse il castelletto di carico dell’acqua, necessario in quanto la fontana prevedeva non soltanto, a livello di terra, quattro getti tratti dalla bocca di altrettanti leoni in pietra, ma anche una vasca centrale con, alla sommità, uno zampillo. De Leonardis ritrae la stessa piazza ribaltando il consueto punto di vista e collocando, idealmente, l’osservatore su un pallone aerostatico fermo sul vallone della Precia, che guardi a ovest verso la Cattedrale. Qui l’obelisco si erge, coprendo la fontana, la Cattedrale e il resto, monopolizzando la scena. Posto sulla sua sommità, un giglio (segno della dinastia dei Borbone, incredibilmente rimasto anche oltre il settembre 1860), non una croce, come si direbbe a guardare l’immagine in stampa e fotografia. Segue un prezioso autografo, la cui trascrizione riporto integralmente qui – sebbene presente nel prosieguo dell’opera – per dare già idea del prezioso contributo che le molte glosse apposte ai disegni dànno a chi sia interessato a ricostruire il volto di quella città di Isernia:

«Dal 15 al 31 marzo 1896 furono abbattute per deliberazione del Municipio di Isernia: 1. La fontana in pietra di forma circolare sita nel Largo S. Pietro e propriamente innanzi al Cortile del Palazzo Vescovile, le cui acque si versavano a getto per la bocca di quattro leoni di pietra scolpiti, giacenti e situati a croce, nel cui centro si innalzava una vasca circolare, anche in pietra, con un rilievo in mezzo a guisa di pigna da cui scaturiva dell'acqua a zampilli. 2. Il Castelletto a guisa di piramide a pochi metri discosto da detta fontana da cui derivavano le acque della fontana istessa. Esso Castelletto era di mattoni a piatto, lato da terra circa metri dieci, con base in pietra viva alta circa metri tre ornata di cornice della stessa pietra ed all'apice una palla sostenuta da una pietra di forma quadrata ai cui lati leggevasi: 1° lato A.R.C. 1832; 2° lato AESERNIA; 3° lato FERDINANDO II; 4° lato D.D.D. La stessa palla sosteneva all'apice un giglio, del pari scolpito in pietra, appartenente allo stemma dei sovrani Borboni. Nella facciata di essa piramide, verso la Piazza di S. Pietro, erano incastrate, alla base, una leggenda, o dedica, all'ex sovrano Borbone, scolpita in marmo, ed alla metà dell'altezza di essa piramide lo stemma di Isernia come qui riprodotto. Tale costruzione rimontava ad oltre mezzo secolo e non è fuori proposito far osservare che tanto la leggenda che il giglio di sopra descritti furono abbattuti e distrutti nelle vicende della rivoluzione del 1860 contro l'abolita Dinastia borbonica. »        

Il libro di cui avete terminato di leggere l’introduzione – questo libro e questa introduzione – è unico e prezioso per motivi che, da lettori, apprezzerete e condividerete già prima di giungere all’ultima pagina. 

mercoledì 17 ottobre 2018

L'Elefante della Fontana Fraterna


Intro
Che la Fontana Fraterna (o Fontana della Fraterna, se preferite), per come oggi la conosciamo nel suo sviluppo armonioso di vuoti e pieni, archi e colonne, si debba alla perizia di un mastro nostrano di metà Ottocento più che di un architetto regio di una lontana e indeterminata Età di Mezzo è notizia che si ricava da atti d’archivio, dunque sufficientemente incontroversa. Ciò malgrado, qua e là ancora ci si imbatte in fantasiose attribuzioni che la vogliono, nel luogo in cui è ora, autentico manufatto del XIII secolo; del resto, apodittiche affermazioni intorno alla Fraterna ne circolano tante:  ancora si legge di quell’ AE PONT come frammento di epigrafe tratta dal sepolcro familiare del noto prefetto di Giudea, quello che si lavò le mani.
Un primo punto da chiarire: riportarne una fondazione ottocentesca per mano di mastro autoctono non sminuisce di una virgola il valore del monumento, che è di un equilibrio unico, nel quale la perfetta simmetria dell’insieme è ottenuta da una disposizione incoerente di pietre di differente misura ed elementi (protomi, capitelli, mensole…) di diversa provenienza ed epoca. La fontana è un unicum, sintesi mirabile della storia millenaria della città.
Altro chiarimento necessario: Fraterna è onomastica che si impone solo col XX secolo: in tutti i documenti precedenti, la fontana pubblica posta all'inizio del lungo decumano che attraversa la città viene indicata come Fontana della Concezione per la vicinanza alla Chiesa dell’Immacolata, sede secondo tradizione della confraternita duecentesca fondata da Celestino. Ecco che, solo di recente, la fontana assume il nome di Fraterna.

