Piccoli protagonismi: qui giù si parla, a braccio e con qualche lapsus memoriae (Vico III Belvedere per Vico III Landenolfi), di odonomastica isernina. Puntata del programma "Viaggio in Molise" (Telemolise). Video in quattro parti, per una quarantina di minuti in tutto.
Lib[e]ri
il blog della biblioteca comunale "Michele Romano"
giovedì 11 maggio 2023
lunedì 22 agosto 2022
I "principi di Isernia" e il poco che ne rimane. Appunti per una biografia cittadina dei d'Avalos
Esiste, si incontra nella Storia, l’effimero titolo nobiliare
di “Principe di Isernia”, sebbene attualmente non sia vantato da alcuna nobile
schiatta, né compaia su carte intestate e altisonanti biglietti da visita;
venne creato per nomina regia allorquando Diego d’Avalos decise di acquistare
per sé la città di Isernia dal duca di Montenero Carlo Greco, che appena un
anno prima l’aveva tolta dal Demanio per 41.000 ducati. Era il 1644, all’epoca
- buia - del Vicereame spagnolo di Napoli.
Quella dei d’Avalos principi di Isernia è una storia di rami che
re-innervano il fusto, figli cadetti
promossi a un fugace successo per la premorienza dei primogeniti. È stato così
per Diego; così anche per Cesare Michelangelo.
Isernia
in vendita
Già dal 1630, Fernando Afán de Ribera, duca di Alcalá, per impinguare
le magre finanze del Viceregno, aveva deciso di porre in vendita quei paesi e
città non ancora infeudati e dipendenti direttamente dalla Corona. A Isernia, riconosciuta
fedelissima città per decreto
imperiale di Carlo V (sub specie di re di Napoli) nel 1521, pur
se proclamata libera da lacciuoli feudali anche per il futuro, la jattura di
finire sotto più vicino ed esoso padrone venne contrastata dal notabilato
cittadino, che offrì allo scopo i 6000 ducati tratti dalla vendita dei feudi
suburbani di Riporsi e Roccavarallo, appartenenti alla città. A Napoli (e a
Madrid) l’offerta degli ottimati isernini rimase imponderata per molto tempo;
nel frattempo, la banca che custodiva i ducati - il Banco dei SS. Giacomo
e Vittoria - fallì e quando si tornò a discutere di alienabilità di Isernia il
discorso si chiuse subito per carenza di argomenti validi (i 6000 ducati,
appunto). Così, nel 1638, su Isernia venne finalmente apposto un cartellino di
vendita, come se la città intera fosse stata un carico di legna, una misura di
grano, una libbra di strutto. Gli isernini inutilmente levarono ricorsi,
vergarono atti di delega e istanze; vanamente provarono a far valere il
diritto di prelazione riconosciuto alle universitas
nel caso di vendita del feudo che le riguardava.
Nel 1639 (ma il pieno possesso lo ebbe solo nel 1643) la spuntò,
come detto, Carlo Greco, duca di Montenero Valcocchiara, che pagò 41.000 ducati;
ma tenne Isernia per poco e nel 1644 la città venne acquistata (per 21.000
ducati!)[1]
da Diego d’Avalos, dei marchesi del Vasto e Pescara. Non si conoscono le ragioni
di una così rapida svendita. Un anonimo manoscritto che si conserva
nell’Archivio d’Apollonio (presso la Biblioteca Michele Romano),
intitolato Ricordo, o sia notizia sugli interessi del principe della
Città d’Isernia suggerisce che il duca Greco «per poco tempo
la possedé, mentre fu costretto a rifiutarla per viver quieto». Mettersi
contro gli appetiti della potente famiglia spagnola apparve al duca Greco
– isernino, con case dalle parti di quello che, forse, per questo venne
poi chiamato Vico de Graecis – opera difficile da sostenersi
senza alleanze; e poi Diego d’Avalos era di sangue spagnolo, uomo d’arme,
aggressivo e focoso (le cronache giudiziarie dell’epoca ce lo dicono
responsabile di almeno un omicidio per decapitazione in danno del duca Carlo
Regina e dello stupro di un figlio naturale del barone d’Afflitto di Macchia di
Isernia)[2].
Avuto il feudo, occorreva ora un titolo nobiliare adeguato, che
Diego chiese alla Corona e subito ottenne: fu fatto “Principe di Isernia”.
Dynasty
Ma chi erano questi (pre)potenti signori d’Avalos?
Diego d’Avalos, primo principe di Isernia, apparteneva alla
schiatta dei d’Avalos (in Spagna il cognome suona più spesso Dávalos e,
talora, anche Abalón), che dall’originaria Navarra, scesero prima in Aragona e
poi in Andalusia, seguendo il corso della Reconquista. Il ramo italiano
ebbe origine con i fratelli Íñigo, Alfonso e Rodrigo, figli di Ruy Lopez
d’Avalos, conte di Ribadeo, che giunsero nella penisola italiana al seguito
del re Alfonso V d’Aragona quando venne a prendersi il Regno di Napoli nel 1442
(Alfonso I di Napoli).
Questo primo Íñigo (in italiano è Inigo o anche Innico; confidenzialmente, potremmo dire anche Ignazio) sposò Antonella d’Aquino dei marchesi di Pescara e da lei ebbe in dote il feudo di Monteodorisio, primo nucleo del vasto territorio che i d’Avalos controlleranno come feudatari. Rami cadetti – si fa per dire – si innesteranno, col tempo, a Troia, a Montesarchio. Famiglia importante: troveremo uomini di casa d’Avalos come condottieri di eserciti imperiali nelle guerre che daranno forma all’Europa; mischieranno sangue con il patriziato napoletano dei Caracciolo, di Sangro, Guevara, Carafa, Capece Minutolo e extranapoletano (Gonzaga, Della Rovere, Trivulzio). Battono moneta, fanno da patrocinatori delle arti e collezionano tele di Rubens e Tiziano. Spesso si sposano tra cugini primi o secondi, complicando le linee genealogiche. D’Avalos furono governatori del Ducato di Milano e Viceré di Sicilia, castellani di Ischia e patrizi iscritti ai seggi di Napoli e Palermo; feldmarescialli imperiali e maggiordomi di corte; Principi del Sacro Romano Impero, Grandi di Spagna e cavalieri dell’Ordine del Toson d’oro; mecenati e contrabbandieri.
Ma torniamo alla discendenza di Inigo. Alla morte senza eredi del fratello di Antonella d’Aquino, Inigo ottenne il marchesato di Pescara (per questo, i successori si indicano come ramo d’Avalos d’Aquino). Uno dei figli della coppia, Inigo (II) venne investito del marchesato del Vasto (precedentemente dei Guevara). I due marchesati (Pescara e Vasto) si riunirono alla generazione successiva con Alfonso d’Avalos (1502-1546), figlio di Inigo II, che ereditò il titolo di marchese di Pescara dal cugino Ferrante Francesco, morto senza figli nel 1525. Da qui in poi le due dignità marchesali viaggiano parallele e si posano, per linea diretta, sul primogenito di Alfonso, Francesco Ferdinando d'Avalos (1530-1571), e da questi al figlio Alfonso Felice (1564-1593).
Alfonso Felice lascia un’unica erede, Isabella, che va in sposa
a uno zio, (un altro) Inigo d’Avalos (1570-1632) – figlio di Cesare d’Avalos,
marchese di Padula e gran cancelliere del Regno – recandogli in dote i due
marchesati.
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Diego,
il primo principe
Con questo ultimo Inigo, marchese di Pescara e del Vasto, principe
di Francavilla e conte di Monteodorisio maritali
nomine, ritorniamo finalmente al nostro Diego d’Avalos, primo principe di
Isernia, che di Inigo è il figlio.
