mercoledì 18 aprile 2018

Dei vescovi di Isernia - Parte II (secc. X - XIII)


Mille e molti più di Mille (Secc. X - XIII)

«Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra.» (Apocalisse, 20, 7-8)

Intorno al Mille, Isernia rimane sede vacante per lungo tempo. La cronotassi riapre con il nome di Gerardo. Qualche altro nome – un vescovo Lucio, benedettino, nell’896 e un Landolfo, attestato nel 1027 – appaiono nel solo inedito manoscritto di Giovan Battista Ricci, che è anche la fonte utilizzata dal curatore dell’elenco dato dal Capitolo per il volume celebrativo edito nel 1968.
Gerardo viene consacrato nel 1032 da Atenolfo II, arcivescovo metropolita di Capua, come vescovo di Isernia, ma anche di Venafro e Bojano, oltre che abate del Monastero di S. Vincenzo. Una tale concentrazione di cattedre tradisce tempi di spopolamento e crisi demografica, seguita a carestie e incursioni saracene (la distruzione dell’abbazia di S. Vincenzo per mano dei saraceni è dell’anno 881; i monaci ritorneranno a insediarsi solo nel 914). Già nel privilegio di papa Stefano IX, del 1058, la diocesi di Bojano non è più associata a Isernia e Venafro e, per di più, è indicata come suffraganea dell'arcidiocesi di Benevento, e non di Capua. Tra Isernia e Venafro, invece, l’unione aeque principaliter (cioè tra diocesi riconosciute “ugualmente importanti”, dunque conservando ciascuna cattedrale e capitolo) si conserverà – come vedremo – fino al 1207, allorché papa Innocenzo III, per porre fine ai dissidi fra i capitoli dei canonici delle due cattedrali (ruggini tra cipollari e trippaverdi risalgono quindi almeno al Mille, se non prima), stabilì nuovamente la separazione delle due diocesi.

Dipinto di Meo da Siena raffigurante un vescovo (dal web)


Gerardo segue Pietro da Ravenna, monaco benedettino proveniente da Montecassino, consacrato da papa Niccolò II vescovo di Isernia e Venafro nel 1059 o 1060. Ciarlanti indica nella Città della Cerra il luogo della consacrazione; Antonio Maria Mattei corregge in Acerra; altra fonte, più probabile, lo dà proprio in Montecassino: Niccolò II «venne alla Badia di Monte-Cassino, e pieno l’animo di que’ provvedimenti da prendersi, intese a vedere se erano tra i Cassinesi monaci acconci ai pastorali uffici, mondi di costumi, e tali quali erano necessari ad eseguire i canoni del Romano Concilio, e ne trovò qualcuno. Consagrò vescovo di Aquino Martino da Firenze monaco Cassinese uomo fornito di prudenza e di santi costumi, scacciando da quella sede Angelo già scomunicato da papa Leone IX per incontinenza e gitto che faceva del patrimonio della sua Chiesa; alle Chiese d’Isernia e Venafro prepose vescovo Pietro da Ravenna altro monaco; ed ordinò diacono cardinale il preposto o priore del monistero Oderisio figlio di Oderisio conte dei Marsi.» (Luigi Tosti, Storia della Badia di Monte-Cassino, Napoli, 1842). Il nome di Pietro vescovo è contenuto nell’atto di donazione con cui Bernardo conte di Isernia beneficia i benedettini cassinensi del monastero di San Marco di Carpinone, dallo stesso lì fondato «nel luogo detto  Aquasonula», perché vi insisteva una sorgente; del pari, Pietro si incontra, nel 1080, quale destinatario in un diploma del metropolita di Capua, arcivescovo Erveo, di assenso alla fondazione in città del monastero di Santa Maria delle Monache (così il Dizionario biografico degli italiani, voce Erveo). Ora, la fondazione della chiesa di S. Maria è senz’altro precedente al 1080: addirittura, una bolla di papa Giovanni IV († 642) sarebbe prova di una fondazione sotto i longobardi di Arechi I (594-604), ma è affermazione da assumere col beneficio del dubbio. In ogni caso, evidenze archeologiche e documentali (la donazione di Godescalco) ne sostengono l’edificazione intorno all’VIII secolo, che coincide poi con lo stesso arco temporale indicato per l’edificazione della Cattedrale: i due massimi edifici religiosi isernini sarebbero pertanto sorti nello stesso periodo). Va seguito Ciarlanti, che nell’atto di assenso di Erveo (che lo storico scrive Herveo) vede semplicemente un beneficio accordato al monastero femminile, non un atto di fondazione. Qualcuno (p.es. d’Apollonio, nel suo catalogo) considera questo Pietro del 1080 un nuovo e distinto vescovo rispetto a Pietro da Ravenna. Tuttavia non si hanno sufficienti elementi per confortare tale affermazione. Nelle cronotassi più accreditate, all’unico Pietro da Ravenna, segue un Leone vescovo, menzionato per l’anno 1092: in quella data, col proprio sigillo, approvò il passaggio ai benedettini di Montecassino della Chiesa di S. Croce di Pesche (Pescla), offerta da Rodolfo de Moulins (o de’ Molinis, con Ciarlanti, latinizzato in de Molisio), primo conte normanno che unificò nell’unica contea eponima (Molise) le preesistenti realtà comitali longobarde (Isernia, Bojano ecc.).


