martedì 25 maggio 2010

Antologia della Reazione, parte I. Isernia, 30 settembre - 3 ottobre 1860


Si avvicinano gli anniversari, occorre essere preparati.
Un po’ di ripasso, allora, utile per non essere rimandati a settembre, mese fatidico.

Il 7 settembre 1860, fujutosene Franceschiello in quel di Gaeta, Garibaldi entra a Napoli e vi instaura il Governo dittatoriale, in attesa di dare tutto in mano ai Piemontesi. Il resto del mondo duosiciliano, s’adegua.
Basta un giorno e, a Isernia, si cambiano bandiere: il fresco Sottointendente Giacomo Venditti, insediatosi solo il 26 agosto, ammaina quella gigliata dei Borboni e issa lo scudo savoiardo; poi, perché sia chiaro a tutti l’avvenuto cambiamento, testimonia lo sprezzo per il regime divenuto ancient da una mezz’oretta, sputacchiando pubblicamente il Borbone effigiato sul dorso di una moneta, subito seguito da tale Raffaele Falciari che, sulla stessa moneta, buttata a terra, ci piscia. Tutto questo, in piazza. Quindi invia telegramma a Napoli, recando notizia dell’adesione della città alla causa.
Nuovo sindaco è nominato Stefano Jadopi, possidente, liberale, già deputato al parlamento di Napoli sebbene osservato speciale della polizia borbonica. Il 12 settembre la città si rivolge a Garibaldi esprimendo questi voti:

«Illustre generale e dittatore - Cittadini, Municipio, Clero, Guardia Nazionale e Autorità tutte di Isernia salutano il liberatore del Regno e rendono consenziente omaggio per l'annessione al Regno italiano sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, onde venga compatto di forza e potere. Questi liberi sensi umilia a te Isernia tutta, Contado di Molise, coll'anima e col cuore»
(citato da Francesco Colitto, "Patriottismo e reazione nel Molise durante l'epoca garibaldina" in Almanacco del Molise 1984, p. 101)
Seguono le firme dei maggiorenti, tutti sinceri liberali: i de Lellis, i Melogli, i Cimorelli, un Cimone, un Belfiore. Quanto sia effettivo e sincero l’afflato unitario, si vedrà da lì a venti giorni, sulla punta dei forconi.
Il presidio garibaldino, a Isernia, si compone di ventidue uomini, al comando del maggiore Giovanni Filippo Ghirelli, romano, venuto in città per formare una colonna di volontari e contrastare il possibile arrivo dell'esercito borbonico dal venafrano. Altra forza armata presente è la Guardia Nazionale cittadina - milizia di autoconvocati con funzioni di controllo del territorio, passata tal quale dal servizio dei Borboni alla nuova causa: nelle posizioni di vertice i soliti noti, che tuttavia, nel settembre del 1860, cautamente di defilano.
Queste le occupazioni dei garibaldini in città, raccontate da parte avversa:
«Passando un uffiziale regio, strapparongli i bottoni della divisa; quanti reduci d'Abruzzo transitavano alla spicciolata, o incitavano a disertare o insultavano, e rubavano del bagaglio; onde questi s'andavan frementi di vendetta, e nel popolo testimone il fremito instillavano. Quei ribaldoni scorazzando sforzavano le case altrui, e stuzzicavano l'ire, acciò la gente tumultuasse, e lor desse pretesto al sacco. »Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 282
Il memorialista filoborbonico così ricostruisce la genesi della Reazione in Isernia:
«Sendo pochi i garibaldini rimasti a Isernia, presero la notte del 11 settembre, sulla via, un Altopiede contadino, sospetto ladro; imputarongli il furto d'una valigia, frustaronlo, insozzaronlo, e con minacce di morte strasciaronlo pel paese; all'accorso fratello lo stesso; ambi gittarono in criminale. L'arbitrio del sospetto, e '1 soverchio della sevizia, fu astio a' popolani.
Quel dì 14, il Jadopi ch'era sindaco, prevista la reazione, tolsesi il meglio di casa, e abbandonando la cosa pubblica, in Napoli si trafugò. I garibaldini con a capo il galeotto Costantino Sarcione, saputo che il maggiore Achille De Liguoro con una mano di gendarmi moveva da Migliano su Venafro, quasi tutti a’ 27 [settembre] si partirono. Il Venditti chiamò a difesa i Nazionali, ma non li trovò; onde in carestia di uomini partiti, pensò rimutare mantello, e cercò in fretta i deposti borbonici suggelli; ma troppi testimoni v'era. I contadini carpate quante poterono arme e mazze, corsero a festeggiare i regi; e lo spaurito Venditti aprì le carceri, arringò a' delinquenti, e credé averli persuasi a difendere contro il popolo la libertà. Questi prima ubbriacati, fecero pattuglie pel buon ordine; dappoi vista folta la popolazione, svelarono i timori del sottintendente, e ad essa s'unirono.
Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume II, Trieste 1868, p. 283