La Fraterna in una foto di inizio XX sec.

Isernia e l’acqua
Ora: una fontana pubblica, in quel luogo, c’è da un tempo lontano e non determinato. Il rapporto di Isernia con l’acqua è sempre stato privilegiato; ciò per effetto della particolare posizione della città, posta tra due fiumi, così come dalle infrastrutture che ne hanno sempre consentito facile accesso e abbondanza, tanto che una delle ipotesi che si fanno sul toponimo Isernia fa appunto riferimento all’acqua (dalla radice indeuropea ausa, che vuol dire appunto acqua). L’acqua in città arrivava tramite l’acquedotto romano captato a San Martino. Al punto di sbocco, al cd. pozzo, stranamente collocato fuori le mura urbiche, dal tardo medioevo, ritraevano acqua sia le fontane pubbliche che le private. Lo sappiamo per certo: vi è atto di concessione regia del 1514 rilasciato ai maggiorenti della città per avere acqua nelle case attingendo «a forma extra moenia dictae Civitatis ubi vulgariter dicitur Inpuzo, vicino san Joanne» (Il pozzo, vicino la chiesa gerosolimitana di San Giovanni, alla Fiera), tramite condotta da realizzarsi a proprie spese. Già precedentemente, i regolamenti della Bagliva, del XV secolo, punivano chi lordasse le pubbliche fontane, lavando verdure o abbeverando animali; tra di esse, particolare attenzione viene data alla fonte del Mercato, destinataria di uno specifico articolo e sanzione: «Item volemo che non sia huomo o donna che ardisca spandere pelle sopra la fonte del mercato, né buttarvi lordizia seu immondizia alcuna sotto pena di grana dieci per ciascuna volta […]».

La Fraterna, come oggi la conosciamo, a lato della Cattedrale.
Il quadro, di autore non reperito nelle fonti, è in Sabino d'Acunto, Isernia in Cartolina, 1990.

La fontana del Mercato
Se la fonte pubblica al Mercato ha ricevuto attenzione particolare nei Capitoli della Bagliva è probabilmente perché ritenuta fontana di rango superiore rispetto alle altre pubbliche pur esistenti.
Mercato è propriamente il largo posto davanti la Cattedrale, spazio urbano da sempre aperto, libero da immobili (non così per altre piazze cittadine, la cui creazione si deve alla guerra, come per Piazza Concezione). Ma con Mercato si identifica l’intera area: una fontana che abbia le spalle al muro della Cattedrale e lato edificato in aderenza all’Arco di san Pietro, può senz’altro essere definita  fontana del Mercato senza destare scandalo.
Così, quando l’ingegnere camerario Casimiro Vetromile redige nel 1744 l’apprezzo della Città di Isernia, e riguardo alle fontane pubbliche, ci dice che ve n’è una «di cinque cannuoli, attaccata all’attrio di detta Cattedrale», ne possiamo liberamente inferire che: a) per avere cinque cannuoli (non uno, due o tre, come tutte le altre) deve essere fontana tra le più importanti in città, se non la più importante; b) può legittimamente identificarsi in questa quella fontana del Mercato di cui parleranno poi altri, senza necessariamente pensare ad una fontana posta nella piazza del Mercato. Qui, per la verità,  una fonte pubblica sarà realizzata sì, ma solo successivamente (1832/1847), allorché questa a lato della Cattedrale sarà rimossa perché d’intralcio alla pur magra circolazione stradale del periodo: nel 1832 si attendenva la faustissima venuta in città di Ferdinando II e le reali carrozze non potevano agevolmente muoversi (ne abbiamo già ampiamente parlato qui). Si decise così di smembrare e togliere la fontana del Mercato, che pure era tutto sommato sopravvissuta al terremoto distruttivo del 1805: ce lo dice Fortini nel suo cahier de doleance sugli effetti del sisma: «La pubblica fontana di cinque butti di acqu’ appoggiat’ a due pilastri, avanzi del caduto supportico esiste, ma dannificata moltissimo, siccole lo sono i detti due pilastri




