(articolo pubblicato su Il Quotidiano del Molise, lunedì 9 aprile 2018, pag. 13)
Sabato
scorso, 7 aprile, è stata inaugurata la sezione del Museo Civico dedicata alla Reazione dell’autunno 1860, episodio infelice
ma comunque determinante per la città e la sua storia, anzi tra quelli che più
l’hanno – seppure in negativo – proiettata sul fondale della Storia nazionale.
Per questo, l’apertura delle due sale dedicate – grazie all’impegno del
curatore dell’esposizione, Duilio Vigliotti, cui va ogni merito, e alla
preziosa collaborazione del Museo
internazionale delle guerre mondiali –
colma una lacuna e riconferma, in pieno, il senso di un istituzione che si
vuole “Museo della Memoria”. Perché, come dice bene Octavio Paz, la memoria non
è tanto ciò che ricordiamo, ma ciò che ci
ricorda, che ricorda a chi verrà quello che siamo stati, come singoli o come
comunità, in tempi diversi.
(foto Massimo Palmieri) |
«Nel 1860 Isernia ebbe a palesare tali
abominevoli vergogne, che tutte quante le sue passate glorie ne rimasero
spente. Il di lei nome disonorato fe’ il giro d’Europa, e quantunque l’opera
nefanda fosse compita da pochi retrivi, pure, l’essere questi fra i primarii
della terra, fe’ sì, che la colpa si spandesse sulla maggioranza de’ cittadini,
che pur non era meritevole di biasimo.»
Così,
pochi anni dopo, scriveva della sciagurata città d'origine del deputato Stefano
Jadopi il giornalista milanese Cletto Arrighi, presentando gli eletti nel primo
parlamento nazionale insediatosi a palazzo Carignano. Non una voce isolata
quella di Arrighi: contro Isernia, a Torino (ma anche a Londra, dove ci fu una
seduta parlamentare dedicata ai fatti di casa nostra) vennero pronunciate parole
pesanti come pietre: abominio, vergogne,
opera nefanda. Come è oggi, forse, per Scampia, Isernia riuscì allora ad
essere luogo immediatamente evocativo di ogni male: Isernia era la bestemmia
che offendeva il nuovo credo: quella Religione
della Patria di cui parla il garibaldino Crispi e che aveva per ossequianti
sacerdoti i tantissimi cronisti e storiografi, organici al nuovo corso sabaudo,
che attraverso articoli e memoriali assunsero il compito di evangelizzare i
nuovi italiani, spesso anche omettendo e mistificando dati della realtà.
Chiediamoci:
cosa mai era successo, in città, di tanto rimarchevole da farne risuonare in tutta
Europa il nome, circonfuso di tale triste fama?
Diciamo subito che in città, concentrati in venti terribili giorni (30
settembre/20 ottobre), si ebbero davvero incendi, devastazioni e stragi; si
contarono morti in malo modo: accecati, seviziati à la bajonnette, appesi e poi evirati. Si videro teste garibaldine spiccate
ai legittimi proprietari, fatte rotolare per le scale vanvitelliane di Palazzo
Jadopi e poste, poi, a trofeo sotto gli archi della Fontana Fraterna. Come in
un carnevale macabro, in un osceno sabba, in quei giorni di inizio autunno, in
città, si ebbe una sospensione di ogni principio morale, di ogni elementare norma
di umana convivenza. Con Dio dalla loro parte – garanti il vescovo Gennaro
Saladino e buona parte degli ottimati cittadini – e nelle tasche le carte di libero fare sottoscritte da re
Francesco in persona, i cafoni di
Isernia, lungamente compressi da una vita di stenti e privazioni, esplosero il
loro veleno all’indirizzo dei pochi liberali cittadini, galantuomini in finanziera e pantaloni lunghi.
Per
raccontare come fu che la notte del 30 settembre 1860, a Isernia, la Reazione conflagrò improvvisa, occorre un
passo indietro. Con Francesco II in malinconica clausura a Gaeta, il 7
settembre 1860, Garibaldi entra a Napoli in trionfo. È un momento di stanchezza e le Camicie rosse,
spossate dalla veloce risalita dello Stivale, si assestano lungo il Volturno e fronteggiano
un esercito regio ricompattato e, per la prima volta, motivato a combattere. In
questo contesto, l’8 settembre, Isernia muta bandiera e, da fedelissima città
borbonica, passa al campo savoiardo. «Cittadini,
Municipio, Clero, Guardia Nazionale e Autorità tutte di Isernia» scrivono al dittatore Garibaldi rendendo «consenziente omaggio per l’annessione al
Regno italiano sotto lo scettro di Vittorio Emanuele». Ma solo pochi, tra
gli isernini, possono dirsi sinceri sostenitori dell’opzione unitaria: tra di
essi, certamente, don Stefano Jadopi, nominato nuovo sindaco perché di fede liberale,
ma altri galantuomini scelgono la via – italianissima – dell’attendismo,
alcuni; del doppio gioco altri, che firmano per Garibaldi ma impegnano la seconda metà del mese di
settembre a fare intelligenze con la
corte di Gaeta, preparando la sollevazione della città.
