martedì 18 ottobre 2011

La difficoltà di essere italiani. Isernia, aprile 1861


Carlo Corsi, di nobile famiglia fiorentina, è militare di carriera: nel 1844, disertando un futuro da diplomatico presso il Granduca, si arruola volontario nell'Armata Sarda, battaglione zappatori del Genio. Seguono ingaggi in eserciti e campagne diverse. Nel 1860, quando scende da capitano di cavalleria con l'Armata d'occupazione delle Marche e dell'Umbria ha già sedici anni di gavetta alle spalle. Combatte al Macerone, prosegue per Gaeta, che assedia con Cialdini. Caduta la cittadella il 14 di febbraio, l'Armata progressivamente smobilita e ritorna verso nord. Nel passaggio, a ritroso, lungo la Via degli Abruzzi, Corsi annota di un paese ancora incredulo, che non ha ancora pienamente compreso quanto accaduto. Le province napoletane risultano divise tra chi, per idea o profitto, ha spinto per l'annessione e chi - la gran parte - fa fatica a realizzare che un regno si sia potuto sciogliere come la neve a marzo.

«Frattanto, come se non bastasse quel primo aiuto dato da noi medesimi ai nostri nemici, venne da Torino, sul fine del marzo, l'ordine che il 4° Corpo e quasi tutta la cavalleria tornassero verso il Po. E infatti ai primi d'aprile quelle truppe mossero per la strada degli Abruzzi fino a Popoli, donde il 4° Corpo e il reggimento Lanceri di Novara proseguirono pel littorale adriatico verso Ancona e Bologna, e la brigata della cavalleria di linea con alcune batterie per la strada interna di Aquila, Rieti, Terni, ecc., verso Perugia e Firenze. Ciò produsse pessimo effetto nelle province napoletane. Fu fatta correr la voce che eravamo costretti a ritirarci perchè così voleva l'imperatore dei francesi, il quale avea deliberato di riporre il re Francesco sul trono di Napoli e restituire al Papa le province da noi toltegli. I paesi che attraversammo aveano aspetto strano e sinistro. I nostri partigiani scoraggiti, li avversi giubilanti, l'aria piena di'minacce. Nello appressarci ad Isernia il 10 aprile vedemmo gruppi di cafoni venirci incontro, fermarsi a guardarci con avida curiosità, colle labbra aperte come per gridar «Viva 'o re!» invece, riconosciuti li elmi e li azzurri pennoncelli dei nostri cavalieri, guardarci tra loro e restar muti e scuri. Aspettavano i francesi che seguivano i piemontesi per cacciarli fuori del regno. Ed avendo già veduto sfilare le truppe del general Cialdini, avean creduto finito con le ultime di quelle il passaggio dei piemontesi, ed erano accorsi a salutare i loro liberatori; così chè poco mancò ci accogliessero colle grida «Viva i francesi! Viva Francesco II! » Restammo stupiti allo udire come in quei paesi non si credesse ancora alla caduta di Gaeta e al nostro ingresso in Napoli, ma, all'opposto, che fossimo stati battuti, dai francesi o da altri, e sforzati ad andarcene come vinti. Udimmo che in un paese vicino della provincia di Molise nel giorno dopo Pasqua molti soldati borbonici e cafoni s'erano levati a rumore alle grida di «Viva Francesco II» ed aveano massacrato il parroco, il sindaco, un figlio ed una figlia di questo, il comandante della guardia nazionale, un figlio di lui ed il giudice, messo a ruba le loro case, atterrati li stemmi del re Vittorio Emanuele; che nella notte seguente, mentre quei selvaggi facevano baldoria, era sopraggiunto un drappello del nostro 6° reggimento di fanteria, che li avea assaliti, battuti e fugati, d'accordo colla Guardia nazionale d'un altro vicino paese; che 103 n'erano stati fatti prigioni, 23 dei quali fucilati poco dopo. Li amici nostri applaudivano a quei rigori, i tranquilli cittadini gemevano; tutti erano spaventati, deploravano la nostra partenza, si raccomandavano di adoperarci tutti per indurre il nostro governo a mandar subito in quelle province soldati, soldati e soldati, quanti più potesse, e mostrarsi forte, ed usar rigore, senza misericordia; altrimenti dessi, liberali, possidenti, galantuomini, sarebbero perduti. Metteva sdegno e pietà vedere come loro mancasse il coraggio per aiutarsi da loro medesimi, a fronte di quegli estremi pericoli da cui vedeansi minacciati e che la loro fantasia sregolata ingigantiva. La notizia che 100 uomini armati s'erano presentati ad una villa vicina e l'aveano messa a ruba fece quasi tremar le case d'Isernia. Misero paese! Erano così recenti le memorie dei lutti dell'ottobre!

Il giorno dipoi, sul far della sera, tre carabinieri nostri che seguivano a breve distanza la retroguardia di Piemonte Reale sulla salita dell'Apennino furono presi a fucilate da gente appostata presso la strada. Il drappello di retroguardia della cavalleria accorse a quel romore, e insieme coi carabinieri dette la caccia a quegli aggressori. Ma uno solo ne fu preso.»
Carlo Corsi, 1844-1869 - Venticinque anni in Italia, Firenze, Tipografia P. Faverio, 1870, p. 532

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