Pius Bonifacius Gams, Series episcoporum Ecclesiae Catholicae,
Leipzig 1931, pp. 939–940


Del successivo pastore isernino, Mauro, sappiamo fosse vescovo prima del 1105 e fino al 25 ottobre 1126, data della morte; era amalfitano e già abate di S. Vincenzo al Volturno. Sottoscrisse quale vescovo suffraganeo un documento del metropolita di Capua, Senne (1098-1118), di ridefinizione dei confini dell’arcidiocesi campana. Lo troviamo anche come testimone, insieme con Bernardo vescovo di Bojano, dell’atto di donazione con cui Ugo I, conte di Molise, beneficiò Oderisio di Montecassino del castello di Viticuso, della chiesa di San Benedetto a Monteroduni, e di quella di San Pietro a Sesto Campano.
Incerto il prosieguo: la cronotassi sedimentata apre dopo Mauro (deceduto per il 1126) una lunga lacuna fino a Rainaldo (circa 1170). Il catalogo del Capitolo della Cattedrale colma questo spazio con un Guglielmo di Capua, per l’anno 1126, che avrebbe «messo pace tra la diocesi di Capua e Montecassino» (così d’Apollonio) prima di essere traslato come pastore a Caiazzo, nella cui serie dei vescovi, in effetti, negli anni considerati, si danno un Guglielmo I (1155-1166) e un Guglielmo II (ante 1170- 9 gennaio 1181). Altro problema si apre per Rainaldo: per la cronotassi pubblicata dal Capitolo, e per d’Apollonio, con questo nome vi sarebbero stati due distinti pastori: un primo Rainaldo nel 1170; un successivo nel 1179. Anche qui non si comprende bene su quali elementi fondare la crasi. Semplifichiamo in un unico Rainaldo, vescovo di Isernia e Venafro (altro Rainaldo verrebbe indicato come vescovo nel primo ventennio del 1100, ma anche qui, siamo in terra abitata da leoni). Durante il mandato dell’ultimo Rainaldo, l’acredine tra le due diocesi aeque principaliter raggiunse il punto di rottura: a nulla servì avere un unico pastore se i due riottosi greggi tenevano ad mantenersi separati e a brucare ciascuno la propria erba. Si litigava per tutto: per chi dovesse benedire l’olio di giovedì santo; dove l’unico vescovo-duplex dovesse celebrare la festività del patrono, quel San Nicandro che era (o è?) patrono di entrambe le città. Si litigava pure per i confini interdiocesani e fu così che una disputa per l’appartenenza di Fossaceca, ora Fontegreca, si arrivò a ottenere l’intervento del pontefice, nella persona di papa Alessandro III, che concesse a Rainaldo come vescovo di Venafro privilegi a scapito dello stesso Rainaldo vescovo di Isernia («a nessuno è lecito temerariamente turbare la diocesi di Venafro, appropriarsi dei suoi beni …», detto per bolla papale). Fontegreca venafrana era, evidentemente, boccone amaro e gli isernini non potevano ingoiarlo facilmente: spinsero così sul medesimo vescovo Rainaldo, perché si muovesse con Roma per tutelare anche loro, i loro olii e il loro patrono. L’occasione venne con la partecipazione di Rainaldo al concilio ecumenico del 1179, il Lateranense III. Qui il vescovo conobbe il futuro papa Lucio III e, una volta indossata al tiara, gli riportò le istanze del Capitolo isernino. Ma Lucio non si spinse a ribaltare quanto già detto da Alessandro III e ne uscì fuori con una decisione salomonica: Fossaceca, così come tutti gli altri paesi delle diocesi indicati in bolla