Abbiamo diverse notizie biografiche, tratte essenzialmente
dal Diario di Francesco Capecelatro. Nato intorno al 1620,
gli tocca il ruolo di rampollo di nobile famiglia, ma appollaiato sul ramo cadetto.
Non ereditando il titolo marchesale (che andrà al fratello maggiore Ferdinando
Francesco d’Avalos[3],
che sarà VI marchese del Vasto, e X marchese di Pescara), medita l’acquisto di
Isernia nel 1644. Dal padre Inigo gli viene il marchesato di Padula, ma ne
aliena il feudo alla Certosa di San Lorenzo nel 1645 (con estinzione del titolo
nobiliare). Il 12 febbraio 1645 sposa Francesca Carafa della Roccella, dalla
quale ha tre figli: Isabella[4],
Ferdinando Francesco (da non confondere con lo zio, visto prima, anche lui marchese
di Pescara, principe di Francavilla e gran camerario del Regno) e Cesare Michelangelo,
secondo principe di Isernia, di cui parleremo per tempo.
All’epoca del matrimonio con Francesca Carafa la prima dignità
spesa dal d’Avalos è quella di principe di Isernia. Così viene indicato in un
atto del 1647 nel quale Diego costituisce suo procuratore il dottor Prospero
Amitrano di Napoli per acquisire, senza patto di ricompera, lo Stato di Monteodorisio dal patrimonio
della defunta Sveva d'Avalos. Comincia quell’opera di consolidamento dei
feudi di famiglia, che raggiungerà l’apice con Cesare Michelangelo.
Nell’estate del 1647, scoppiata la rivolta di Masaniello contro
il Vicereame e i suoi soprusi, incontriamo i due fratelli d’Avalos - il
marchese del Vasto e il principe d’Isernia - impegnati a contrastare
l’insorgenza. A Isernia, per vero, la rivolta non incontra seguaci: benché
ferita dalla recente perdita della demanialità, la città rimane fedele al
potere costituito (o forse, la presenza dei masnadieri del principe, esercito
privato, scoraggia gli isernini dal prendere le armi). Quando a Masaniello si
sostituì l’effimera – e ossimorica – Serenissima Monarchia Repubblicana
di Napoli del Duca di Guisa e dell’armaiolo Gennaro Annese, i due
fratelli convergono con le loro forze su Aversa, dove si va radunando il
grosso dei lealisti. Il territorio controllato dalla sedicente Repubblica
coincide sostanzialmente con la città di Napoli e le sorti dei filofrancesi
appaiono da subito senza successo: gli spagnoli mantengono il controllo di
tutti i castelli attorno alla città mentre i nobili fuoriusciti, da Aversa,
controllano la provincia e quindi gli approvvigionamenti per Napoli. Il 26
ottobre 1647, Diego e Ferdinando Francesco d’Avalos mobilitano e guidano su
Aversa 190 cavalieri e 220 fanti, il contingente più numeroso tra quelli
dell’esercito aristocratico. Combattono a Nola, Secondigliano, Caivano[5].
Finita la campagna, rinserrati gli spiedi, per il resto della
sua vita Diego sarà impegnato nei feudi e nei suoi affari. Il suo rapporto con
Isernia e gli isernini non fu mai buono, ma sempre incarognito e fondato sul
timore. Il principe (coi suoi armati) si rendeva responsabile di soprusi e
prepotenze, piccole e grandi. Prese per sé «case,
molini, valchiere, cartiera e altre robbe dei poveri cittadini» senza
onorarne mai prezzi o canoni. Impose, senza causa e senza assenso regio, una
tassa annuale di 1000 ducati annui (poi ridotti a 300 nel 1669) che la città
onorò sempre per quieto vivere.
Nel 1656 anche a Isernia arriva la terribile peste che nel
biennio 1656/57 decimò la popolazione del Vicereame. La città subisce un forte
calo demografico e non è più in grado di sostenere le tasse che vengono imposte
secondo i “fuochi” di cui si compone l’universitas:
per avere un’idea, dagli 800 fuochi nel 1638, verrà ridimensionata ai 440 nel
1667. Ermanno Turco ci racconta in proposito di un intervento fattivo dei
d’Avalos durante l’epidemia: «Monsignor
d’Avalos e la principessa, testimoni dello stato di estrema desolazione in cui
versava, a causa del contagio, il maggior numero delle famiglie isernine,
fecero del loro meglio per arrecare a queste qualche sollievo; e oltre ai
moltissimi aiuti morali e materiali prodigati, non mancarono di svolgere opera di
persuasione, presso i rappresentanti locali del regio Fisco, perché si
desistesse temporaneamente dalla riscossione delle imposizioni fiscali»[6].
Se la principessa è donna Francesca Carafa della Roccella,
moglie – si è detto – del principe Diego, incerta è l’individuazione di questo monsignore
di casa d’Avalos: Turco cita a sostegno un documento da lui rinvenuto in un
registro della Regia Camera della Sommaria, anno 1662, in cui si parla di «protettione della Prencipessa (…) et di
monsignor vescovo de Avalos», di cui si dice risieda in Isernia. L’identificazione
di questo vescovo d’Avalos – che
anche Antonio Maria Mattei lascia inespressa – va fatta per via di indizi: sulla
premessa che non c’è mai stato un d’Avalos a reggere la diocesi isernina,
monsignore doveva reggere altra sede vescovile. Don Diego ha due fratelli che
indossano l’abito talare: un Tommaso d’Avalos – vescovo di Lucera, ma deceduto
nel 1643, e Bonaventura d’Avalos[7],
frate agostiniano, che negli anni 1653/1659 regge la diocesi di Nocera. Se ne
deduce che il vescovo d’Avalos che intercede per gli isernini con il Regio
Fisco sia lui.
Da Diego d’Avalos, invece, non troviamo mai espresso un
sentimento di benignità verso i sudditi: tanta solidarietà sarebbe apparsa un unicum rispetto a un quadro coerente che
ci parla di abusi e sopraffazione verso i sottoposti. Don Diego usa forme
lecite per addivenire a risultati illeciti nella sostanza: con atto del 1646
redatto dal notaio isernino Claudio Pizzi fa formali concessioni e rinunce alla
città verso il pagamento annuo di una gabella di 1000 ducati; peccato che ciò
che concede, vergato a piuma d’oca, sia già in diritto della città, al pari di
ciò cui fa rinuncia. Così, istituzionalizza un tributo che la città pagherà
come un pizzo per un ventennio, sapendo forse di essere stata gabbata, ma
conservando mutismo per quieto vivere. Il pizzo verrà generosamente rimodulato nel pubblico parlamento del 28 marzo 1669 tenuto in Palazzo San Francesco
alla presenza degli ottimati cittadini (il consiglio dei venticinque nobili) e
degli eletti dal popolo: il magnanimo principe concede sì una riduzione nell’entità
del tributo – tassa, ricordiamo, non dovuta – ma dietro promessa dei cittadini
a non dolersi a Napoli per quanto esatto nel pregresso. Così testualmente: «… restando obbligata la supplicante di
corrispondere solamente annui ducati 300 della siddetta somma di d’annui duc.