La fontana della Concezione
Torniamo ora a largo Concezione, dove, sempre l’ingegnere Vetromile ci dà testimonianza di una fontana  «di tre cannuoli vicino la Porta superiore detta da capo».
Tra il 1744 in cui scrive il tavolario napoletano e il 1835 in cui saremo proiettati tra poche righe, vi è la drammatica cesura rappresentata dal terremoto del 1805, che specie nella parte alta dell’abitato isernino, quella posta a nord dell’Arco di San Pietro, risulta particolarmente distruttivo.
Nel 1835, per decisione del Decurionato cittadino, sul sito precedentemente occupato da questa fontana, di forme ignote, ma certamente a «tre cannuoli» viene riedificata una nuova fontana pubblica. L’artefice è il muratore Felice Caruso che rimonta i pezzi in pietra che furono di questa e quelli che derivavano dalla fontana del Mercato (cioè quella che posta a lato della Cattedrale). Lo deduciamo da un documento conservato nell’Archivio storico comunale, un preventivo da altri composto e che Felice Caruso sottoscrive con firma incerta, fornendoci però diverse utili informazioni (nella trascrizione, ometto i calcoli del materiale e gli importi espressi in grana duosiciliani):

«Oggi dieci settembre milleottocento trentacinque, in Isernia, io sottoscritto mastro muratore di questa città ad invito del sindaco (…) avendo proceduto alla perizia delle  rifazioni e prolungamento della pubblica fontana sita dentro di questo abitato al largo della Concezione, dopo fatte le debite ispezioni sopra luogo e riconosciuto di materiali esistenti di altra antica fontana da adattarsi a questa costruenda, ho trovato che a regola d’arte bisogna quanto segue.
1. Deve rialzarsi l’attuale facciata interna di detta fontana ch’è di palmi 9 lunga e 7 alta portandola ad altezza di palmi 8, aggiungendovi perciò un altro palmo; e più deve prolungarsi la facciata stessa per altri palmi 14 per palmi 8 di altezza, onde aversi la lunghezza bastante per situarsi sei butta acqua. Tale rialzamento e prolungamento deve farsi di pezzi di taglio di pietra travertina a puntillo riccio e con tracce laterali a scalpello (…)
2. Fascia dell’istessa pietra in fronte alla copertura del porticato di detta fontana, lunghezza palmi 31 altezza palmi 1 e ¾ sono in tutto palmi 54 (…).
3. Lastre dell’ istessa pietra mancanti per la covertura suddetta di lunghezza palmi 25 larghezza palmi 3 e con fare a martello nelle facce (…) 
4. Due archetti mancanti e da costruirsi dell’istessa pietra di diametro nella faccia palmi 4 palmi 2 di fronte dedotto il vuoto dell’arco di palmi tre di diametro (…)
5. Due piccoli archi anche mancanti al finimento superiore di detta fontana (…)
6. Basolato mancante nella vasca interna (…)
7. Basolato pel marciapiedi di detta fontana della lunghezza di palmi 24 e 1 e ¾ di altezza (…)
8. Base con due semicolonne al di sopra e capitello (…)
9. Masso (?) di nuova fabbrica nella vasca interna di palmi 24 lungo, alto palmi 3 e doppio palmi 2 (…) più altro masso (?) di fabbrica al didietro della facciata interna  (…)
10. Compositura dell’intero parapetto della fontana nella lunghezza di palmi 24 (…) colla ritoccatura de’ pezzi più di sei colonne e due pilastrini laterali e di gattoni al di sopra con alcovi sovrapposti, bucciando ed impiombando le basi e fusti delle colonne e fissare le tenute interne di ferro tra esse e la facciata delli butta acqua
11. Ferro per ciappe di pezzi di parapetto della fontana, per le anime della base e colonnette (…)
12. Sei forami d’ottone per butta acqua (…)
13. piombo per le diverse impiombature (…)»

