martedì 20 giugno 2017

Il 1860 a Carpinone


Articolo pubblicato su ArcheoMolise n. 28, anno IX, 
numero monografico dedicato a Carpinone

Il 1860 a Carpinone
di Gabriele Venditti

«Pettorano, Carpinone, Isernia, meritereste che su voi non venisse più né pioggia né rugiada, fin che durerà la memoria dei nostri, ingannati e messi in caccia e uccisi pei vostri campi e pei vostri boschi!». 

Se dopo l’autunno del 1860 la pioggia ha continuato – per fortuna – a cadere su Carpinone, lo ha fatto a dispetto della maledizione scagliata dalla camicia rossa Giuseppe Cesare Abba e affidata al suo memoriale Da Quarto al Volturno, edito nel 1891. Fu grazie a simili sentenze che Carpinone, come altri centri della Reazione, si guadagnò cattiva fama agli occhi dei regnicoli e si creò a mezzo stampa il mito del cafone  – «straccioni, con sandali di pelle di capra, con feltro a tronco di cono, messi sossopra da un vescovo per riavere il Borbone e la schiavitù» (Mario) – che uccide a roncolate al grido di Viva Francesco e viva Maria!, nemico perfetto – come oggi lo jihadista – contro cui riversare l’odio, mastice unificante della nuova nazione italiana.
Cosa successe di tanto aberrante, qui da noi, in quell’ottobre del 1860? Esistono momenti in cui la Storia accelera bruscamente e paesi in cui per decenni non si è registrato nulla di rilevante vengono scossi dall’immobilità e si condensano in giorni eventi tali da qualificare un secolo intero, straordinari nel senso letterale del termine. Nel 1860, a Carpinone come altrove, si combatté una guerra civile che esplose rapida, bruciò per pochi giorni e lasciò lutti, rancore e miseria – morale e materiale – ad aggiungersi alla miseria già conosciuta. Pochi pagarono per tutti, con la morte o con condanne a vita ai lavori forzati. Dopo il diluvio, si tornò presto all’usuale torpore, al lento scorrere dei giorni.
Con Garibaldi entrato trionfalmente a Napoli il 7 di settembre 1860 e Francesco II arroccato a Gaeta, le sorti del Regno delle due Sicilie sono segnate. Anche in periferia è tutto un adeguarsi al nuovo corso. I liberali di vecchia e nuova data alzano la testa; nelle province e circondari al di qua del Volturno si mutano insegne e il tricolore del Governo provvisorio sostituisce i gigli dei Borbone. Ovunque gli ottimati, salvo le limitate estreme frange di quanti per tempo si sono già apertamente schierati, rimangono attendisti, ipocritamente aderenti al nuovo, poiché il nuovo avanza, ma pronti a riabbracciare il vecchio regime. Così, sotto la cenere di una rivoluzione rapida e, apparentemente, assimilata, cova pronto il fuoco dell’insorgenza legittimista.
C’è un’unica regìa dietro il conflagrare violento della Reazione, a Carpinone come altrove, nella notte del 30 settembre 1860. La data non è scelta a caso: si è appena prima della grande Battaglia del Volturno, del 1 di ottobre, che vede per la prima volta l’Esercito duosiciliano in chiave offensiva contro i garibaldini dell’Esercito meridionale, da troppo tempo fermi sulla linea del fronte e stanchi a dover sostenere il peso di una campagna che si trascina da un semestre. Questa stasi viene impegnata dagli strateghi di Francesco II per apprestare e tradurre in atto un articolato piano politico-militare che prevede la riorganizzazione dell’esercito, l’attacco frontale ai garibaldini per riprendere Napoli e – questa la parte che ci interessa – castigare attraverso l’insorgenza popolare i traditori che hanno alzato la bandiera del governo provvisorio in Irpinia, nel Sannio, in Molise e Abruzzo. I torbidi vengono, dunque, sollecitati da Gaeta per distrarre a Garibaldi uomini e mezzi. Ovunque si appiccano fuochi alle spalle delle Camicie rosse.
A Carpinone, l’abbrivo, il 30 settembre, segue la voce che truppe borboniche sono in rapido avvicinamento a Isernia provenienti dalla Terra di Lavoro. Verso mezzogiorno, giunge in paese una carrozza proveniente da Maddaloni, dalla quale scendono vari galantuomini, ospiti del canonico don Giuseppe Iamurri. Per strada rimane il calessiere ed è da lui probabilmente che Giovanni Tamasi, detto Pasticcio, ha la notizia dei reggimenti in marcia. Nel pomeriggio, poi, conferme vengono raccolte da quanti, spaventati, hanno lasciato Isernia e per riparare a Campobasso. A quel punto «un cupo fremito di popolo incominciò a serpeggiare per le vie di Carpinone; i liberali presentivano la procella.» (Valente)
Quella sera, al quartiere della Guardia Nazionale –  a la Croce, sotto Palazzo Iamurri – è di turno il capo sezione Gaetano Fazio, di professione notaio. Con lui, il secondo, Leonardo Di Giovanni, e pochi altri uomini: molti dei mobilitati, fiutato il pericolo, non si sono presentati. Entra, con altri sodali, Giovanni Tamasi – quello stesso del calessiere – e, con portamento da gradasso, ordina in nome di Francesco II la mobilitazione generale: tutti devono armarsi per proclamare e festeggiare il ritorno del re e fare la pelle ai galantuomini – cosa che viene prontamente eseguita, poiché chi lo segue si impadronisce dei fucili del corpo di guardia. Pasticcio dice a Fazio che il sindaco,  Gabriele Valente, lo ha fatto chiamare e nelle sue mani di contadino ha rimesso la carica; continua dicendo che ha rinunciato anche il secondo eletto, Gabriele Venditti; che da quel momento ogni contadino può andare a suo bell’agio a dividersi la Montagna e la tenuta comunale di Selvapiana. Poi minaccia: corrono tempi procellosi ed è brutto mondo, in cui ognuno può incorrere in un malanno