erano sotto il vescovo Rainaldo, che lo fossero in quanto vescovo di Isernia o di Venafro, poco rilevava (la bolla di Lucio III è conservata nell’Archivio capitolare in copia del 1625, ne parla diffusamente Mattei). Ma la salomonica decisione non attenuò livori e recriminazioni. Dovette interessarsene anche il successore di Rainaldo, quel Gentile che, nato a Aversa intorno al 1150, fu consacrato vescovo delle due riottose diocesi nel 1192 ma fece presto ritorno nella sua città di origine, andando a reggerne la chiesa forse già nel 1193, sollevato per non doversi più occupare delle beghe di campanile. Per vero, la rinuncia a Isernia e Venafro non fu proprio tranquilla: sono gli anni della transizione del Regno di Sicilia dai normanni di Guglielmo II d’Altavilla agli svevi di Enrico VI, transizione tutt’altro che pacifica: in punto di morte Guglielmo, privo di eredi diretti, avrebbe passato la corona a Costanza, sua zia, (perché sorella di Guglielmo I e figlia di Ruggero II d’Altavilla) e moglie dell’imperatore svevo. Ma un altro nipote di Ruggero II, il duca di Lecce Tancredi rivendicò la corona e si fece eleggere (novembre 1189)  Rex Siciliae da papa Clemente III, che non vedeva favorevolmente un unico monarca dalla Germania alla Sicilia. Nella lotta che ne seguì, Isernia e Venafro videro gli eserciti imperiali scesi per sostenere Costanza ed Enrico; Venafro venne  conquistata dai cavalieri tedeschi di Bertoldo di Kunig (1192) e abbandonata al saccheggio. In quell’occasione il vescovo Gentile che, come il papa, probabilmente sosteneva il partito di Tancredi, riparò ad Aversa e non fece più ritorno nelle diocesi assegnate, che rimasero per lungo tempo sede vacante: solo ne 1197 papa Celestino III traslò formalmente Gentile alla cattedra aversana, liberando la cattedra per Isernia e Venafro (una nutrita scheda biografica di Gentile, vescovo aversano, è data nel Dizionario biografico degli Italiani). Intanto, nel 1199, è la volta di Isernia ad essere saccheggiata e rasa al suolo dall’esercito imperiale guidato da Marcovaldo di Annweiler, nominato nel 1197 conte di Molise da Enrico VI: ce ne parla icasticamente Ciarlanti: «Tornò l’empio Marcovaldo con i suoi ladroni al contado di Molise, e vedendo che co’l suo esercito ritener non potea la città d’Isernia, la fé crudelmente saccheggiare e spogliare di quanto vi era da quei malvagi che vi fecero ogni possibile danno». Nessun vescovo fugge, questa volta: la sede è ancora vacante, e allorché si colmò il vuoto lasciato da Gentile sulla cattedra di Isernia  si creò nuovo esasperante conflitto. Successe che il Capitolo venafrano si scelse, in autonomia, quale vescovo un certo R. (è conosciuto con la sola iniziale) e quando R. fu inviato a Roma per riceverne la convalida dal papa, Celestino III – che aveva tutt’altri pensieri – sbrigativamente lo indicò anche quale vescovo di Isernia. Di nuovo un unico vescovo e per di più scelto dai venafrani. Nuove insistenti richieste a Roma. Tentativi di mediazione assegnati a questo o quel cardinale o notaio pontificio. Fino ad arrivare alla decisione tombale di papa Innocenzo III di tenere finalmente separate le due rissose greggi. È il 1208 e a Isernia, e solo a Isernia, c’è un nuovo vescovo, Dario.