Iside svelata
Il documento sopra trascritto è l’atto di nascita della Fontana Fraterna, edificata da Caruso con  «materiali esistenti di altra antica fontana», e nuovi elementi ricostruiti con «l’istessa pietra». Se si guarda alla descrizione dell’insieme ci rendiamo conto che quella lì costruenda non può che essere la Fraterna per come oggi la conosciamo. In più, se poniamo attenzione al fatto che un palmo napoletano sia unità di misura pari, più o meno, a 26 centimetri e mezzo, dai 24 palmi di lunghezza complessiva della fontana otteniamo esattamente i sei metri e trenta dell’attuale. 
Abbiamo allora diversi elementi per chiarire il mistero della fontana: richiamiamo Vetromile sul banco dei testimoni: nel 1744, delle «sette pubbliche fontane di ottime e fresche acque perenni» che esistevano al tempo in città, il tavolario napoletano riferisce di una «prima di tre cannuoli vicino la Porta superiore detta da capo; la seconda di cinque cannuoli, attaccata all’attrio di detta Cattedrale».
Chiamiamo allora a deporre altro importante teste: Stefano Jadopi, identificato per conoscenza personale, il quale ci dice (vd. Il Regno di Napoli illustrato ecc., del 1858) che di queste due fontane, la seconda, quella del Mercato cedette alla prima «l’antica prospettiva».
Possiamo allora con sufficiente credibilità sostenere che quella a lato della Cattedrale sia stata fontana realizzata in forme e disegno tutto sommato non dissimili dall’attuale Fraterna, sebbene di minori dimensioni complessive. Per questa, allora, e non per la sua attuale ipostasi di piazza Concezione, potrebbe legittimamente sostenersi un’origine federiciana, da pieno secolo XIII. Dismessa e demolita nel 1832, i pezzi avrebbero  subito un primo trasloco in Piazza Concezione, per essere qui rinvenuti da Caruso, e rimontati come un puzzle tridimensionale nel progetto della fontana nelle forme che noi conosciamo.

La planimetria del Largo Concezione, 1887. La Fontana Fraterna, a sei butti, è collocata nel sito in cui è ripresa dalle fotografie che conosciamo. Alle spalle, un fabbricato oggetto di espropriazione, di proprietà di Cosmo Viti (A.S.C.I.)

Il puzzle
Se parlo di puzzle, è perché sappiamo per certa la provenienza di alcuni pezzi: l’epigrafe AE PONT, per esempio, proviene dalla fontana del Mercato, che era a lato della Cattedrale. Ce lo dice il canonico Vincenzo Piccoli nel 1824 – dunque prima dei lavori di Caruso – e ce lo ribadisce Theodor Mommsen che quando viene in città nel 1844 – dopo Caruso – la vede già incastonata in quella della Concezione, ma, per completezza di informazione, ci riconferma che un tempo era presso l’altra fontana, al mercato.
L’altra epigrafe latina, quella di Pescennio (d.m.s. | Fvndaniae securae | Pescennivs secv | rvs nec immerito), è invece sempre stata in zona Porta da Capo (vd. p. es. Muratori, che nel riportarla nel suo Thesaurus ci dice ad Portam Capitalem), dunque appartiene al materiale lapideo dell’altra fontana, quella primigenia della Concezione.

La Fraterna appena rimontata, nel settembre del 1959

Traslazione?
Ma quella che è sotto i nostri occhi, non è proprio la fontana del 1835. Un documento d’archivio – una Deliberazione del Consiglio Comunale dell’11 maggio 1889 denominata «Sistemazione della fonte pubblica della Concezione» – riferisce che «il consigliere signor d’Apollonio, sull’invito del presidente, ha presentato all’Adunanza uno schizzo o progetto sommario da lui redatto per trasporto della fontana della Concezione in altro punto, e ciò in adempimento alla deliberazione del dì 30 luglio 1887, n. 49,  onde si stabiliva il sito ove credesi riedificarla.» Unanimemente si deliberava di «rimanere incaricato il signor d’Apollonio di completare il progetto di rimozione della fontana suddetta, trasportandola a lato e non già di fronte al Largo e propriamente  a ridosso della casa Leone».
Una pianta del 1887 – dunque due anni prima della delibera che ne demanda lo spostamento – redatta nell’ambito di una vicenda di espropriazione per pubblica utilità ai danni di tal Cosmo Viti, che aveva proprietà proprio alle spalle della fontana della Concezione, vede questa esattamente nel punto in cui la ritrarranno le fotografie di inizio Novecento. Ed allora, delle due l’una: o la traslazione del 1889 è stata dell’ordine di qualche centimetro, oppure come tanti altri progetti comunali che, allora come ora, rimangono solo sulla carta, non c’è mai stata.