L'arresto dei briganti (via web)


Il 30 non muore nessuno: fino qui è tutto limitato a una carnascialesca, sguaiata festa di piazza. Gli atti processuali, vergati già in inchiostro sabaudo, parlano di orge invereconde e di un mastro Pietro Venditti – mastro perché ciabattino – che in quella sera e nei giorni successivi ne è il cerimoniere, giacché

«innalzato un altare in mezzo a largo Croce, esponeva alla venerazione quell’effigie, alle quali col turibolo dava l’incenso; ed onde apparisse chiaro il concetto di quei baccanali, lo stesso cerimoniere erasi provveduto di una quantità di budella d’agnello, e quelle mostrando diceva: “A canne si debbono vendere, come queste, le budella dei liberali”. E quasi non bastassero tali eccitamenti vi si aggiungeva la danza, i ribelli vi si atteggiavano a cannibali accennando a stragi e saccheggi.» (Valente)

Per inciso, mastro Pietro Venditti è l’autore della celebre lettera a Francesco II in cui, vantando l’uccisione di un tenente garibaldino, chiede al sovrano, in premio, di aver per sé e progenie la licenza da rivenditore di sale e tabacchi.
Il giorno successivo, primo di ottobre, i nuovi padroni del paese prelevano di forza l’arciprete Michelangelo Scioli scortandolo fino in chiesa; qui gli impongono la recita solenne del Te Deum per Francesco II; ne segue una processione accompagnata dalla banda, come fosse il 16 di agosto, San Rocco.

Pietro Valente p.Il 1860 a Isernia, Pettoranello e Carpinone - Notizie storiche, inedito.
Copia in manoscritto di Erminia Testa (1932), Archivio privato Venditti. - Frontespizio