Il vescovo Dario nel manoscritto inedito di Gio: Vincenzo Ciarlanti

Dario viene indicato da Ciarlanti – che trae l’inciso da una scrittura a suo tempo conservata in Isernia, in Cattedrale o in Santa Maria delle Monache, ma ora ignota – come «Darius Civis Ep’us Iserniensis»; sarebbe quindi nato ad Isernia e divenuto vescovo per elezione «…e può  essere, perché in que’ tempi si eliggevano i vescovi dai Capitoli e poi da’ Superiori si confirmavano e consegravano».
Antonio Maria Mattei, di contro, dà per ignota l’origine del vescovo; riporta, invece, che certamente la sua nomina a vescovo si ebbe per intercessione di Pietro da Celano, Conte di Molise, strenuo oppositore di Federico II (e, ça va sans dire, difensore del Papato contro lo Svevo). Il figlio di Pietro, Rainaldo, negli stessi anni è arcivescovo metropolita di Capua, e Dario insieme a Rainaldo partecipò come suffraganeo al Concilio Lateranense IV (1215).  
Il manoscritto inedito di Ciarlanti sui vescovi di Isernia chiarisce oltre la specialità di Dario vescovo: «In tempo del suo governo nell’anno 1215 fu qui il felicissimo nascimento del nostro S. Pietro Celestino papa V (…) A suo tempo ancora venne qui S. Francesco di persona  nell’anno 1222 e vi fondò il luogo detto sotto il nome di S. Stefano con l’autorità e consenso di detto vescovo». Ora, entrambe le affermazioni vanno staccate dall’album della Storia per essere considerate sul diverso piano della tradizione popolare: qui una memoria consolidata, secoli di fede popolare, possono valere più di una stringa di codice. Non entro nella diatriba anche un po’ noiosa sul luogo di nascita di Celestino, né sulla bontà della data indicata da Ciarlanti (il 1215) che non sarebbe compatibile con l’età alla data di morte. Quanto al viaggio di Francesco e alla sua tappa in città, siamo lontanissimi dall’aver fonti a conferma. Francesco d’Assisi viaggiò molto; la tradizione lo vuole in tante parti del Centro Italia, le biografie parlano di viaggi a Santiago di Compostela e in Egitto, per far pace con l’Islam (1219-1220). C’è traccia anche di un pellegrinaggio per raggiungere il santuario di San Michele Arcangelo, a Monte Sant’Angelo, sul Gargano (nel 1216 o, appunto, 1222). Potrebbe essere stato in questa occasione, che il santo di Assisi si sia fermato in città. Va da sé che sono tanti i luoghi nei quali si ha tradizione di una chiesa o convento fondato da Francesco. Per Isernia, potremmo anche essere davanti ad un calco, creatosi per mimesi rispetto a notizie di altre fondazioni. Ma anche no.
En passant, tanto per legare avvenimenti noti al nostro catalogo di pastori, va detto che nel 1223 Federico II, in una fase acuta della lotta che lo oppone a Tommaso da Celano, conte di Molise, fa distruggere le mura di Isernia e incendiare parte dell’abitato.
Torniamo a noi: al vescovo Dario, segue Teodoro, attestato nel 1230. Mattei, nel suo Isernia, una città ricca di storia ne dà per il 27 settembre 1230 la data di consacrazione. Appena nominato, entra in conflitto – per questioni di mensa vescovile – con la badessa del convento di Santa Maria (delle Monache) che scrive al papa Gregorio IX. 
