Conosciamo già l'infelice sentenza che Cletto Arrighi pronuncia su Isernia, patria del deputato Jadopi, nel 1864. Mette a confronto due date e due barricate: 1799 e 1860. Se in entrambi i casi protagonista è la popolazione isernina e antagonista un esercito invasore, diametralmente opposta è la valutazione dello storiografo, che riporta glorie al ’99 e infamie al ’60. Eppure, i due momenti presentano più affinità che divergenze.
Ai primo di gennaio del 1799, Isernia si oppose all’Esercito francese – che scendeva in città, verso Capua e Napoli, recando la liberté sulla punta delle baionette. Dopo un primo scontro al Macerone, i Francesi la assediarono e conquistarono a fatica, abbandonandosi poi alla violenza cieca della vendetta che causò 1500 morti su 7000 abitanti. L’eroismo degli isernini nell’opporsi all'invasore viene riconosciuto dagli stessi occupanti: è il generale Thiebault, nelle sue memorie pubblicate postume a Parigi nel 1894, a riconoscere agli Isernini un tardivo onore delle armi. Il 10 gennaio 1799, con la città già conquistata, i Francesi mossero all’attacco della zona delle Acque solfuree, nella quale vi erano i legittimisti isernini, guidati dal capopopolo Evangelista Santilli. I lazzari nostrani si rifugiarono sul Macerone, dove attesero tempi migliori. In città, intanto, si era già insediato il Governo provvisorio – che intestava i suoi atti «Libertà Uguaglianza – Repubblica Napoletana – Governo Provvisorio di Isernia» – col vescovo Della Peruta a dare il primo colpo di badile per piantare l'Albero della rivoluzione (quello stesso Della Peruta che passò poi, da confidente, nel partito avverso, una volta ristabilitosi il Borbone). Verso la fine di marzo giunse la notizia che i reparti francesi che presidiavano Puglie e Campania dovevano spostarsi in Lombardia. Il 2 aprile Evangelista Santilli entrò in città, riportandola sotto il giglio dei Borboni.
Nel 1860 - ma questi sono fatti noti - la notte tra il 30 settembre e il 1° di ottobre, Isernia si solleva contro il governo provvisorio instaurato in città dai pochi borghesi liberali l’ 8 settembre (il 7, Garibaldi era entrato a Napoli da dittatore). Al grido di viva Francesco e via Maria, s'inizia quel periodo di terrore conosciuto come Reazione di Isernia, con efferatezze tali che «il di lei nome disonorato fe’ il giro d’Europa (Arrighi)». Dopo aver mutato colore cinque volte in poco meno di due mesi - e aver subito saccheggi, devastazione e strage ad ogni cambio di casacca - la città, esausta, trova infelice calma sotto il pugno di ferro di Cialdini, che il 20 ottobre 1860 pone quartiere a Isernia.
A questo punto non può sfuggire la disparità di valutazione – da una parte il valore celebrato in Europa, dall’altra abominio e nefandezza. A prescindere da quale sia, storicamente, il campo giusto e quello sbagliato (e ammesso che sia individuabile), in entrambe le occasioni, la plebe di Isernia si solleva contro governi provvisori prendendo le parti di governi legittimi (in entrambi i casi, i Borboni di Napoli). I Francesi del ’99, al pari dei Piemontesi dell’ottobre 1860, vanno infatti considerati – per il moderno diritto internazionale, ma anche per le consuetudini diplomatiche dell’epoca – alla stregua di un esercito invasore: non va dimenticato che i Piemontesi entrarono nel Regno delle Due Sicilie, superando il Tronto, senza aver espresso una formale dichiarazione di guerra.
Come spiegare?
La sentenza che Arrighi esprime nel 1864, a fucili ancora caldi, può introdurre a considerare come la maggior parte dei cronisti dell’epoca - almeno quelli organici al nuovo corso sabaudo - parli della vicenda unitaria del 1860 assumendola, già contemporaneamente al suo svolgimento, come mito fondativo della nazione: l’Italia nasce per volontà di Dio e della nazione tutta. Eroi gli unitari; scarti di umanità, gli altri che militano in campo avverso. La Religione della Patria (ne parla il laico Francesco Crispi) ha il suo dogma dell'immacolata concezione: tutto, della vicenda risorgimentale, è positivo. Vengono bandite le ombre, non c’è’ campo per nefandezza e miseria umana. Fa niente se pure il garibaldino ha rubato; il bersagliere ha stuprato. Di fronte all’evidenza, la soluzione del cronista è, colpevolmente o dolosamente, omissiva: se, qua o là, i fatti velano d’ombra la gloria del Risorgimento, semplicemente, non vanno riportato in cronaca. Si assiste a narrazioni imperfette: cronisti contemporanei ai fatti, al limite anche testimoni oculari degli eventi, ricostruiscono ad usum delphini, purgano, elidono, ingigantiscono o riducono secondo le occasioni. Nel loro massimalismo padano, misconoscendo le terre di nuova conquista, i cornisti si sbagliano, approssimano, riferendo qui fatti effettivamente accaduti, ma altrove. Il luogotenente Luigi Carlo Farini, riferendo a Cavour, aumenta l’onta associata alla città collocando qui cronache irpine. A Isernia, invece, nessuno ha ucciso Carmina di Gneo che gridava dal balcone contro le giubbe rosse di Nicola de Luca.
(Considerazioni espresse con voce incerta a Oratino, il 21 maggio 2011, in occasione della presentazione del volume)
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