1000, con che li suddetti annui duc. 700 cedono in estinzione di qualsia
pretentione che potesse havere essa supplicante contro il sig. Marchese per
causa di soverchia esattione fatta da’ suoi Erarij per il passato.»[8]
Va notato che nel documento (a data 1669) il principe è chiamato
marchese: morto senza eredi il fratello Francesco Ferdinando, il 23 maggio
1665, Diego acquisì, infatti, i (più importanti) titoli di marchese del Vasto e
di Pescara. La dignità di marchese, a quel punto, precedeva nell’intitolazione
ufficiale, quello più recente e vile, di principe di Isernia.[9]
Dopo quella data, il suo orizzonte divenne la costa adriatica e
pose capitale a Vasto. Ebbe però l’umana sfortuna di sopravvivere – non
soltanto – al suo primogenito, (un altro) Ferdinando Francesco, che morì,
ventunenne, nel 1672, al quale aveva dato la contitolarità del marchesato di
Pescara; ma anche al figlio di questi (e, dunque, suo nipote) Diego, che
trapassò ad appena diciotto anni, nel 1690. Così, quando anche il vecchio Diego
I d’Avalos passò a miglior vita, il 4 marzo 1697, tutte le sue dignità e proprietà
passarono in testa all’altro suo figlio, Cesare Michelangelo d’Avalos.
Cesare, il secondo principe
Questo secondo principe di Isernia, Cesare Michelangelo, nasce nel
1667 a Vasto, città divenuta centro nevralgico degli affari di Don Diego dopo
il 1665; qualcosa che però rimandi al feudo molisano comunque c’è: a fargli da
madrina al battesimo, il 19 gennaio 1667, è una tal signora Elisabetta D'Alois
«come Procuratrice della Rev.ma Madre
Suora Rosina Sanfelice, Monaca del Monastero di S.Chiara nella Città di Isernia.»[10]
Nel 1690 sposa Ippolita d’Avalos, figlia di un suo cugino di
secondo grado, Giovanni, principe di Troia. La coppia non ha discendenza.
Cesare, invece, ha (almeno) una figlia naturale, Anna Maria Gaetana, in
clausura nel nostro convento di Santa Maria delle Monache con un vitalizio
annuo di 200 ducati, posto a carico dei cittadini di Isernia[11]. Rispetto
alla città, Cesare mutua lo stesso rapporto osservato dal padre Diego: soprusi,
sopraffazioni, minacce. Tranchant, sul
punto, il giudizio che ne dà una recente monografia: «…fu un uomo potente anzi “onnipotente”, arrogante e prepotente con gli
abitanti delle università a lui infeudate; era solito circondarsi di armati che
difendevano i suoi interessi economici nelle campagne»[12].
Il vantaggio, per la città, è che lui, almeno, è un padrone lontano.
Cesare – nomen omen –
assomma nel suo blasonario oltre 30 titoli e predicati: nel diploma datato 2
marzo 1704, col quale l’imperatore Leopoldo I gli conferma la dignità di
Principe del Sacro Romano Impero già riconosciuta ai suoi antenati, viene
indicato come
« … Don
Cesare d’Avalos d’Aquino d’Aragona, Marchese di Pescara e del Vasto, Principe
di Francavilla, Roccella e della Città d’Isernia, Duca di Monte Negro, Monte
Itilia e Monte Bello, Marchese di Castro Vetere, Conte della Grotteria e del
Contado di Monteodorisio, Scerni, Pollutri, Casal Bordino, Furci, Guilmi,
Gissi, Lentella, Casalanguida, Liscia, Colle di Mezzo e delle Ville Alfonsine
e Cupello. Signore delle Baronie Blanco e Condojanno, signore della Città di
Lanciano e delle sue Ville, Santa Maria, Pietra Costantina, Stannazzo,
Mozzagrogna e Scorciosa. Signore delle isole Procida, Bivaria e S. Martino,
delle Terre Serra Cavriola, Cieuti, Civita Campomarano e Castel Tureno, Barone
di Figliola, Riporsori (ma è Riporsi,
presso Isernia). Signore dello Juspatronato della Roccella, Castellano,
Capitano a Guerra e Governatore perpetuo della fortezza, Città e Isola
d’Ischia. Generale d’uomini d’Arme, Cavaliere del Tosone e Chiave d’Oro, Signore
di tutta la famiglia d’Avalos, due volte Grande di Spagna di Prima Classe e
nostro Supremo Maresciallo di Campo …»[13].
In quel periodo, Cesare è a Vienna, presso la Corte imperiale,
in esilio dorato, ricoprendovi l’ufficio di Gran Ciambellano con stipendio
di 24.000 fiorini. Come fu che arrivò alla Hofburg
è storia da romanzo d’appendice che tenterò di compendiare.
Cominciò tutto con la cd. “Congiura di Macchia” che mirava al
ritorno di un re (austriaco) sul trono di Napoli, al posto di un viceré a
governare per procura. Cesare – seppure timidamente – è tra i congiurati che
nel settembre del 1701 fanno insorgere Napoli contro il governo del Duca di
Medinaceli. La congiura si inserisce nel più ampio contesto della Guerra di
Successione spagnola (1701-1714) apertasi dopo la morte senza eredi dell’ultimo
Asburgo di Spagna, l’infelice Carlo II. Sul letto di morte, Carlo aveva
indicato come erede il delfino di Francia, andando contro l’interesse degli
Asburgo d’Austria, cui pure era imparentato. Così, quando il francese Filippo V
era diventato re di Spagna (e quindi anche di Napoli), i mal di pancia
austriaci si concretarono in una fronda antilealista di cui la “Congiura di
Macchia” fu massima espressione.
Il principe d’Isernia, in realtà, con notevole senso di
opportunità e attendismo, non aveva trascurato del tutto il partito francese:
annusando l’aria, si era rivolto anche a Luigi XIV e al nuovo re di Spagna
Filippo V, nella speranza di favori e condizioni migliori; il loro silenzio,
tuttavia, lo aveva determinato alla professione di fede filoaustriaca. La sua autorevole
partecipazione al partito imperiale non passò inosservata. Nel 1701, nei
giorni immediatamente precedenti la sommossa, il viceré, duca di Medinaceli,
inviò in Abruzzo l’auditore generale dell’esercito con cento uomini armati,
col pretesto di contrastare il brigantaggio, ma col fine ultimo di far sentire
il fiato sul collo al marchese: Cesare,
in quanto grande di Spagna non poteva essere arrestato e sottoposto
a giudizio penale se non per ordine del re in persona, dunque la spedizione
militare era da intendersi più come un avvertimento: moral suasion attuata con l’alabarda, diremmo.
Nel frattempo, la congiura esplode (e porta i suoi effetti anche
a Isernia, come detto in altro scritto, cui rimando) ma subito si spegne,
effimera. Qualcuno tra i congiurati, però, ci rimette la testa. In fondo, tutto
si risolve in un regolamento di conti all’interno della nobiltà di sedile. Tra
quanti si impegnano nella repressione della congiura troviamo un altro
esponente di casa d’Avalos, Andrea[14],
principe di Montesarchio, già ammiraglio delle galee di Napoli: un giovanotto
di 84 anni, che nei giorni concitati dei torbidi comanda i suoi “in sedia a
braccio”, cioè portato a spalla, come un santo in processione. Probabilmente
Andrea è interessato ad ottenere i ricchi feudi di Vasto e Pescara. Ma, alla
fine, una volta sequestrati a Cesare, i beni andranno ad un Lante della Rovere,
duca di Bomarzo.