Il 30 settembre Isernia si solleva.
Il vescovo, il feroce Saladino, presule della migliore tradizione sanfedista, millantando il prossimo arrivo dei borbonici e la palingenetica ondata che ricaccerà Garrubaldo al di là del Faro, dà il via a settecento cafoni armati che con ronche e falci percorrono, a notte, la città, da Largo Fiera fino alla Sottintendenza, nell’ex Convento dei Celestini. A guidarli
un Di Ciurcio, qualche Crudele, Corrado, quell’Altopiedi ritenuto ladro e liberato dal Venditti per errore di calcolo: nomi poco blasonati; a tirare il sasso nascondendo la mano, i soliti noti:
«…vuol la storia che notassimo come le sole abitazioni di Gennaro de Lellis , Vincenzo Cimorelli , Francesco Cimone, Achille Belfiore, Giovanni Canonico Penitenziere Giura, e quella de' fratelli Melogli venissero tutelate dagli stessi insorti.»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 20
Assaltano la Sottindentenza, difesa dai pochi garibaldini del maggiore Ghirelli.
«Con un pugno di uomini il Ghirelli si mise in difesa del palazzo della Sottintendenza. E ne era tempo,perchè una massa di circa 700 contadini, al grido di viva Francesco II, assalta il posto della G.N. già chiuso, ne sfonda le porte, abbatte lo Stemma di casa Savoia, e si avanza a dar l'assalto al palazzo del Governo.
Ivi sorge un conflitto, ma i pochi Garibaldini resistono per dar tempo al Venditti di mettersi in salvo; indi, caricando alla baionetta quella massa imponente, scampano da sicuro eccidio. La città, intanto, cade nell'anarchia. Ogni casa diliberali è picchiata, chiedendo fucili e munizioni con minacce di morte.
L’osteria di Cosmo Tamburo viene investita. Gittate a terra le porte, la folla irrompe contro di quattro Guardie Nazionali di Civitanova, che vi si erano rinchiuse, le quali furono ferite e spogliate del meglio che avevano.
Si passa all'assalto della casa del Sig. Alfonso Abeille. Il portone cede sotto gli urti furibondi; l'Abeille mette in salvo i suoi giorni fuggendo sui tetti:ogni masserizia è data al sacco ed al fuoco. Si procede al sacco dell'abitazione del Signor Giuseppe Pietrantonio,il quale scampò per miracolo la vita. Con l'inoltrare della notte il tumulto cresceva in ferocia ed intensità.E grida e colpi d'archibugiate ed aggressioni ed arresti facevano chiaro che si voleva l'eccidio di quanti fossero in voce di liberali.»
Alfonso Perrella, Effemeride della Provincia di Molise, 1891, vol. II, p. 153 e ss.
Assaltano casa de Baggis.
«Avvicinavasi al suo mezzo quella notte orribile,quando il signor Cosmo De Baggis (il quale si era chiuso in casa sua in
compagnia del giudice Boccia, del giovane Francesco Jadopi, dei Signori Luigi De Baggis, Michele Martino Majola, Giuseppe Battista ed una gentildonna moglie di un garibaldino) sente ripetuti colpi di scure,che, in breve, atterrano il portone della sua abitazione. L'orda irrompe. Il De Baggis ed i suoi ospiti si restringono nella stanza da letto: il giudice Boccia e Luigi De Baggis cercano di frenare quelle furie uscendo loro incontro col simulacro della Vergine del Carmine; erano sul limitare della stanza,quando un colpo di fucile mandò in frantumi la sacra immagine, ed altre fucilate fanno cadere mortalmente Cosmo de Baggis, il Boccia e lo Iadopi.
Ai colpi di schioppo succedono quelli di scuri, e sevizie: il De Baggis muore, il Boccia è creduto morto.
Lo Iadopi, semivivo, è trasportato in una stanza contigua, ove immani sevizie lo torturano, e donde agonizzante vien portato nel carcere tra gli urli, gli scherni, i colpi di quell'orda infernale, capitanata dal contadino Vincenzo di Ciurcio.
Il Battista fu ferito di baionetta, e violentata venne la gentildonna garibaldina.»
Alfonso Perrella, Effemeride della Provincia di Molise, 1891, vol. II, p. 154
A Francesco Jadopi, figlio di Stefano, cavano gli occhi (morirà il pomeriggio del 1° ottobre: dopo aver peregrinato inutilmente per case di parenti, portato a braccio, prima di raggiungere finalmente la madre, donna Olimpia de Lellis).
Va detto, en passant, che Francesco è, a un tempo, figlio di Stefano Jadopi e nipote del cav. Gennaro de Lellis, capo occulto della reazione: ecco che a Isernia, per economie di scala, la tragedia assume toni grotteschi di farsa, in cui l'avo infierisce sul nipote per dispetto al genero.
[Per l'omicidio, tanto efferato, di Francesco Jadopi, la memorialistica antiliberale prova a dare deboli scriminanti, alibi che non reggono, va a ricercare cause remote, percorre (superandolo) il limite della calunnia e diffamazione:
«E qui mi è necessità intrattenermi un istante su Stefano Jadopi, onde fosse noto chi sia costui, e quali i motivi pei quali la plebe infuriò poi contro il figlio. (...) Pessime fra le triste passioni sono l'ambizione e la sete delle ricchezze. Stefano Jadopi lasciò dominarsi da entrambe, e divenne il nemico di sé e dei suoi, il flagello d'Isernia (...) Fu sindaco e prese a volgere a suo profitto i beni del Comune (...) Prese a dirigere le fabbriche del Seminario che il vescovo Saladino volle ricostruire dalle fondamenta, e l'appaltatore Luigi de Cesare, minacciato da lui della perdita dell'appalto, per non soggiacervi dové somministrargli materiali e mano d'opera per la costruzione del Casino. Divenuto ambizioso cominciò a far la corte e strisciare presso lo stesso vescovo Saladino, pretendendo pei di costui mezzi, la modesta carica di Sottindentente ad Isernia. Restò deluso. Venne il 1848, sperò cangiar fortuna col cangiar politica (...) divenne di botto liberale. (...)
arrivando tuttavia alla consapevolezza che
«(...) gli eccessi, i fatti nequitosi possono essere compianti, scusati non mai.»
V. M. Briamonte,
Cause, mezzi e fine della reazione d'Isernia avvenuta nel 30 settembre 1860, s.d., p. 20.
Alle accuse di Briamonte (probabile nom de plume, di un don Luigi Testa, piemontese, già gesuita e, all'epoca dei fatti, professore al Seminario di Isernia) risponderà puntuale Stefano Jadopi, col suo Risposte a V. M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d'Isernia, pubblicato - anonimo - nel 1862, terzo volume di una guerra editoriale giocata, a distanza, tra anonimie e alias e che avrà altri significativi episodi.]