Isernia,
c’è da dire, non è un posto a caso sulla mappa. È uno snodo fondamentale,
importante retrovia del fronte garibaldino. Così, far sollevare in concomitanza
con la grande battaglia sul Volturno (che ci sarà infatti il 1° di ottobre),
che vede, per la prima volta da Marsala l’esercito di Franceschiello finalmente mostrare i denti, assume strategicamente
il senso di accendere fuochi alle spalle dei garibaldini e distrarre forze che
dovrebbero servire altrove.
Così, nella notte del 30 di settembre, armati di ronche, forconi e qualche fucile
strappato alle smarrite Guardie nazionali, settecento contadini, forse anche
mille, procedono come un fiume che abbia rotto gli argini e si riversa in piena
lungo lo stretto budello che, ab urbe
condita, attraversa Isernia correndo da nord a sud, dal Largo della Fiera
fino al Convento dei Celestini, sede della Sottointendenza. La cingono
d’assedio, mettono in fuga le poche camicie rosse a presidio di quell’Alamo;
poi rivolgono le punte dei forconi verso palazzo De Baggis, che è di fronte,
ultimo riparo dei liberali cittadini. Qui uccidono il padrone di casa;
feriscono a morte il figlio ventenne di Stefano Jadopi, Francesco; il giudice
mandamentale Ferdinando Boccia si salva solo perché si finge cadavere. L’orribile notte termina coi saccheggi e
gli arresti arbitrari di quanti vengono riconosciuti come liberali. Il giorno
dopo, 1° di ottobre, a una città che è in piazza, con le armi ancora calde in
pugno, fa da contraltare un’altra città, attonita, sgomenta che inizia a
nascondersi, a fuggire.
In poco più di venti
giorni, Isernia viene riconquistata e ripersa più volte e come un osso, che via
via si consuma, si divide tra due cani ringhiosi. La spedizione garibaldina del neonominato governatore
della provincia di Molise, Nicola De Luca, giunge a Isernia la sera del 4 ottobre e aggiunge nuovo sangue
a quello già versato. Ma la città è libera e liberale per una sola notte: la mattina di venerdì 5 ottobre, da
Venafro, ripartono i borbonici del maggiore De Liguori e si riprendono, in
punta di baionetta, la città, che conserveranno fino alla Battaglia del
Macerone. Intanto, il 17 ottobre, nella piana di
Pettoranello, la gendarmeria borbonica e la fucileria dei cafoni nostrani chiudono a tenaglia gli smarriti garibaldini della
Colonna Nullo, venuti da Bojano a riprendersi, ancora una volta, Isernia. È
strage di Camicie rosse, durante e dopo la battaglia: a notte la campagna si riempie
degli sbandati, che prendono a vagare senza direzione e, quando presi,
subiscono sevizie e morte per decapitazione.
Vittoria inutile, tuttavia, quella riportata a
Pettorano. A Isernia non si festeggia: la città è intristita e contempla le sue
macerie, non solo materiali. S’inizia a realizzare l’ineluttabilità di un
destino deciso altrove, che porterà gli isernini ad essere presto sudditi di un
diverso re. Vittorio Emanuele sta infatti scendendo col suo esercito a
prendersi il Sud. Il 20 ottobre 1860, nella nebbia del Macerone, l’avanguardia piemontese
ha facile ragione delle poco motivate forze borboniche, guidate dall’ottantenne
Luigi Scotti Douglas. C’è la resa. La cavalleria sabauda entra al galoppo in
città. Appena insediatosi, la sera del 20, il nuovo comandante della piazza, il
generale Cialdini, telegrafa al governatore De Luca e dice: «Faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani
armati che piglio, e do quartiere soltanto alle truppe. Oggi ho già incominciato»;
e non millanta: davanti al plotone di esecuzione cadono in giornata i primi
dieci paesani scelti tra quelli che
al Macerone gli hanno contrastato il
passo.
Nessun plebiscito si
inscena a Isernia per il 21 di ottobre: l’adesione al nuovo Regno viene data
per scontata. Re Vittorio verrà in città di lì a due giorni. Dorme una sola notte
sola, in casa di don Vincenzo Cimorelli, prima reazionario e ora campione
cittadino di quel trasformismo nuova moda nazionale. Nel suo entourage annotano che Vittorio Emanuele
rimanga così fortemente colpito dalla città da esclamare: «Se non fosse città italiana
l’avrei trattata da re barbaro».
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