Nello stesso lasso di tempo, tuttavia, ci sarebbe stato pure un Teodoro vescovo di Venafro (che non compare però nella cronotassi di quella diocesi), che paga la sua fedeltà al papato e contrarietà a Federico nel peggior modo, finendo impiccato in carcere nel 1236 (lo narra nel suo diario il cardinale Nicolò d’Aragona); un dubbio: che quel Teodoro pastore di Isernia sia in realtà questo Teodoro venafrano? 
Segue Ugo, vescovo «dal 17 febbraio 1233 al 28 febbraio 1244» (Mattei). È lui che nel 1241 consegna i beni delle chiese di Isernia allo spoliatore, scomunicato, Federico II.
Item Teodino, attestato dopo il 1244 è, che contemporaneamente è anche abate benedettino dell’antico monastero di San Vito della Valle, posto tra Isernia e Macchia (di San Vito, già nel 1597, era venuta meno la comunità monacale, tanto che l’abazia e i suoi beni vennero dal vescovo Numai attribuiti al Capitolo della Cattedrale).
Item Giovanni nel 1250 e uno, o più vescovi, di cui non si riporta alcun nome per gli anni 1255 e 1257. Non conviene ritenere sia Giovanni questo anonimo del 1522 e/o 1257 perché già nel 1254 c’è un indizio che farebbe propendere per una sede vacante: l’assenza del vescovo Giovanni, o di altro presbitero, si nota nella pergamena del 19 ottobre 1254, nella quale Ruggero di Celano, figlio di Tommaso, riconferma alla città di Isernia i privilegi già affermati dai suoi predecessori. Il fatto che, come testimone dell’atto, anziché il vescovo, sottoscriva l’arciprete della Cattedrale, Matteo («Domini Mathei, dicte Civitatis Archipresbyteri»), farebbe – si è detto – sostenere che la diocesi fosse, al tempo, retta dal vicario.
Per il 1258 abbiamo l’anagnino Nicola (che per d’Apollonio e la cronotassi data dal Capitolo è indicato come Pietro Nicola Morra; più semplicemente è Nicolaus per Bologna e Nic[c]olò nella cronotassi di Ughelli e Cappelletti). Mattei indica in Nicola il vescovo che, nel 1266, rimette il mandato nelle mani del papa Clemente IV, probabilmente per un suo sostegno alla causa di Manfredi, sconfitto e ucciso a Benevento; potrebbero tuttavia essere illazioni. Sepcie se si assume – come fa Michele da Bologna nelle Constitutiones, che inserisce un vescovo Uberto già nel 1263 (è invece sconosciuto nel catalogo consolidato).
Nei primi giorni dell’anno 1267, il Capitolo della cattedrale elegge come proprio pastore Enrico da San Germano, francescano dell’Ordine dei frati minori. Il vescovo eletto viene confermato il 20 febbraio dello stesso anno con bolla del pontefice Clemente IV inviata a Rodolfo, cardinale di Albano e legato apostolico presso la corte del Rex Siciliae che da meno di un anno – si è anticipato: battaglia di Benevento, del 26 febbraio 1266 – è retto da Carlo d’Angiò. Dovrebbe essere con Enrico che si completa la costruzione della chiesa di San Francesco.


Papa Celestino V (web)


