martedì 4 maggio 2010

Benno strikes back. Isernia, 1955

La sindrome di Stoccolma è quella particolare condizione psicologica nella quale una vittima arriva a manifestare sentimenti positivi (in alcuni casi anche fino all'innamoramento) nei confronti del proprio aguzzino.
Benno Geiger nell'ottobre 1955 ritorna a Isernia.


«M'ero preparato a rivedere Isernia come l'avevo lasciata, sporca sì, ma, ad onta degli zingari che vi risiedono e delle pinzocchere che lavorano al tombolo da Annibale in poi sulla strada, nobilitata da qualche elemento d'arte romana o sannitica, quale la Fontana Fraterna al bivio del centro, una specie di pubblico lavatoio, con la sua mezza dozzina d'archi a sostegno d'altri dodici archetti sovrapposti; con qualche pietra miliare antica agli angoli delle strade; con il convento medievale dei Domenicani, la chiesuola gotica a fianco e il grande chiostro interno, racchiuso da una doppia fila di loggie all'intorno. Quel convento che m'aveva ospitato e al quale avevo finito di assuefarmi, se non proprio a volergli bene.»


Geiger non sapeva nulla del bombardamento alleato del 10 settembre 1943.
Venato da un sottile razzismo jugendstil, ecco il suo commento alla scoperta:


«Un benefico bombardamento degli Americani, specialisti nello sterminare dall'alto della loro cultura di jazz gli inermi, eteroclita miscela di pellibianchi, della quale fra non molto solo i negri, quale razza dell'avvenire, saranno i padroni, aveva nel 1944 (sic!), durante una chiara notte di luna (sic!), troncata la vita a 6000 (sic) iserniesi ed accumulato macerie, non ancora rimosse, un poco dovunque. La piazzetta in fondo al paese, da dove si godeva una bella vista sui piani e sui colli circonvicini, con l'eremo dei Santi Cosmo e Damiano difronte, a me caro, già posto mio di ricreazione (...) aveva lasciato il posto a casolari ingombranti , che toglievano il respiro. La Fontana Fraterna era scomparsa. Le vecchiette del tombolo, vieppiù invecchiate, sedevano immemori sulla soglia dei loro abituri (...) il mio convento era diventato una laida prigione, in parte adibita agli zingari vagabondi, in parte ai reclusi (...)»


Al di là della sua ossessione mitteleuropea per gli zingari (citati in poche pagine di diario almeno cinque volte), quello che si fa notare è che Geiger annota a malincuore, nell'elenco delle tante, vere perdite che la città ha subito, che il suo campo di internamento - che il ricordo ingentilisce, ma che certo è cosa diversa dal Grand Hotel - si sia svilito in comune, "laida prigione".

Nessun commento:

Posta un commento