Le cose cominciano a farsi sul serio solo successivamente: nella notte tra il 3 e 4 ottobre, arrivata la notizia che, finalmente, Isernia ha visto l’ingresso della compagnia di gendarmi regi comandata dal maggiore De Liguori, la Reazione carpinonese dà un nuovo giro di vite: per ordine del noto Giovanni Tamasi  viene  fatta la requisizione di armi nelle case dei galantuomini (vengono disarmati, fra gli altri, Giovanni De Simone, Emilio Di Blasio, Nicolangelo Sassi, Giacinto Carnevale, Gabriele Venditti). L’occasione è colta per altro genere di requisizioni – a casa di  Gennaro Ciccone, possidente, si involano 2000 ducati e vengono incendiate le carte di famiglia; al notaio De Simone «asportate tutte le carte dello studio, la intera libreria del valore di ducati 1800, tomoli 60 di grano». Quella stessa notte, in undici vengono arrestati – «furono strappati dai domestici lari i signori Costanzo Petrunti, Saverio De Blasio, Saverio Antenucci, Domenico Ciccone, i giovani figli di Gennaro Ciccone, Vincenzo e Federico, Francesco De Dominicis, Fiorangelo Tamasi e altri» (Valente) – che, a piedi, vengono avviati verso le carceri di Isernia, subendo lungo la via sevizie e minacce di morte. La loro prigionia dura poco: il Governatore di Molise, Nicola De Luca, giunto in città nella notte del 4 di ottobre con i suoi ottocento militi, libera tutti i detenuti; quando poi, meno di un giorno dopo, le truppe borboniche e i cafoni di Salzillo, da Venafro, riconquisteranno nuovamente la città, si uniranno alla fuga scomposta dei liberali isernini e dei garibaldini di De Luca, lungo la via degli Abruzzi, per Rionero e Castel di Sangro; chi rimane attardato, verrà raggiunto e trucidato: fra questi, i carpinonesi Saverio De Blasio, suo figlio Gaetano e Francesco Sassi.
In paese, altri liberali, scampati agli arresti 3 ottobre, provano a sottrarsi con la fuga per i campi, come fa l’ottuagenario canonico don Giuseppe Guerra, ma dopo giorni passati ad errare di tugurio in tugurio – quanto gli permettono l’età e la gotta – viene finalmente preso il 5 di ottobre e avviato in ceppi prima a Isernia, poi a Gaeta.
Fermiamoci un attimo: conosciamo meglio gli attori di questa commedia diventata dramma. Richiamiamo in scena quel don Gaetano Fazio che abbiamo conosciuto come vittima del gradasso Giovanni Tamasi. Negli atti processuali, così come da Iadopi, viene indicato come la mente occulta della reazione carpinonese: testimonianze concordanti – Fiorangelo Tamasi, Gennaro Ciccone – lo indicano, fin dalla metà di settembre, come sobillatore dei più esposti Giovanni Tamasi e Felice Valente, Zaccaria: è lui a sedurli, a parole e denaro. Altro grande accusatore di Fazio è quel Giovanni De Simone, pure lui notaio, che abbiamo già incontrato disarmato e derubato nella notte del 3 ottobre. In una sua querela al Procuratore del Re del 26 gennaio 1861 – tra le altre nefandezze grandi e piccole che riversa sul collega –  lo accusa di aver, nella notte del 4 ottobre, spedito

«corrieri in Sessano per chiamare in aiuto i saccheggiatori, gli incendiarii di quel Comune, i quali in effetti accorsero organizzati in bande armate, con tamburro, ed uniti ai Carpinonesi passarono in Isernia ove consumarono ogni maniera di misfatto.» (Valente)

Si riferisce ai sanguinosi fatti del 5 di ottobre, quando Isernia, come già visto, dopo essere stata presa dai garibaldini di De Luca (il giorno 4), fu nuovamente occupata dai lealisti e si giunse ad episodi di indicibile efferatezza che videro i carpinonesi in prima fila: Stefano Iadopi, nel descrivere, da contumace, l’incendio del suo palazzo parla di «teschi umani recisi che erano rotolati per la strada dai carpinonensi Antonio Fabrizio, Michele Martella La Vacca, e molti di Pesche». Sempre De Simone denuncia che Fazio

«fuggì da Carpinone quando gli fu scritto dal fratello che la colonna dei garibaldini, comandata da Nullo, moveva per Carpinone ed Isernia, e il popolo allorché lo vide fuggire esclamava: “Ci ha eccitati a delinquere ed ora ci lascia abbandonati e senza capo”.» (Valente)