Tornando alla narrazione degli accadimenti, abbiamo in Vincenzo di Ciurcio, alias Pagano, contadino, una fonte di prima mano: nominato Capo urbano dai sollevati, sottoscrive come utile testa di legno una missiva a Francesco II in cui relaziona sui fatti d'Isernia:

«A Sua Sacra Real Maestà Francesco II (...) il contadino Vincenzo di Ciurcio, alias Pagano, d'Isernia fedelissima, suddito divotissimo ed attaccatissimo alla Maestà Sua (...) l'espone che egli ha mossa la popolazione e messosi alla sua testa (...) si assaltò li 30 a sera il corpo dellaGuardia Nazionale (...) Il giorno seguente, 1° ottobre la popolazione distrusse qualche individuo della Maestà sua. Furono arrestati i corrieri e le corrispondenze dei garibaldini da esso esponente,
il quale fece pure aprire il commercio dei generi per Capua, stato impedito dai detti garibaldini onde far morire di fame i regii; ripristinò gli stemmi e la bandiera borbonica; attivò il servizio urbano al numero di circa mille scelti tra i migliori pagando grana venti il giorno per ognuno di denaro tolto dalla cassache si sapeva essere stata fatta per il mantenimento del Corpo della Guardia Nazionale (...)»
Missiva del Capo urbano Vincenzo Di Ciurcio dell'11 ottobre 1860, integralmente riportata in Anonimo [ma Stefano Jadopi], Risposte a V.M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d'Isernia, Torino, 1862, p. 48.


La reazione trova la sua consacrazione la sera del 3 ottobre, quando arrivano - pochini, in realtà -

«…i tanto aspettati e sollecitati gendarmi [borbonici] al numero di cento. Monsignor Saladino riuniti i ribelli nella sala episcopale diceva loro «la Madonna aver fatto il miracolo mandando i gendarmi a proteggere il movimento». E bisognava esser sicuri, ché preservate poche famiglie, le rimanenti dovevano soggiacere a carcerazione ed altro, perché erano nemici del re e della religione. In tal modo la città finalmente ebbe conferma di chi la reggesse, ed i liberali si videro a fronte non un popolare ammutinamento, ma un'organizzata, diretta e trionfante reazione.»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 25

Il che, per altro, non mitiga gli eccessi: il meschino Falciari – quello della pubblica minzione sui gigli del Borbone – viene
«…catturato e, stretto fra ritorte di legno, vomitava sangue. Trascinato in sulla piazza fu martoriato, impiccato ad un lampione, e si giunse (orrore a dirsi!) a recidergli le ascose membra virili e riporgliele in bocca!»
Anonimo [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d'Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 27
[A voler riportare quel che dice Briamonte, Falciari meschino lo era davvero, e da prima che lo evirassero:
«Tristo per natura, liberale mentito, dava in vessazioni e ruberie di ogni sorta: vendeva al Municipio a caro prezzo olio, legne, paglia che non comprava con altra moneta tranne quella di promettere ai contadini di non arrestarli, avendo, come diceva, il potere di farlo: rubava gli stessi Garibaldini nella misura, nelpeso e nella somministrazione di tali generi: i reclami non temeva, di tutti si burlava»
V. M. Briamonte,
Cause, mezzi e fine della reazione d'Isernia avvenuta nel 30 settembre 1860, s.d., p. 17.]

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