Riassemblaggio
Ma quella che è sotto i nostri occhi, in ogni caso, non è proprio la fontana del 1835. Un rimontaggio la Fraterna lo ha subìto necessariamente dopo la Seconda Guerra Mondiale: le bombe alleate del settembre 1943, che crearono lo squarcio poi diventato Piazza Celestino V, la distrussero integralmente. Per cure dell’architetto Giuseppe Tarra e dell’ingegnere Giuseppe Renzi, i pezzi vennero numerati e conservati (il puzzle, disarticolato, venne riposto nella sua scatola), prima presso la Chiesa della Concezione, poi in Santa Maria delle Monache, fino a quando la fontana fu nuovamente riassemblata nel 1959 (lavori durati tra il 4 agosto e l’11 settembre, impresa Vittorino Santilli, capomastro Salvatore Di Pilla, con direzione lavori di Tarra e dell’architetto Coppola), incastonata, tuttavia, in una discutibile quinta di mattoncini rossi, coerente con il rifacimento modernista della facciata della Chiesa della Concezione. Così si mantenne fino agli interventi di riqualificazione post-terremoto che comportarono l’ulteriore rifacimento della piazza, e l’eliminazione del mattonato (non del tutto: sono conservati gli spigoli posteriori della fontana, che danno una incongrua alternanza tra pietra e mattone, per fortuna poco visibile nel complesso).    
Col rimontaggio del 1959 non tutto tornò al suo posto. Da un articolo di giornale (Giornale d’Italia, 27 settembre 1959), leggo che «i pezzi furono rifatti con la stessa pietra e con l’identico volto dell’antico. Ma per fortuna si aggiunge che la parte scolpita  ebbe bisogno soltanto di restauro, anche se accuratissimo, ché si era riusciti a porre in salvo oltre il 95% di questa».




La testa di elefante disegnata da Cesare De Leonardis (1890/1901)


L’Elefante
In quel cinque per cento di fontana andato distrutto per sempre dobbiamo registrare la curiosa protome lì presente fino al 1943 sul lato sinistro, a fare da controcanto alle due teste leonine che, per fortuna, si sono invece conservate su quello destro. Nell’attualità, il posto che fu della protome è occupato dall’epigrafe dettata da Angelo Viti e celebrativa della riedificazione (In coelestiniano clavstro | Aeserniensivm grato | animo civivm | scatvrigo mea hodie refluit | MCMXXXXIII – MCMLIX).

Particolare ingrandito della cartolina sopra pubblicata, con bene evidente la protome identificata come «testa di elefante».
Oggi, al suo posto, la lapide dettata da Angelo Viti per la riedificazione del 1959. 

Non ho trovato – ma potrebbe essere per mia superficialità di inquisizione – in alcun libro, articolo, saggio sulla Fraterna riferimenti alla strana pietra, che al mio occhio pare una testa di elefante priva di proboscide, perché troncata in altra e più remota vita, prima che il demiurgo la infiggesse a fare da laterale della fontana. La mia attenzione sulla pietra si è accesa curando le didascalie per il volume – che sarà presto edito da Volturnia – sui disegni che Cesare De Leonardis realizzò, tra il 1890 e il 1901, per illustrare la propria copia del Garrucci. Uno dei disegni ritrae appunto il particolare della testa, al tempo di De Leonardis presente sulla fontana. Più che alla classicità romana, la testa di elefante dovrebbe riferirsi ad un contesto medievale. Se si guarda altrove, troviamo l’elefante – simbolo di forza, saggezza, memoria, temperanza e amore cristiano che, col suo pachidermico peso, schiaccia il peccato – impegnato nel suo ruolo di indefesso portatore di peso. Così, per es., nel trono del vescovo Ursone, nella Cattedrale di Canosa di Puglia (del maestro Romualdo, 1079/1089), due elefanti reggono la sedia gestatoria. Se si guarda alla loro testa, e la si immagina priva di proboscide, otteniamo una forma non lontana dalla strana protome isernina, che, per altro, si presenta con la parte sommitale piatta, dunque probabilmente utilizzata proprio quale piano d'appoggio di appoggio per un manufatto sopra collocato.


L'elefante della Cattedra del vescovo Ursone, nella Cattedrale di Canosa di Puglia, XI sec.

Ho interpretato la protome come testa di elefante dal primo momento che l’ho vista. Mi accorgo ora che l’identificazione può non essere immediata. Sulla particolare forma “a ventaglio” di ciò che io vedo come orecchie, chiamo tuttavia come testimone a conferma la pagina del codice qui fotografato: l’elefante, per l’artista medievale, rimane comunque animale lontano e misconosciuto: siamo in un ambito di conoscenza e familiarità con l’oggetto ritratto e rappresentato che non è diverso da quello che si aveva verso gli sciapodi e i blemmi e altre esotiche mostruosità.    
 
Elefante da Codice medievale. Si noti la forma a ventaglio delle orecchie.