Infatti, il 13 ottobre 1701 Cesare Michelangelo d'Avalos viene formalmente dichiarato ribelle e traditore della Corona da Filippo V. Lui si organizza (come prima cosa, spedisce la moglie in convento) e fugge oltreconfine, a Roma, dove anziché fare la vita nascosta dell’esule, si dà ai bagordi: prende casa in affitto dai Barberini, fa spese per nuovi arredi e cavalli e mantiene il suo esercito privato. Roma è comunque un crocevia di spie: è il luogo in cui – anche prima della congiura – si sono misurati e guardati di traverso i due partiti, l’imperiale e il filofrancese. Così, l’ambasciatore di re Luigi XIV, il cardinale Toussaint de Forbin-Janson, trama per catturare Cesare e portarlo a Napoli ad affrontare il processo: gli organizza una falsa udienza col pontefice, con il fine di insaccarlo e spedirlo al Viceré, ma l’altro partito informa d’Avalos e lui – dopo aver torturato un famiglio del cardinale per estorcergli la verità – si vendica in modo plateale tappezzando Roma di manifesti di accusa contro il francese e rifugiandosi presso l’ambasciatore imperiale. Il papa – Clemente XI – seppure controvoglia, non può non rimanere inerte e il 18 marzo 1702 condanna Cesare d’Avalos in contumacia «ad aver mozzo il capo come calunniatore di un cardinale di Santa Chiesa ambasciatore del re Cristianissimo»[15]. Ne segue l’’intervento diretto dell’imperatore – che vede la condanna inflitta come un personale affronto, poiché il 16 dicembre 1701 ha conferito a Cesare Michelangelo d’Avalos il titolo di suo supremo maresciallo di campo, pur in assenza di reali meriti militari – e il trasferimento con passaporto diplomatico di Cesare a Vienna.
A Vienna, per un decennio, Cesare farà il viveur, affinando tuttavia anche quei talenti di bibliofilo e
mecenate che, tornato in patria, nel 1713, una volta che Napoli diverrà terra
austriaca, Cesare ebbe modo di coltivare nella sua Vasto. Il ritorno, infatti,
sarà accompagnato da una corte di sensibilità asburgica. Cesare si darà ad
interventi di disegno urbanistico della sua capitale, elevata anche formalmente
a rango di città con decreto imperiale e creata sede vescovile.
E Isernia, in tutto questo?
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Giacomo
Cantelli, cartiglio de «Li Regni di Granata e d'Andalucia» |
La cesura (1698/1710). La città al Principe di Colle d’Anchise
Facciamo un salto indietro e rioccupiamoci di casa nostra. Nel
1698, prima delle vicende sopra narrate, Cesare d’Avalos vende la città di
Isernia al principe di Colle d’Anchise, Fulvio di Costanzo[16].
Questo Fulvio apparteneva alla antica famiglia dei di Costanzo,
patrizi napoletani venuti con gli Svevi di Enrico VI; era il III principe di
Colle d’Anchise, dopo che il nonno – che aveva lo stesso nome – ne aveva
acquistato per matrimonio titolo e feudo.
Fulvio di Costanzo conserva la città tra il 1698 e il 1710, ma non viene
mai indicato come “principe di Isernia”. Al più, Masciotta[17]
ne dà l’inusitato titolo di “duca di Isernia”, che non ha precedenti. È possibile
che Cesare abbia devoluto il bene feudale (la città) conservandone tuttavia il
titolo?
Fatto sta che nel periodo in cui Isernia è infeudata a Fulvio di
Costanzo, il titolo è comunque speso da Cesare. Sulla permanenza della dignità
di principe sulla testa di Cesare abbiamo due indizi testuali: il primo è il
ricordato diploma imperiale del 1704, che tra le sue molte dignità annovera anche
quella di “principe di Isernia”; per il secondo dobbiamo far riferimento alla
nota incisione di Francesco Cassiano De Silva inserita nel terzo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva dell’abate
Pacichelli (pubblicato postumo nel 1703): nella stampa di Isernia ritratta a
volo d’uccello (dove alla lettera “G” si dà indicazione del “Palazzo del
Principe”), le armi riportate a lato del cartiglio col nome della città sono
dei d’Avalos (d’azzurro alla torre d’oro con bordura composta di sedici pezzi,
alternati d'argento e di rosso) e non già quelle dei di Costanzo (d'azzurro, a
sei coste d'argento 3 e 3 poste in fascia, abbassate sotto una riga rossa
sormontata da un leone passante d'oro).
La vendita della città al principe di Colle d’Anchise aveva
rimesso in moto la macchina dei ricorsi giurisdizionali, poiché gli isernini
ebbero nuova occasione per vantare quel diritto di prelazione rimasto
inconsiderato in altre vendite. Ma se i d’Avalos padre e figlio si comportarono
verso la città infeudata da farabutti approfittatori, di Costanzo si mostrò
vera carogna: il nuovo padrone fece da subito capire ai cittadini che frapporsi
tra lui e i suoi interessi non era cosa opportuna, minacciando i maggiorenti
della città con gente armata. Ne seguì, accanto alla controversia civile, un
corollario di azioni penali (“cause criminali”) rivolte reciprocamente dagli
isernini contro il principe e i suoi “armizzeri” e da questi verso i cittadini.
Fulvio di Costanzo era ben inserito a Napoli, poiché vi presiedeva il Consiglio
Collaterale di sua Maestà e il vicerè, duca di Medianaceli, avrebbe voluto
mettere sotto sabbia l’intera, scomoda vicenda, senonché gli isernini,
capetoste, avevano scritto direttamente a sua Maestà, il quale «con sua real carta [ordinò] prendersi
informatione delle oppressioni, sacchi, flagelli e morte data a’ cittadini di
essa città dall’Ill.e Principe di Colle d’Anchise»[18].
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Frontespizio
dell'edizione napoletana (1714) dei «Saggi di naturali esperienze fatte
nell'Accademia del Cimento sotto la protezione del serenissimo principe
Leopoldo di Toscana e descritte dal segretario di essa Accademia», opera
di Lorenzo Magalotti, dedicati a «D. Cesare Michelangelo Davalos [...]
principe [...] della Città d'Isernia» |
Si inserisce, in questo contesto di azioni e reazioni, anche la
sollevazione cittadina del 25 settembre 1701, che – si è detto sopra – consacra
l’adesione della città alla già vista “Congiura di Macchia”. Isernia si solleva
non tanto perché interessata alle sorti del partito imperiale piuttosto che
quello lealista: la congiura assume anche e soprattutto un significato locale:
se, come visto, Cesare d’Avalos è tra i congiurati a sostegno degli Asburgo,
Fulvio di Costanzo milita nell’avverso partito dei lealisti alla corona di
Filippo V, per cui la sollevazione è da spiegarsi anche come reazione violenta
al nuovo indigesto feudatario e come risposta ai crimini da lui perpetrati
verso la città.
La rivolta, a Isernia, durò un giorno, e la città tornò presto
mansueta; ma i rapporti tra nuovo principe e città non furono mai sereni,
tanto che Fulvio di Costanzo pensò bene di esercitare la clausola “de
retrovendendo” apposta alla vendita del 1698, e nel 1710 fece riacquistare
la città a don Cesare d’Avalos per 57.400 ducati[19].
Ritratto ad olio di Cesare Michelangelo
D’Avalos – Collezione privata
L’eredità
contesa
Pur se rientrò nel possesso della città, Cesare d’Avalos non
ebbe più occasione di essere presente nella vita cittadina. Isernia era una
delle tante vacche che il marchese del Vasto saltuariamente mungeva. La rendita
feudale della città era di 810 ducati annui[20];
altre rendite derivavano dai fitti sulle proprietà del principe: il palazzo
baronale, il Palazzotto (con lo stesso nome di oggi si incontra nei documenti
d’archivio) è smembrato e locato a diversi: le sette rimesse danno 12 ducati
annui; l’abitazione con giardino, 9 ducati; una stalla 1 ducato e mezzo. Cesare
loca tutto il suo patrimonio immobiliare cittadino: case, terreni, mulini, la
cartiera, il trappeto.
Il padrone è lontano: a Vasto, divenuta piccola capitale europea del suo personale stato feudale,
tra i più importanti del Meridione.
Cesare è il principe, nell’accezione che ne dà Machiavelli: è
padrone indiscusso nei suoi feudi, nei quali esercita la massima autorità:
spregiudicato, froda il Regio Fisco attribuendosi entrate che spettano alla
corona, così come si dà con successo al contrabbando del grano e del sale.