Enrico, tuttavia, resse la diocesi per pochi mesi, posto che nello stesso 1267 (10 settembre 1267, secondo Mattei) abbiamo un nuovo e diverso vescovo, Matteo – forse lo stesso Matteo archipresbyter che troviamo testimone dell’atto di concessione di Ruggero da Celano – il cui mandato invece arriva fino al 1281. È con Matteo vescovo che Alferio di Isernia (del notabilato cittadino, perché magistrato presso la Magna Curia napoletana), a proprie spese, edifica e dona alle clarisse, il monastero di Santa Chiara, seconda casa religiosa cittadina dell’Ordine francescano; sempre Matteo a riconoscere al monastero di S. Spirito, di fondazione celestiniana, l’esenzione dalla giurisdizione del vescovo, con proprio atto del 4 di settembre del 1276 (la pergamena, come molte qui citate, è conservata presso l’Archivio capitolare di Isernia). Poco anni prima, infatti, il  10  ottobre  1272, il giudice isernino Filippo Benvenuto e sua moglie, donna Glorietta, devolvono a fratello Placido,  procuratore  della  chiesa  di  S.  Spirito  della  Maiella,  una  vigna «infra fines civitatis Isernie a parte orientis, in loco ubi Pons de Arcu dicitur» perché vi costruisca una chiesa dedicata allo Spirito Santo. È l’atto di  fondazione del convento dei Celestini, poi portato in città (nel luogo in cui ora rimane, orfana, la sola Chiesa di S. Pietro Celestino) nel 1623.
Matteo è attestato fino al 1282. Gli succede Nicolò Valenzano, Nicola II (come da altri indicato, coll’indicazione dell’ordinale, dopo il vescovo Nicola del 1258). Nicolò Valenzano era canonico del Capitolo della Cattedrale di Capua, e a Capua muore l’11 aprile 1287 dove si era recato per proseguire per Roma.
Segue il vescovo Roberto, testimoniato per la prima volta nel 1287. «Di questo vescovo» - scrive Ciarlanti - «si veggono in Isernia molte memorie di S. Chiara e della chiesa della Fraternita». È, infatti, Roberto ad approvare con proprio decreto del 1° ottobre 1289, i capitoli dell’antica confraternita (la Fraternita, o Fraterna) istituita in città per volere di S. Pietro Celestino presso la Chiesa della Concezione (en passant, la confraternita battezza anche la, più nota, Fontana della Fraterna). Il decreto è conosciuto per effetto di un antigrafo del XVI secolo conservato nell’Archivio capitolare di Isernia, da qualcuno ritenuto infedele dell’originale perché contiene un inciso pericoloso per la vexata quaestio del luogo di nascita di Celestino: là dove dice «… per interessamento di fra Pietro da Morrone, cittadino di questa città di Isernia» (nella traduzione pubblicata da Valente in Isernia Origine e Crescita di una città ). Ritroviamo Roberto anche in una scrittura del 1292 del monastero di Santa Chiara, allorché concede il suo beneplacito di vescovo alla badessa, madre Filippa Euricella, per la vendita di un monastero che l’Ordine aveva in Agnone.


lunedì 9 aprile 2018

«L'autunno del 1860 a Isernia» - Per l'inaugurazione della sezione "1860" del Museo Civico


(articolo pubblicato su Il Quotidiano del Molise, lunedì 9 aprile 2018, pag. 13)


Sabato scorso, 7 aprile, è stata inaugurata la sezione del Museo Civico dedicata alla Reazione dell’autunno 1860, episodio infelice ma comunque determinante per la città e la sua storia, anzi tra quelli che più l’hanno – seppure in negativo – proiettata sul fondale della Storia nazionale. Per questo, l’apertura delle due sale dedicate – grazie all’impegno del curatore dell’esposizione, Duilio Vigliotti, cui va ogni merito, e alla preziosa collaborazione del Museo internazionale delle guerre mondiali  – colma una lacuna e riconferma, in pieno, il senso di un istituzione che si vuole “Museo della Memoria”. Perché, come dice bene Octavio Paz, la memoria non è tanto ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda, che ricorda a chi verrà quello che siamo stati, come singoli o come comunità, in tempi diversi. 