Non sappiamo quanto di vero ci sia nella querela; quanto invece sia gonfiato per gelosia di professione. In sede processuale, Fazio venne, in ogni caso, prosciolto da ogni accusa e reintegrato tra gli ottimati, ora tutti riverginati nella fede sabauda.
Torniamo alla cronaca. Riconquistata Isernia il 5 di ottobre, l’intero distretto è saldamente in mano ai reazionari. La città in mano borbonica è una spina nel fianco di Garibaldi: da un punto di vista strategico, è necessario poter controllare la consolare che scende dall’Abruzzo per il valico del Macerone, percorso obbligato per i Piemontesi che, in quei giorni, senza dichiarazione formale di guerra, hanno superato sul Tronto il confine del Regno delle Due Sicilie e puntano al Volturno per chiudere la partita. Così il dittatore invia oltre il Matese una colonna di Camicie rosse comandate da Francesco Nullo; pochi, in realtà, per l’obiettivo prefissato, ma ha la promessa dei liberali locali che oltre tremila volontari li attendono a Boiano per marciare congiunti su Isernia. Nullo conosce numero e valore dei regolari borbonici presenti nel distretto; sottostima, invece, la forza dei cafoni che s’accompagna all’esercito duosiciliano e spesso ne costituisce l’avanguardia: quei circa mille uomini organizzati da Teodoro Salzillo che hanno svolto ruolo determinante già nell’affrontare la Colonna De Luca; per tacere, poi, dei non numerabili villani anarchici e feroci di Castelpetroso,  Carpinone, Pettorano: uomini e donne pronti a colpire di schioppo come di zappa, abili ad abbattere il nemico in livrea rossa finanche a pietrate. C’è un’efficace immagine – verosimile più che vera – che Carlo Alianello dà nel suo celebre La conquista del Sud: uomini e donne che seguono il crocifisso e mormorando preghiere scendono da Carpinone; la loro lenta teoria quasi ipnotizza i soldati di Nullo, così che quando, d’improvviso, si trasformano in orda sanguinaria che, sguainate le ronche, si abbatte sui garibaldini, li trova fermi nella sopresa, sterminandoli.
La disfatta di Nullo a Pettorano è cosa nota. Meno nota è forse la sorte dei tanti che, cercando di riconquistare la via per Boiano, cadono nella notte tra il 17 e 18 ottobre, «vittime di quei feroci ribelli che non pugnavano, ma da vili uccidevano uomini inermi e sperduti in luoghi ad essi ignoti». In questa caccia al berrettuccio rosso si distinguono particolarmente i cafoni di Carpinone. I garibaldini vengono rastrellati nelle campagne e portati in paese; qui cambia il mezzo e l’occasione, ma in ventotto vengono barbaramente uccisi. Sette Camicie rosse, prese a Macchiagodena, viaggiano sotto scorta verso Isernia. Vestono abiti borghesi e sono disarmati. Giunti a Largo Croce, vengono fermati dai cannibali di Carpinone: «Raffaele Valente, Menestrella, lanciò un colpo di pietra che ferì un garibaldino alla bocca perché alla domanda chi Viva? Rispose: Viva Garibaldi! Dal mucchio si gridò uccidiamoli, uccidiamoli tutti!» Le Guardie urbane riescono a sottrarre gli arrestati alla lapidazione. Si riavviano. Vengono inseguiti e raggiunti nelle vicinanze del cimitero da Antonio Fabrizio, Socarlo, Michelangelo Venditti, Totaro, Leonardo Palladino, Patana, Luigi Cagna, Zirocco, e uno detto Cialone, e trucidati.

«Sul luogo del misfatto, arrivò ultimo tra i cafoni Raffaele Mascieri fu Felice, Scelato, che per sfregio e spavalderia recise due teste ai corpi già resi cadaveri e sospese pei capelli alle canne dei fucili, come in trionfo, fra gli evviva e gli schiamazzi dei compagni le portò in paese, a testimoniare il bieco e feroce delitto. Le teste furono poi gittate nella fossa comune carnaria della Chiesa della Concezione(Valente)





Altri quattro garibaldini, sbandati, si trovano a percorrere la Chianella:

«Due di essi furono massacrati a colpi di fucile (tra gli uccisori Gaetano Minchilli, lo scarpariello); altri due si rifugiarono in casa di Leonardo Antenucci Tribazio che li tenne nascosti sotto un grosso tino, ove stettero tre giorni. Non potendo più rimanervi, furono costretti ad uscire e, attraverso il giardino di D. Emilio Petrecca volevano prendere la via della Fontanella. Scovati da Domenico Martella, Cartuccia, e Maria Malerba, Caibo, raggiunti, a colpi di scure furono uccisi e poiché coi loro movimenti, nei momenti ultimi dell’agonia, accennavano ancora ad un fil di vita, la Malerba con un grosso sasso schiacciò loro la testa. La scure operata era di Michele Tamasi fu Romualdo, Felicella, il quale la portava ancora intrisa di sangue sul braccio. Visto dall’arciprete Scioli, per spavalderia, disse che aveva fatto il suo. Ciò gli fruttò 20 anni di lavori forzati, mentre il Martella e la Malerba, autori dell’uccisione tornarono a casa risalendo la Maruccia, non furono denunciati e restarono impuniti(Valente)

Altri diciassette – perfido numero – vengono uccisi al Largo della Croce: «I loro corpi, evirati dalle donne, sanguinanti, maciullati, nudi, furono gettati in una fornace da calce alla contrada Neviera, a valle della carrozzabile Aquilonia.»
Un’ultima, inutile orgia di sangue. Due giorni dopo, la rotta dei lealisti sul Macerone. Vittorio Emanuele entra a Isernia come ora si entra in Aleppo. Il Regno del Sud diventa Italia.
Si è già detto: per Carpinone, dopo il diluvio, si tornò al torpore, al lento scorrere dei giorni.


Bibliografia minima.
Anonimo [ma Stefano Iadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861
Alberto Mario, La Camicia Rossa, Torino, 1870.
Giuseppe Cesare Abba , Da Quarto al Volturno, Bologna, 1880.
Pietro Valente p., Il 1860 a Isernia, Pettoranello e Carpinone - Notizie storiche, inedito. Copia in manoscritto di Erminia Testa (1932), Archivio privato Venditti.
Carlo Alianello, La conquista del Sud, Milano, 1972.

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