Tre luoghi di Palazzo d’Avalos in Vasto danno l’idea di Cesare
come principe europeo: la quadreria – che raccoglie anche tele di Raffaello, Tiziano,
Rubens e del Seicento napoletano – e la biblioteca di oltre ottocento volumi. E
poi, il teatro privato che fa realizzare in un’ala di Palazzo d’Avalos, «un teatro intiero con cinque mutazioni di
scene e con un panno di sangallo davanti, (…) e un balchetto dirimpetto di
legno pittato con sei sedie di paglia», dotato di «cembalo a due registri con tasti di avorio»[21].
Del resto, Cesare stipendiava un suo maestro di cappella per gli intrattenimenti
musicali a palazzo (Nicolò Filomena, autore di un oratorio a tre voci – Il martirio di S. Cesareo – dedicato al
suo mecenate per l’onomastico del 1695). Un illuminato, un esteta, incaricato
da Carlo d’Asburgo della consegna del collare del Toson d’Oro al principe
Fabrizio Colonna (nel 1721) in quella sfarzosa celebrazione che oggi dà spunto
per una pacchiana riedizione a uso di turisti inciabattati.
Non pare strano che l’eredità del marchese si componga quasi
interamente di debiti.
Facciamo un passo indietro. Si è detto che da Cesare e Ippolita non
nacquero figli. Il problema dell’individuazione di un erede, ad evitare il
trauma della devoluzione feudale (il ritorno dei beni alla Corona), è sentito
non soltanto dal marchese, ma da tutta la famiglia: nella vicenda, entra a
gambatesa anche il suocero Giovanni d’Avalos, principe di Troia. L’idea è
quella di far convergere i due rami superstiti della famiglia (quello di
Vasto/Pescara e quello di Troia/Montesarchio). Inizia così un lungo corteggiamento
del marchese del Vasto.
Un primo testamento Cesare lo detta nel 1713, quando è ancora
nel pieno delle forze. Viene individuato come erede universale Giovanni
Battista d’Avalos (1694-1749), nipote acquisito perché figlio di Nicola
(Niccolò) d’Avalos, fratello di Ippolita, sua moglie. A Giovanni Battista
sarebbero andati a morte di Cesare i titoli marchesali di Vasto e Pescara (il core business di casa d’Avalos), il
titolo di Grande di Spagna e altre terre e dignità. Nel frattempo, per non
restare spoglio, spende già il titolo di principe di Francavilla.
Qualcosa però, col tempo, comincia a scricchiolare. Giovanni
Battista non ha (ancora) discendenza e questo ne mina la capacità di
traghettare titoli e feudi verso il futuro. Così va preparato un piano “B”: con
codicilli apposti al testamento da un malandato Cesare, nel 1729, viene legata
la città di Isernia, con il relativo titolo di principe, ad un altro nipote
acquisito, Carlo Cesare d’Avalos, figlio minorenne di Andrea, altro fratello di
Ippolita (cui spetta l’amministrazione dei beni fino alla maggiore età). A
Carlo Cesare vanno anche, per legato, tutti i mobili che sono nel palazzo di
Isernia, il ritratto dell’imperatore Carlo VI e i due collari ingioiellati del
Toson d’Oro che si trovano nella casa madre di Vasto. In più, la famiglia
comincia ad accendere i fari su un fratello di Giovanni Battista, Diego, cui
viene legata una forte somma nel testamento di
Cesare.
Quando Cesare Michelangelo d’Avalos lascia questa terra, per infezione
polmonare, il 27 agosto 1729, nella sua Vasto, aperti testamento e codicilli, i
due cugini – l’erede Giovanni Battista e il legatario Carlo Cesare – arrivano subito
ai coltelli e alle carte bollate. Cominciano liti, ricorsi e lodi arbitrali,
puntualmente disattesi dalla parte soccombente. La vera sorpresa, per tutti, è
che l’eredità, nella sua complicata consistenza di crediti difficilmente
esigibili e debiti contratti dal dissoluto Cesare (oltre ai tanti legati che
gravano l’erede designato: Cesare non ha dimenticato nessuno, e moltissimi sono
i sodali del suo periodo austriaco), è difficile da ricostruire nel suo quantum. Per questo, Giovanni Battista accetta
col beneficio d’inventario. Nell’Archivio di casa d’Avalos, al n. 1209
d’inventario, si conserva un «volume
legato in cartapecora di 236 fogli contenente copia conforme dell’inventario
dei feudi e dell’eredità del marchese Cesare Michelangelo d’Avalos d’Aquino
d’Aragona compilato su richiesta del signor Giovambattista d’Avalos d’Aquino
d’Aragona marchese del Vasto e aperto in data 3 aprile 1730».
Duecentotrentasei fogli, la consistenza di un elenco telefonico.
La mazzata finale la dà il mutato contesto politico: finito il
periodo degli Asburgo re di Napoli, e istauratasi con Carlo la monarchia dei
Borbone (1734), viene revocata la grazia riconosciuta a Cesare nel 1709, per il
suo tradimento del 1701 verso la
corona spagnola e si dispone, come fu fatto allora, il sequestro dell’intero
patrimonio del fu Cesare.
Giovanni Battista si oppone: per salvare il salvabile sostiene
di essere padrone delle terre dei d’Avalos non iure hereditatis, ma come creditore egli stesso dello zio. Ne nascono
ulteriori cause davanti alla Regia Camera della Sommaria, non ancora definite
all’atto della sua morte, avvenuta nel 1749.
Prima ancora, il clima si era ulteriormente avvelenato per la
nuova faida familiare che oppone il povero
erede designato a suo fratello Diego, riguardante singoli cespiti dell’eredità. Gli esiti ci interessano poco
perché riferiti ad altri feudi, non a Isernia, la cui vicenda trova soluzione
proprio in questi anni.
L’eversione
della feudalità
«[…] Essendosi dedotta l’eredità del fu Illustre
Marchese del Vasto nelli regij Tribunali di Napoli e fatto il sequestro
d’ordine della Reggia Camera di tutto il suo patrimonio, nel medesimo Tribunale
furono ristaurate tutte le pretensioni della città, ed antiche e moderne».
Ogni vicenda interruttiva della proprietà feudale – e dunque
anche il sequestro dei beni – consente alle città infeudate di riproporre i
propri diritti di pretensione. Così è
per Isernia, cui – forse contrariamente ad altre terre del marchese Cesare – il
ritorno alla demanialità è particolarmente agognato. Lo si comprende nelle
parole usate nel 1742, nel pubblico parlamento che si tiene in città il 16
maggio, in cui le magistrature cittadine – il mastrogiurato, i due laterali
espressione del consiglio dei nobili e i due eletti dal popolo – informano la
città dei tentativi fatti per riscattare Isernia: «Sanno bene loro Signori da quanti anni a’ dietro li nostri fedeli
Patritij hanno sudato e speso denaro proprio e del pubblico pel riscatto di
quella libertà che da tanti secoli a’ dietro havean gloriosamente goduta li
nostri antenati e poi perduta da cento e due anni a questa parte (…)»[22]
Il 25 gennaio 1742 il tribunale regio finalmente attribuisce
efficacia alla transazione intercorsa tra i cittadini di Isernia, il Regio
Fisco e i creditori dei d’Avalos: questi ultimi accettano il pagamento di
43.000 ducati per veder riscattata la città. Vengono da subito versati al Regio
Fisco la somma di 10.000 ducati e c’è l’impegno a saldare il residuo nell’arco
di un anno.