(foto Massimo Palmieri)

«Nel 1860 Isernia ebbe a palesare tali abominevoli vergogne, che tutte quante le sue passate glorie ne rimasero spente. Il di lei nome disonorato fe’ il giro d’Europa, e quantunque l’opera nefanda fosse compita da pochi retrivi, pure, l’essere questi fra i primarii della terra, fe’ sì, che la colpa si spandesse sulla maggioranza de’ cittadini, che pur non era meritevole di biasimo.»
Così, pochi anni dopo, scriveva della sciagurata città d'origine del deputato Stefano Jadopi il giornalista milanese Cletto Arrighi, presentando gli eletti nel primo parlamento nazionale insediatosi a palazzo Carignano. Non una voce isolata quella di Arrighi: contro Isernia, a Torino (ma anche a Londra, dove ci fu una seduta parlamentare dedicata ai fatti di casa nostra) vennero pronunciate parole pesanti come pietre: abominio, vergogne, opera nefanda. Come è oggi, forse, per Scampia, Isernia riuscì allora ad essere luogo immediatamente evocativo di ogni male: Isernia era la bestemmia che offendeva il nuovo credo: quella Religione della Patria di cui parla il garibaldino Crispi e che aveva per ossequianti sacerdoti i tantissimi cronisti e storiografi, organici al nuovo corso sabaudo, che attraverso articoli e memoriali assunsero il compito di evangelizzare i nuovi italiani, spesso anche omettendo e mistificando dati della realtà.
Chiediamoci: cosa mai era successo, in città, di tanto rimarchevole da farne risuonare in tutta Europa il nome, circonfuso di tale triste fama?


Diciamo subito che in città, concentrati in venti terribili giorni (30 settembre/20 ottobre), si ebbero davvero incendi, devastazioni e stragi; si contarono morti in malo modo: accecati, seviziati à la bajonnette, appesi e poi evirati. Si videro teste garibaldine spiccate ai legittimi proprietari, fatte rotolare per le scale vanvitelliane di Palazzo Jadopi e poste, poi, a trofeo sotto gli archi della Fontana Fraterna. Come in un carnevale macabro, in un osceno sabba, in quei giorni di inizio autunno, in città, si ebbe una sospensione di ogni principio morale, di ogni elementare norma di umana convivenza. Con Dio dalla loro parte – garanti il vescovo Gennaro Saladino e buona parte degli ottimati cittadini – e nelle tasche le carte di libero fare sottoscritte da re Francesco in persona, i cafoni di Isernia, lungamente compressi da una vita di stenti e privazioni, esplosero il loro veleno all’indirizzo dei pochi liberali cittadini, galantuomini in finanziera e pantaloni lunghi.

Per raccontare come fu che la notte del 30 settembre 1860, a Isernia, la Reazione conflagrò improvvisa, occorre un passo indietro. Con Francesco II in malinconica clausura a Gaeta, il 7 settembre 1860, Garibaldi entra a Napoli in trionfo.  È un momento di stanchezza e le Camicie rosse, spossate dalla veloce risalita dello Stivale, si assestano lungo il Volturno e fronteggiano un esercito regio ricompattato e, per la prima volta, motivato a combattere. In questo contesto, l’8 settembre, Isernia muta bandiera e, da fedelissima città borbonica, passa al campo savoiardo. «Cittadini, Municipio, Clero, Guardia Nazionale e Autorità tutte di Isernia» scrivono al dittatore Garibaldi rendendo «consen­ziente omaggio per l’annessione al Regno italiano sotto lo scettro di Vittorio Emanuele». Ma solo pochi, tra gli isernini, possono dirsi sinceri sostenitori dell’opzione unitaria: tra di essi, certamente, don Stefano Jadopi, nominato nuovo sindaco perché di fede liberale, ma altri galantuomini scelgono la via – italianissima – dell’attendismo, alcuni; del doppio gioco altri, che firmano per Garibaldi  ma impegnano la seconda metà del mese di settembre a fare intelligenze con la corte di Gaeta, preparando la sollevazione della città.


Isernia, c’è da dire, non è un posto a caso sulla mappa. È uno snodo fondamentale, importante retrovia del fronte garibaldino. Così, far sollevare in concomitanza con la grande battaglia sul Volturno (che ci sarà infatti il 1° di ottobre), che vede, per la prima volta da Marsala l’esercito di Franceschiello finalmente mostrare i denti, assume strategicamente il senso di accendere fuochi alle spalle dei garibaldini e distrarre forze che dovrebbero servire altrove.  

