Su Carmilla on line si parla di Aesernia Calcio.
Se ne parla per lanciare «Fútbologia», festival internazionale e internazionalista per ripensare il calcio.
Facciamo rimbalzare qui la palla, per i nostri sei lettori quotidiani.
Se ne parla per lanciare «Fútbologia», festival internazionale e internazionalista per ripensare il calcio.
Facciamo rimbalzare qui la palla, per i nostri sei lettori quotidiani.
ZZ III
di Christiano "Christo" PresuttiRicorreva il terzo anniversario della fine della guerra.
Tre anni esatti dalla firma del trattato di pace mondiale di Berna. In ogni città erano celebrazioni e sommosse, messe cantate e masse suonate.
Sempre in quel giorno si concludeva la prima edizione del campionato continentale di Lega Grande Europa.
Era il giorno numero 171, correva l’anno 62 Dopo Breivik.
Una partita da giocare, tre squadre in testa alla classifica con gli stessi punti: Sa Zoventude Nuova Cagliari, Das Kapital Duisburg e Aesernia Calcio.
A Podgorica, fuori dallo stadio, si contavano otto morti.
Dentro lo stadio, sotto i riflettori, l’Aesernia Calcio incontrava i Montenegro Killers, la squadra locale in lotta per la retrocessione. Da sempre, da tutti, considerati avversari mortali in casa.
Già da molto tempo prima che la partita fosse iniziata, i tifosi del Montenegro scagliavano bulloni e mazze di ferro contro l’acciaio della panchina blindata degli ospiti. Zdeněk Zeman III, con tipica espressione imperturbabile, sembrava ignorare quel frastuono.
Lo sguardo monocolo fissava il campo da gioco blu cobalto, il volto era illuminato dal basso dai riflessi delle strisce laterali al neon. L’occhio destro era coperto da una benda nera per celare il vuoto lasciato dalla guerra, aveva il collo immobile e non voltava mai la testa. In effetti l’unico movimento del corpo era quello dell’occhio sinistro, che seguiva ora la palla, ora i giocatori, a volte altro, nel vuoto, i suoi pensieri al tempo stesso lì e altrove.
La sirena del calcio d’inizio risuonò marziale a coprire il chiasso dello stadio. I cinquanta arbitri in tenuta antisommossa sfoderarono i manganelli e la partita ebbe inizio.
A quel punto Zeman III portò lentamente la mano alla bocca e mosse appena le labbra. Aveva acceso la prima delle sue Lucky psichiche senza filtro e sbuffò via una nuvola di niente dalla bocca semichiusa.
Io, molto più anziano di lui, sedevo sull’altra panchina.
L’ultima partita – ancora una – alla guida dei miei Killers.
Il gioco non catturava la mia attenzione. I giocatori giocavano, gli arbitri menavano, io continuavo a fissare il mio avversario. Nel farlo, scorrevo a mente le foto, i libri, i disegni, i ritagli: tutti i reperti vintage da collezione che riguardavano il suo celebre antenato e che conservavo da anni. Non permettevo a nessuno di toccarli. A chi mi chiedeva di vederli, a chi voleva saperne qualcosa, semplicemente li raccontavo, li elencavo a memoria, con attenzione ai particolari.
All’inizio, quando avevo preso a farlo, pensavo che potesse servire a qualcosa. Nessuno mi aveva mai dato retta.
Oramai, per quanto perseverassi in questo mio rituale, esso avveniva nella tipica inerzia delle cose che, quando si è avanti con la vita, si continuano a fare anche se si è smesso di crederci da tempo, come andare in chiesa senza avere più religione, come scopare una donna che non si desidera più, come insegnare calcio quando il calcio – quello che tu pensi debba essere il calcio – non esiste più da tempo. Cenere.
Da lì a poche ore sarei morto. A partita finita sarebbero stati i miei stessi giocatori a uccidermi nello spogliatoio. Questo avrebbe permesso loro di presentare una vendetta consumata e, in questo modo, salvarsi la vita dai tifosi inferociti per la retrocessione.
Io lo sapevo, gli sarei andato incontro, glielo avrei lasciato fare. In verità speravo che i miei giocatori trovassero la salvezza e io la mia salvazione.
Ma il buio era sceso da prima della guerra.
Nessuno, in realtà, si sarebbe più salvato.
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