Lo sforzo economico per onorare il riscatto non è esiguo: la
città si indebita con i suoi monasteri (San Pietro Celestino, S. Chiara),
dai quali ottiene ducati verso
concessione di censui annui; in più si vendono i gioielli di famiglia, i feudi
di Riporsi, Roccavarallo e Sasso.
La città viene finalmente riacquisita al demanio nel 1744. Formalmente,
il feudo deve intestarsi ad uno dei suoi
cittadini: viene scelto tale Cosmo Ciaja. Il titolo di “Principe di Isernia” è
cancellato con Regio Assenso del 6 aprile 1745[23].
L’ultima rata e il ritorno alla demanialità si perfezionerà solo nel 1774.
Agli isernini il prezzo deciso andò anche bene. Alla città posta
sotto sequestro, infatti, doveva darsi
un valore e il Regio Fisco procedette al cd. apprezzo: venne in città il regio
tavolario Casimiro Vetromile che, quaderno alla mano, descrisse e valutò
l’intero abitato come fosse un ufficiale giudiziario qualsiasi, venuto a
prendersi divano e televisore (e la relazione di Vetromile è una solida base da
cui partire per la conoscenza della città del Settecento). Quando consegnerà il
suo lavoro, nel 1744, la stima data a Isernia è di 60.504 ducati.
Così si chiude la pagina del baronaggio. Il titolo – effimero,
si diceva – di principe di Isernia era stato portato, per altro posposto nel
catalogo delle dignità, soltanto da Diego e Cesare, entrambi secondogeniti,
rami cadetti: più distanti dal tronco, ma più tenaci e resistenti.
|
Isernia,
stampa di G.B. Pacichelli (1703). |
Giovan
Battista. L’ultimo principe
In realtà, l’ultimo a spendere la dignità di principe di
Isernia, malgrado il sequestro dei beni di famiglia, è proprio Giovanni
Battista (1694-1749).
Nel proemio dell’opera musicale L’errore amoroso di Antonio Palomba, con musiche del «Signor Nicolò Jommelli Maestro di Cappella
dell’Eccellentissimo Signor Marchese del Vasto», «da Rappresentarsi Nel Teatro Nuovo sopra Toledo nella Primavera di
quest’anno 1737», la dedica al mecenate d’Avalos, «l’Eccelletissimo (sic) Signore D. Giovanni Battista d’Avalos d’Aquino
d’Aragona» indica tra i titoli vantati, nel 1737, quelli di «Marchese del Vasto, e di Pescara, Principe
di Montesarchio, Francavilla, della Città di Troja, e d’Isernia, e del S. R.
I., Conte di Monte Odoresio, e sue Terre, Sig. dell’Isola di Procida, della
Città di Lanciano, del Vallo di Vitolano, Serra Capriola, e Chieuti, del Ducato
di Monte Negro, Montelateglia, Turino, perpetuo Governadore della Fortezza
Città, ed Isola d’Ischia, e Grande di Spagna di prima Classe &c.»
Dunque, almeno sulla carta intestata, Giovanni Battista d’Avalos
è III principe di Isernia, non essendosi dato corso al legato che investiva del
feudo il cugino Carlo Cesare.
Chi è questo Gianbattista? La sua biografia è meno ricca e
interessante di quella dei suoi agnati principi di Isernia. Nel 1716 sposa
donna Silvia Spinelli dei principi di Tarsia, ma non deve essergli bastata: la
rete internet – mare magnum di ogni
pettegolezzo – ce lo dà protagonista di una vicenda salace, da sceneggiatura di
b-movie italiani anni 70 (tipo “Metti lo diavolo
tuo ne lo mio inferno” e altri kolossal di genere), consumatasi nel suo
feudo di Serracapriola, e da prendersi con le dovute pinze: qui, nell’esercizio
del controverso ius primae noctis
verso una popolana di singolare bellezza, sarebbe stato oggetto della vendetta
del meschino coniuge che, piazzatosi nottetempo munito di schioppo su un albero
da cui poteva ben inquadrare la finestra del palazzo baronale e la schiena nuda
del divino marchese, ebbe la sorte di
cadere dal ramo prima di poter fare fuoco sui copulanti; venne così scoperto
dagli sgherri di Giovanni Battista e portato davanti all’irato Giovanni
Battista, che gli fa prima tagliare le mani e poi comanda di impiccarlo allo
stesso albero[24].
Al di là della leggenda popolare di Serracapriola (riportata qui
su perché gustosa nel suo brodo
boccaccesco, più che per l’horror vacui
incontrato nel popolare la sua scheda biografica), di Giovanni Battista
d’Avalos rimangono agli atti la sua attività di mecenate e quella, meno nobile,
di affannato difensore dei beni familiari, spese entrambe lontano da Isernia.
Damnatio
memoriae
Se a Vasto la presenza dei d’Avalos è ancora tangibile, anche in
aspetti insospettabili (per dire, “d’Avalos” è il nome dato alla curva dei
tifosi di casa, in uno stadio che per ulteriore richiamo identitario è chiamato
“Aragona”), per non parlare della anche sopra richiamata cerimonia
folkloristica del “Toson d’Oro” che annualmente si tiene in città e rievoca i
fasti della corte marchesale, a Isernia i d’Avalos sono condannati all’oblio.
Nella città che per cento anni li ha comunque avuti per principi, non c’è
neanche una strada di campagna a loro intitolata; certo, come ampiamente
dimostrato nel presente testo, contrariamente ai vastesi, per gli isernini i principi
sono stati più avvoltoi che mecenati.
Cosa rimane dei d’Avalos in città? A metà di Corso
Marcelli, a sinistra, salendo appena dopo il Comune, a fronteggiare la piazza
intitolata a Trento e Trieste, si trova la facciata del Palazzo d’Avalos-Laurelli,
a Isernia familiarmente chiamato ru Palazzotte.
Quella che si vede è la versione ottocentesca del palazzo, riedificato in
forme neoclassiche ad opera dei Laurelli.
Qualcosa dell’originale, però, credo rimanga tuttora: come
giustamente fatto rilevare da Franco
Valente[25],
lo stemma gentilizio della famiglia Laurelli che oggi si vede apposto sopra il
portone principale del palazzo (con leoni rampanti e albero di lauro) sembra
inscritto – anche un po’ goffamente – nello scudo che precedentemente ospitava
il blasone dei d’Avalos: lo si deduce dalla permanenza della bordura scaccata
dello scudo presente nello stemma dei d’Avalos, e ancor di più, dalla corona
marchesale che lo sovrasta. Se così è, dobbiamo pensare che il manufatto si
riferisca comunque al periodo successivo al 1665, data in cui Diego acquisisce
i titoli di marchese del Vasto. Anche il regio tavolario Vetromile, nel 1744,
aveva visto l’impresa del principe
esattamente dove è ora posta: sopra il «(…) portone
principale, il qual è ritondo, ornato di pietre di taglio del paese a libretto,
con impresa sopra di simile pietra intagliata della famiglia Avalos, con
portone di legname guasto e coda di pavone».
Per Palazzo d’Avalos non si conosce la data di costruzione. In
più parti si incontra la data 1694, ma mai confortata da fonti certe. In
effetti, il 1694 appare davvero data tarda. Atti di compravendita stipulati da
Diego d’Avolos per acquisire case e terreni su cui edificare il palazzo
baronale datano 1651. Certo è che quando Giovan Vincenzo Ciarlanti pubblica nel
1644 le sue «Memorie Historiche del Sannio» non c’è né palazzo, né
piazza, dal momento che nella descrizione della città il primicerio isernino
individua nella piazzetta davanti palazzo San Francesco (l’attuale Piazza
Marconi) lo spazio più ampio aperto, dopo quello della Cattedrale, lungo il
decumano cittadino; del resto, nel 1644, era appena stato vergato l’atto di
vendita della città tra il duca Greco e Diego d’Avalos e un “Palazzo del
principe” non poteva esserci.