Così, nella notte del 30 di settembre, armati di ronche, forconi e qualche fucile strappato alle smarrite Guardie nazionali, settecento contadini, forse anche mille, procedono come un fiume che abbia rotto gli argini e si riversa in piena lungo lo stretto budello che, ab urbe condita, attraversa Isernia correndo da nord a sud, dal Largo della Fiera fino al Convento dei Celestini, sede della Sottointendenza. La cingono d’assedio, mettono in fuga le poche camicie rosse a presidio di quell’Alamo; poi rivolgono le punte dei forconi verso palazzo De Baggis, che è di fronte, ultimo riparo dei liberali cittadini. Qui uccidono il padrone di casa; feriscono a morte il figlio ventenne di Stefano Jadopi, Francesco; il giudice mandamentale Ferdinando Boccia si salva solo perché si finge cadavere. L’orribile notte termina coi saccheggi e gli arresti arbitrari di quanti vengono riconosciuti come liberali. Il giorno dopo, 1° di ottobre, a una città che è in piazza, con le armi ancora calde in pugno, fa da contraltare un’altra città, attonita, sgomenta che inizia a nascondersi, a fuggire. 
In poco più di venti giorni, Isernia viene riconquistata e ripersa più volte e come un osso, che via via si consuma, si divide tra due cani ringhiosi. La spedizione garibaldina del neonominato governatore della provincia di Molise, Nicola De Luca, giunge a Isernia  la sera del 4 ottobre e aggiunge nuovo sangue a quello già versato. Ma la città è  libera e liberale per una sola notte: la mattina di venerdì 5 ottobre, da Venafro, ripartono i borbonici del maggiore De Liguori e si riprendono, in punta di baionetta, la città, che conserveranno fino alla Battaglia del Macerone. Intanto, il 17 ottobre, nella piana di Pettoranello, la gendarmeria borbonica e la fucileria dei cafoni nostrani chiudono a tenaglia gli smarriti garibaldini della Colonna Nullo, venuti da Bojano a riprendersi, ancora una volta, Isernia. È strage di Camicie rosse, durante e dopo la battaglia: a notte la campagna si riempie degli sbandati, che prendono a vagare senza direzione e, quando presi, subiscono sevizie e morte per decapitazione.  

Vittoria inutile, tuttavia, quella riportata a Pettorano. A Isernia non si festeggia: la città è intristita e contempla le sue macerie, non solo materiali. S’inizia a realizzare l’ineluttabilità di un destino deciso altrove, che porterà gli isernini ad essere presto sudditi di un diverso re. Vittorio Emanuele sta infatti scendendo col suo esercito a prendersi il Sud. Il 20 ottobre 1860, nella nebbia del Macerone, l’avanguardia piemontese ha facile ragione delle poco motivate forze borboniche, guidate dall’ottantenne Luigi Scotti Douglas. C’è la resa. La cavalleria sabauda entra al galoppo in città. Appena insediatosi, la sera del 20, il nuovo comandante della piazza, il generale Cialdini, telegrafa al governatore De Luca e dice: «Faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e do quartiere soltanto alle truppe. Oggi ho già incominciato»; e non millanta: davanti al plotone di esecuzione cadono in giornata i primi dieci paesani scelti tra quelli che al Macerone gli hanno contrastato il passo.



Nessun plebiscito si inscena a Isernia per il 21 di ottobre: l’adesione al nuovo Regno viene data per scontata. Re Vittorio verrà in città di lì a due giorni. Dorme una sola notte sola, in casa di don Vincenzo Cimorelli, prima reazionario e ora campione cittadino di quel trasformismo nuova moda nazionale. Nel suo entourage annotano che Vittorio Emanuele rimanga così fortemente colpito dalla città da esclamare: «Se non fosse città italiana l’avrei trattata da re barbaro».