martedì 1 ottobre 2013

La fiera in un atto di ricorso del 1790



L’Archivio storico comunale, ospitato presso la Biblioteca “Michele Romano”, per quanto sia – come le antiche cave di Lampsaco, Atarneo e Cremaste – miniera conosciuta e già ampiamente sfruttata, offre sempre la sorpresa di nuove vene aurifere, che si rinvengono appena dietro il cartoncino increspato di un faldone.
In busta 3, fascicolo 67, c’è un’inedita pagina di storia cittadina che racconta di un contrasto – tuttavia molto terreno – tra autorità civili e religiose, consumatosi nell’Universitas isernina del 1790, sotto il regno di Ferdinando IV di Napoli. Da una parte, i canonici del Capitolo della Cattedrale, arciprete e primicerio in testa; dall’altra i membri del Consiglio, espressione del notabilato cittadino. Oggetto di contesa, le taverne della Fiera di San Cosmo.
L’atto di ricorso ha data 24 settembre 1790, appena prima dell’inizio della fiera intitolata ai Santi medici (26, 27 e 28 settembre). Dinanzi alla Regia Corte cittadina – che agisce in città come organo della napoletana Camera della Sommaria – compaiono «gli attuali governanti di essa Università» per lamentare che «né devono né possono senza taccia di malgoverno vedere con occhio indifferente» ciò che ritengono un abuso dei canonici, perpetrato ai danni degli isernini tutti. È successo che, modificando una consuetudine che si ripete di anno in anno, il Capitolo – da cui dipende l’amministrazione dell’Eremo dei SS. Cosma e Damiano – ha vietato agli isernini, in occasione della fiera, «di poter formare extra moenia taverne amovibili a pubblica comodità del numerosissimo popolo» che allora, come oggi, nei giorni di festa si riversa verso l’eremo. 


Per avere un’idea di cosa siano le taverne oggetto di causa –  sull’assunto che poco più di centocinquant’anni siano lasso di tempo che non scalfisce il costume di un popolo, in assenza di televisione e altri media – riportiamo ciò che scrive Franco Ciampitti riferendosi alla sua Fiera, quella degli anni ’40 del Novecento, nella quale isernini e forestieri «vanno e vengono in flusso continuo dal paese all’eremo e dall’eremo al paese e affollano le baracche di frasche dove si mangia e si beve (…) Truculenti trofei di polli e di agnelli invitano la gente, l’aspro odore di diabolici peperoni giunge alle nari e sveglia famelici appetiti e dai barili spilla bianco o rosso lo zampillo del nettare e canestri di uve giungono dai campi ed enormi collane di biscotti duri pepati s’infrangono sulle tavole»[1]. E anche in questo nuovo millennio, pur se le baracche di frasche hanno ceduto spazio ai ridondanti porchettari autofurgonati e più rara è la scampagnata, la fiera non appare così dissimile da come doveva essere a fine Settecento: chi ne ha esperienza sa che anche oggi il percorso dei pellegrini verso l’eremo è scandito, nel centro storico, da un continuo di banchi e bancarelle che si protendono, dalle botteghe, sulla strada; vetrinette e piastre e griglie che compaiono per l’occasione fuori da bar e alimentari; prezzi per panini pret-a-manger che scritti a penna su coperchi di scatole di scarpe, istoriati di santini, e ovunque il tortano, il pane ritorto del pellegrino facile da portare per via, indossato come un manicotto.
Ma a fine Settecento, l’anatema dei canonici verso le taverne di frasche significa qualcosa di più che togliere agli isernini il movente di una scampagnata: i tre giorni di fiera e gli improvvisati stazzi frascati costituiscono occasione per far quadrare i magri – se non magrissimi – bilanci domestici di una popolazione che vive essenzialmente di povera agricoltura: l’arrivo in città di popolo numerosissimo consente agli isernini di mettere su taverna e vendere, nei tre giorni di fiera, a paesani e forestieri, il misero street food loro accessibile, pane e vino e poco di più; non certo l’olio santo o quegli ex voto di cera tanto celebri che turbarono nel suo britannico aplomp sir William Hamilton e la cui vendita doveva rimanere appannaggio dei religiosi. E infatti, davanti alla Regia Corte, gli ottimati di Isernia dichiarano che il Capitolo, nel vietare le baracche, non è mosso da motivazioni alte, il rispetto dovuto alla santità del luogo o un savonaroliano biasimo per pappatorie e sbornie: non si tratta di scacciare i mercanti dal Tempio, quanto, più banalmente, di difendere i mercanti autorizzati e imporre il monopolio anche sul cibo di strada. «Quanti scandali e quante ancarie si commettono (…) quante frodi, quanti furti sotto l’ombra caritatevole ecclesiastica.»
Ci soccorre, per comprendere meglio gli interessi in gioco, l’anonimo estensore della celebre “lettera da Isernia” presentata dal già citato Sir Hamilton al presidente della Royal Society di Londra e resa pubblica da Richard Payne Knight, cultore di studi priapici, laddove ci dice – con riferimento all’anno 1780 – che «la Fiera è di 50 baracche a fabbrica ed i canonici affittano le baracche, alcune 10, altre 15, al più 20 carlini l’una; affittano ancora per tre giorni l’osteria fatta di fabbrica ducati 20 e i comestibili sono benedetti»[2]. Il divieto posto dai Canonici e impugnato dagli ottimati isernini riguarda, pertanto, la difesa dell’osteria fatta di fabbrica (cioè in muratura), unica autorizzata dal Capitolo alla rivendita di cibo ai pellegrini, contro le improvvisate baracche di frasche degli isernini.