Quel che sappiamo è che – specie nei primi anni dell’acquisto di
feudo e relativa dignità – Diego d’Avalos ha residenza in Isernia. Qui
certamente vive la principessa; qui (come visto sopra) viene ospitato il
vescovo d’Avalos durante la peste a Napoli. Appare strano che l’edificazione di
un palazzo adeguato alla dignità del principe sia da porsi alla fine del
secolo.
Per una descrizione compiuta del palazzo dobbiamo rimetterci a
due fonti – già sopra palesate. Una è la stampa inserita nell’opera di Giovan
Battista Pacichelli (1703), che ci dà l’immagine di un palazzotto severo, ad
un solo piano, con allineamento a “L” che coprono due dei tre lati della piazza.
L’altra, testuale, è la relazione di Vetromile che fotografa il
palazzo alla metà del secolo. Ci conferma la presenza di un solo piano: attraverso
«diciannove scalini di legname si ascende
nelli suppegni, che cuoprono tutto l’intero palazzo e le stanze della paggieria
che si descriveranno, quali suppegni tengono il suolo solamente di tavole, che
formano la suffitta nelle suddette stanze.» Dunque, piano strada, piano
nobile e suppegni. Struttura non
diversa da quella del palazzo di Vasto, almeno sul prospetto di Piazza Lucio V.
Pudente.
Il palazzo è posto sul « largo
grande, che sta avanti il prospetto di detto palazzo, ch’è proprio del
medesimo, a destra del quale vi sono sette porte grandi rotonde, ornate con
pietre di taglio del paese. (…) Nel lato in testa di detto largo, vi è il
portone principale e nel lato a sinistra due porte, per quella ritonda si entra
in un giardinetto murato». Il largo, è quello che più tardi sarà denominato
“Mercatello” in opposizione ad altra più grande piazza della città, quella
appunto “del mercato” (piazza Andrea d’Isernia). Le sette porte a destra,
corrispondenti a sette locali di rimessa, sono quelle che ritroviamo nelle
carte dell’eredità, date in fitto, e dalle quali – nel 1733 – si ritraggono 12
ducati annui. Le due porte a sinistra sono quelle che danno sul giardino
pensile del Palazzo, esistente ancora oggi nella medesima collocazione.
Dalle carte dell’eredità sappiamo che anche l’appartamento
baronale, a morte di Cesare, era affittato a terzi. Verosimilmente ciò accadeva
anche prima, nel periodo compreso tra il riacquisto del feudo nel 1710 e,
appunto, nel 1729: perché tenere inutilizzata l’ampia superficie del piano
nobile se il marchese viveva altrove? Meglio mettere tutto a reddito e locare,
e se aveva necessità di tornare nel suo feudo molisano, meglio un più discreto pied-à-terre.
È così che va interpretata la notizia che si incontra nel già
citato manoscritto intitolato “Ricordo,
o sia notizia sugli interessi del principe della Città d’Isernia”: «D. Cesare
d’Avalos per farsi una abitazione da domiciliarci, si prese da Cittadini
alcune case vicino alla ven. Chiesa della Ss.ma Annunziata di detta Città e
specialmente dalla detta Chiesa due casette […] ed un giardino contiguo ad essa
chiesa, per le quali casette ed orto si obbligò il succitato marchese
corrispondere carlini otto l’anno, come in tutti i libri delle economie di
detta Chiesa si trovano esemplati detti stabili». Don Cesare ampliò quindi la
proprietà su case e giardino che si trovavano tra l’Annunziata e il Palazzotto,
sul tratto di mura cittadine che ancora oggi fa da contrafforte al palazzo,
lungo Via Occidentale. La Chiesa della SS. Annunziata, sappiamo, non esiste
più, sostituita dal corpo di fabbrica di palazzo Pansini. I cento metri buoni
che oggi separano Palazzo Pansini dal Palazzotto, dietro la prima vela di case
aggettanti sul Corso Marcelli, erano al tempo colmati dal giardino di cui alla
notizia. La conferma si ha da Vetromile: nel descrivere la chiesa
dell’Annunziata, ci dice che «In testa vi è l’altare maggiore di fabbrica,
con cona di legname, con quadro della santissima Annunziata, con due porte nei
lati corrispondenti a due picciole sagrestie, col comodo del bancone, ove sono
riposte le suppellettili di essa chiesa e da una di esse sagrestie, mediante porta,
si corrisponde al giardinetto del palazzo baronale». Dunque, Palazzo del
principe e Chiesa dell’Annunziata sono, nel 1744, proprietà contigue, entrambe
aggettanti sul giardino murato di pertinenza del palazzo.
Palazzo
d’Avalos nel 1744, dalla relazione di Vetromile: a)
Palazzo; b) giardino; c) Chiesa della SS. Annunziata. |
Torniamo al “Ricordo, o sia
notizia sugli interessi del principe della Città d’Isernia”: che la notizia
sia riferita proprio a Palazzo d’Avalos (poi Laurelli) lo dichiara un appunto
vergato a margine da diversa calligrafia: «questa è la casa che Berardino
Manzi comprò quando Isernia si tolse dalla patronanza del principe, e fu dichiarata
Città Regia; oggi si possiede dal signor Laurelli».
A completare il quadro, dobbiamo prendere in considerazione un
altro documento: la memoria di Pasquale Fortini sui danni del terremoto del
1805[26].
Descrivendo i danni che il sisma di S. Anna apporta all’abitato di Isernia,
giunto all’altezza del Palazzotto – mai nominato come tale – Fortini dice: «Il palazzo del dottor D. Onofrio Laurelli,
sito alla sinistra del largo, chiamato del Mercatello, è di molto lesionato,
specialmente dalla parte di occidente. Il palazzo del signor dottor Sig. D.
Gregorio Spadea e del Sig. D. Giuseppe Mansi alla sinistra l’è quasi intatto.»
Nel 1805, dunque, cinquant’anni e più dopo Vetromile, la
situazione possessoria del Palazzo d’Avalos è la seguente: Il corpo di fabbrica
centrale, posto a sinistra dell’osservatore che risalga per Corso Marcelli,
corrispondente al Palazzo d’Avalos vero e proprio, è di proprietà di Onofrio
Laurelli. L’altra ala dell’attuale palazzo, corrisponde alle proprietà di
Giuseppe Mansi, più in fondo, confinante col giardino, e di Gregorio Spadea,
più vicina al decumano.
“Torre dei Manzi” è chiamata da Cesare de Leonardis, nei suoi
disegni del 1898, la torre – oggi abbattuta – posta sulle mura cittadine, alle
spalle del Palazzotto, verso la zona degli orti digradanti su via Occidentale.
La didascalia che accompagna il bozzetto recita: «Antica torre nel giardino dei sig.ri Laurelli, verso la strada
Occidentale, detta la Torre dei Mansi.»
Dopo il 1805, Onofrio Laurelli (che fu anche matrogiurato della
città negli anni ’90 del sec. XVIII) acquistò anche la proprietà Manzi. Nel 1835, un altro Laurelli, Ippolito,
acquisì per 2100 ducati un'altra ala del palazzo, che era di proprietà della
città (la decisione di vendere di ebbe con delibera del 3 marzo 1835; l’atto venne
recato, via Intendente provinciale, all’approvazione superiore di re Ferdinando
II, che il 18 agosto 1835 vi appose la propria firma).
È successivamente a tale data che deve essere stata realizzata,
nella ricostruzione seguita al terremoto, l’attuale fabbrica del palazzo, in
forme neoclassiche e in continuità sui due lati della piazza. Nulla
dell’originario Palazzotto, se non una suggestione, rimane nell’attuale. La damnatio memoriae è confermata dal tableaux turistico apposta dalla Soprintendenza
(“Progetto Mirabilia”) che lo identifica come “Palazzo Laurelli” e non come
“Palazzo d’Avalos-Laurelli”.
Nota
a margine del «Ricordo, o sia notizia sugli interessi del principe della
Città d’Isernia» |
Link all' Albero genealogico dei d'Avalos principi di Isernia ospitato su Academia.edu
[1] Così in Giovanni Brancaccio, Il Molise medievale e moderno: storia di uno spazio regionale, Napoli, 2005. Altrove ho trovato 28.000 ducati (voce “AVALOS, Diego d', principe di Isernia”, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 4, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1962), ma non cambia molto le cose.
[2]Flavia Luise, I d’Avalos : una grande famiglia aristocratica napoletana del Settecento, Napoli 2006. I crimini di Diego vengono indicati in una nota a pag. 94 come riferiti dai cittadini di Isernia al sovrano.
[3]
Nel Dizionario Biografico degli Italiani (DBI), voce redatta da G. De Caro,
questo Ferdinando Francesco, marchese di Pescara e del Vasto è dato con il nome
di “Alfonso”: date di nascita, di morte,
matrimonio e indicazioni biografiche coincidono.
[4] Per fornire esempio di quali fossero le politiche matrimoniali del patriziato meridionale (e come conseguentemente si intreccino gli alberi genealogici), Isabella d’Avalos, figlia di Diego e Francesca Carafa andrà sposa ad un cugino primo, Carlo, principe di Roccella, figlio di un fratello della madre.
[5] Vd. anche Tommaso de Sanctis, Istoria Del Tumulto Di Napoli; Nella quale si contengono tutte le cose occorse nella Città, e nel Regno di Napoli, dal principio del governo del Duca d'Arcos fino al dì 6 Aprile 1648, 1770.
[6] Ermanno Turco, Isernia in cinque secoli di storia, Napoli 1948
[7]
È Bonaventura d’Avalos a prelevare a Pescara Isabella (sua nipote perché figlia
di Diego) e accompagnarla a Procida per le nozze con il cugino Carlo Maria
Carafa della Roccella nel 1674.
[8] La trascrizione delle concessioni del principe è riportata in Ermanno Turco, cit., pp. 149 e ss.
[9] Il “Teatro farmaceutico, dogmatico, e spagirico” opera del dottore Giuseppe Donzelli, napolitano, barone di Dogliola, è opera che, nell’edizione riveduta del 1667, viene dedicata «all'illustrissimo, et eccellentissimo signore, il signore D. Diego D'Avalos d'Aquino d'Aragona marchese del Vasto, prencipe di Francavilla, et Isernia, conte di Monte Oderisio, signore di Lanciano, Serra capriola, Chieveti, e dell'isola di Procida, e grande di Spagna»
[10]
Dal libro dei Battesimi della Parrocchia di S. Maria Maggiore in Vasto: «A lì 19 gennaro 1667 è stato dell’ill.mo et
Rev.mo Niccolò Rudolovicco arcivescovo e Conte di Chieti, battezzato un
figliolo nomine Cesare, Michele, Angelo, Giuseppe, Domenico, Tomaso, Francesco
Nicolò, Pietro, Celestino, Cosmo, Damiano, Paolo, Mauro, Antonio, Oronzio,
Berardino, Sebastiano, Gioacchino, Felice, che Dio l'alleva, nato alli 15 di
detto, dalli Ill.mi et Ecc.mi Coniugi Sig.Don Diego D'Avalos Marchese del Vasto
et Sig.ra Donna Francesca Carrafa, et è stato tenuto al Sacro Fonte dal Rev.mo
Padre Fra.Raffaele Sena, dell'ordine dei Predicatori et dalla Signora
Elisabetta D'Alois. L'uno Come Procuratore dell'Ill.mo Sig. Don Francesco Maria
Carrafa et l'altra come Procuratrice della Rev.ma Madre Suora Rosina Sanfelice,
Monaca del Monastero di S.Chiara nella Città di Isernia.»
[11]Flavia Luise, I d’Avalos cit., p. 94;ma anche Angelo Viti, Note di diplomatica ecclesiastica (…), Napoli 1972, p. 284: «Alla sig.ra D. Anna Gaetana Davalos (sic) Monacha professa nel dic.to Monistero di S. Maria per suo livello assegnatole sopra questa Città da S.A.R.annui doc. cento». Il tributo veniva versato ancora nel 1730, come risulta da documento presente nell’Archivio Storico comunale.
[12]Mariateresa Pace, Cesare
Michelangelo d'Avalos: un principe senza macchia e il «codicillo» in Archivio
Storico per le province napoletane n. CXXXIII, 2015, pp. 149-167
[13] Qui nella volgarizzazione dall’originale in latino edita nel 1707 dal napoletano Agrippino Boccia: Diploma della dignità di prencipe del S.R.I. conferita dall'invittissimo ... Leopoldo 1. all'altezza prencipale di Cesare Michel'angelo d'Avalos ... dell'anno 1704 / tradotto dal latino nell'idioma italiano da Agrippino Boccia, in Napoli : nella stamperia di Felice Mosca, 1707
[14] Questo Andrea d’Avalos è figlio di Giovanni, primo principe di Montesarchio e fratello di Inigo (il padre di Diego, principe di Isernia); quindi per Cesare è uno zio di secondo grado. Il ramo di Montesarchio si ricongiungerà con quello di Pescara, Vasto e Isernia conGiovan Battista d’Avalos(1694-1749).
[15] Angelo Granito, Storia della congiura del principe di Macchia e della occupazione fatta dalle armi austriache del Regno di Napoli nel 1707 | del marchese Angelo Granito principe di Belmonte, Napoli 1861, p. 199.
[16] A Fulvio di Costanzo, principe
di Colle d’Anchise era dedicata la carta topografica del Contado di Molise
dell’incisore Francesco de Silva (tratta) che modifica dall’originale
realizzata da Antonio Bulifon, nel 1692 per inserirla tra le dodici tavole
relative alle province ne Il Regno di Napoli in prospettiva di Giovan Battista
Pacichelli (1641- 1702), apparso postumo nel 1703.
[17] Giambattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai giorni nostri – II Il Circondario di Campobasso, Napoli 1915, p.158
[18] Ermanno Turco, cit.
[19] Archivio privato Famiglia d’Avalos, n. 1223, così descritto: «27 agosto 1710, assenso alla vendita libera della città d’Isernia e Feudo di riparto a benefìcio di Don Cesare [Michelangelo] d’Avalos Marchese di Pescara per ducati 57.400. Il volume contiene il detto assenso regio in forma legale».
[20] Dati che si ricavano dalla Nota del sequestro degli effetti così feudali come burgensatici che possedeva nella città di Isernia il fu ill.mo Marchese del Vasto D. Cesare Michelangiolo d’Avalos (ASN, Regia Camera della Sommaria, Processi, B. 17, fasc. 8).
[21] Così descritto nella citata Nota del sequestro (…).
[22] Il testo è integralmente riportato in Ermanno Turco, cit., p. 161 e ss.
[23]Vd. Angelo Viti, Note di diplomatica ecclesiastica […], Napoli, 1972, p. 307.
[24]Stanislao Ricci, Realtà e fantasia: la finestra murata, in “La Portella” I/3 dicembre 1993, p. 10.
[26] Delle cause de’ terremoti e loro effetti. Danni sofferti dalla città di Isernia fino a quello de’ 26 luglio 1805, documento originale custodito dalla famiglia Milano e edito da Marinelli editore, Isernia, nel 1984.