A leggere fin qui, il Capitolo parrebbe aver ragione: in fondo chi erige taverna di frasche è, a stretto rigore, un abusivo rispetto ai fittajuoli. La circostanza viene riconosciuta dagli stessi ricorrenti: anche in precedenza i canonici ponevano il divieto ai cittadini di erigere taverne in prossimità della Chiesa: «Negli anni addietro si enunciò che le bettole non si potessero fare nel circuito della chiesa di San Cosmo, che è di lui (= cioè del Capitolo della Cattedrale) grancia». Legittimamente, dunque, il Capitolo può decidere di consentire o vietare attività nel proprio ambito; ma nel settembre 1790 i religiosi estendono il divieto a tutti i fondi che si trovano extra moenia, vietando l’erezione di taverne in ognidove, anche su terreni che pertengono al Demanio o a «varij padroni».
Si perviene, così, al fondamento giuridico del ricorso: si eccepisce che il «preteso diritto proibitivo» esercitato dal Capitolo della Cattedrale è prerogativa del sovrano e perciò – agendo come agisce – «esso Rev.mo Capitolo vuol porsi superiore alle Leggi ed al Principe istesso col voler sostenere scandalosamente e illegitimamente  un diritto di monopolio (…) Sotto il felicissimo governo del nostro Re Ferdinando IV (Dio feliciti) tal sorte di diritto sembra inverisimile al solo sentirsi». A ragione, pertanto, si adisce la competenza dell’organo periferico della Sommaria, collegio che svolge – tra i tanti suoi compiti – attività giurisdizionale in tutte le cause che riguardino cause finanziarie e fiscali: il patrimonio personale del re, l'erario pubblico, la difesa di prerogative regie verso i feudatari o, come in questo caso, verso altri poteri periferici.  
Non ci è dato sapere in che modo il giudice adito risolve la controversia: l’Archivio storico comunale non conserva copia della sentenza:  c’è da comprendere, gli incendi (1799), i terremoti (1805), i bombardamenti e le mine dell’ultima guerra hanno decimato il numero dei documenti conservati e ora disponibili per la consultazione; ma, come si diceva, ancora molto è da estrarre e portare alla luce.  


[1] Franco Ciampitti, Le Sagre della gioia e del dolore, in Aesernia, a cura di S. d’Acunto, Agnone 1947, p. 41.
[2] Richard Payne Knight, Il culto di Priapo e i suoi rapporti con la teologia mistica degli antichi, con un saggio sul culto dei poteri generatori nel medioevo, Roma 1981, p. 35.

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