lunedì 8 aprile 2019

Gli Schützen a Isernia, 6 e 7 aprile 2019

Riguarda Isernia, riguarda Santa Maria delle Monache, lo stesso ex convento che ospita la biblioteca e che – come più volte detto – nella sua storia recente è stato carcere e caserma, centro di internamento per allogeni e antifascisti e, per un breve periodo tra il novembre 1918 e il successivo inverno del 1919, anche luogo di incomprensibile prigionia per i reduci delle valli trentine che, dopo aver combattuto nell’Armata Austro-Ungarica, a seguito dell’armistizio di Villa Giusti, vennero tratti via a forza dalle loro case e avviati in vagone piombato lungo lo Stivale, fino a Isernia. L’Italia si presentava a questi nuovi italiani nel modo peggiore, e Isernia fu – senza consapevolezza né responsabilità – il luogo in cui tutto ciò accadde.

È cosa che ci riguarda per più motivi e, quindi, ne parliamo qui.

Il “Fatto di Isernia” del 1918/19, come ancora oggi viene chiamato in Trentino tra i nipoti e bisnipoti degli allora internati, è stato di recente riportato alla nostra memoria dal libro di Luciana Palla Reduci trentini prigionieri ad Isernia(1918-1920) edito nel 2015 e frutto di ricerche condotte – appare ovvio – anche qui da noi (ne parleremo più diffusamente in un altro post, tentandone un’epitome). Anticipiamo qui che almeno un migliaio di ex sudditi del Kaiser furono forzosamente ospitati nelle tre chiese di Santa Chiara, San Francesco e Santa Maria delle Monache (fu impegnato anche l’ex convento, allora caserma Griffini) e dimenticati per mesi in un tanto italiano limbo istituzionale in cui nessuno, tra Ministero della Guerra e Presidenza del Consiglio, riteneva di dover adottare atti a risolvere la situazione. «Unica consolazione a tanto dolore l’umana solidarietà del popolo di Isernia», come recita la lapide in memoriam ora apposta alla parete di Santa Maria delle Monache.

Già, perché a rievocare quel “Fatto di Isernia” sono giunti in città sabato e domenica 6 e 7 aprile (ieri e ieri l’altro) una nutrita delegazione trentina organizzata dalla Federazione degli Schützen del Welschtirol. Il nostro centro storico è stato svegliato dal torpore domenicale dalle salve degli Schützen, che hanno accompagnato la deposizione di corone al monumento di Piazza X Settembre (in omaggio ai nostri caduti del bombardamento) e nelle tre chiese che furono luogo di detenzione dei reduci trentini. 

Ne diamo di seguito breve reportage fotografico, convinti dell'eccezionalità dell'evento, per lasciarne traccia a futura memoria (pur nella consapevolezza di quanto effimera possa essere una traccia lasciata sulla pagina web del blog della Biblioteca).












Aggiornamento: 11/04/2019. Ulteriori fotografie che documentano l'evento sono quelle ospitate sul sito https://www.flickr.com/photos/mondoschuetzen/ (galleria flikr di Enzo Cestari, presidente della Federazione Schützen del Welschtirol).

martedì 20 novembre 2018

Dello stemma della città di Isernia


Lo stemma fuorilegge
Verga o Scettro? Serpente o, semplicemente, “S”? E perché il cimiero piumato anziché la più corretta corona turrita? E, soprattutto, è sempre stato così?
Sono tanti gli interrogativi che pone il non comune stemma civico di Isernia, bello sì, ma non conforme al dettato delle norme che definiscono l’araldica civica per città e province italiane e per questo, absit iniuria verbis, stemma “fuorilegge”.
Già, perché per l’ordinamento repubblicano le armi degli enti territoriali (Province, Comuni e Città; Regioni no, perché previste solo con la Costituzione repubblicana e non presenti nel Regno come enti territoriali) rimangono comunque regolate dal disposto dei Regi Decreti del 7 giugno 1943, n. 651, Ordinamento della stato nobiliare italiano, e n. 652,  Regolamento per la Consulta Araldica del Regno, completati con il precedente Regolamento Tecnico Araldico della Consulta Araldica del Regno d’Italia, approvato con Decreto del 13 aprile 1905 n. 234 e, da ultimo, con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 gennaio 2011. Secondo questo vasto corpus di norme  «Province, Comuni ed Enti Morali non possono servirsi dello stemma dello Stato, ma di quell’arme o simbolo del quale avranno ottenuto la concessione o riportato il riconoscimento a norma del vigente ordinamento araldico». 
Perché uno stemma possa essere riconosciuto – attualmente se ne occupa l’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – non può essere disegnato ad libitum: le norme tecniche fissano, per es., per le città, un timbro (cioè la parte dell’arma superiore allo scudo) costituito da una corona d’oro, formata da un cerchio di muratura con otto postierle, di cui solo cinque visibili; cerchio che sostiene otto torri dorate (sempre solo cinque visibili) unite da cortine di muro pure dorato. E ancora: in uno stemma conforme al dettato normativo, sotto lo scudo (che deve essere di tipo sannitico), vanno posti necessariamente due rami decussati, uno d'alloro e l'altro di quercia, trattenuti da un nastro tricolore.
Se così deve essere, guardiamo al nostro stemma: del tutto fuoriluogo è l'elmo che, in araldica, è utilizzato, sì, come timbro dello scudo ma solo nel caso delle armi di famiglia e indica, in tal caso, il grado di nobiltà del titolare dello stemma (dorato per le famiglie realiargentato per le famiglie di antica nobiltà e brunito per i parvenu borghesi, gli ultimi arrivati che hanno comprato il titolo con l’argeant dei loro commerci), giammai per le città. E poi, quanto al fogliame, il nostro ricco cespuglio d’acanto è magari più adatto a cingere una specchiera rococò, ma non ci dà il crisma dell’omologazione presidenziale.
Un attimo, però: quello stesso corpus normativo ammette eccezioni: alcuni comuni, per particolari motivazioni storiche, possono conservare nello stemma civico  elementi fuori norma: corone ed ornamenti esteriori che afferiscono all'aristocrazia e quindi all‘araldica gentilizia (vedi, per tutti, il corno ducale che si conserva nello stemma di Venezia, al posto della corona), ma ciò è possibile solo per via di concessioni specifiche o di antichi privilegi.
Lo stemma civico attuale. In uso dagli anni '60 del Novecento.
Esistono anche rappresentazioni con la visiera alzata.
Qui, per altro, la visiera non è «rabescata a cancelli»

Chiediamoci, allora, se al pari di Venezia, anche il nostro elmo con cimiero appartenga alla tradizione cittadina, se faccia parte di qualche antico privilegio riconosciuto alla città. In un vecchio manuale di araldica (Felice Tribolati, Grammatica araldica ad uso degli italiani, 1892) si legge che «nel secolo XVI invalse la pratiche che l’elmo graticolato (dei tornei) appartenesse ai nobili, e l’elmo chiuso alle armi cittadinesche». Se si potesse dimostrare che il nostro elmo con cimiero, che in effetti è chiuso e rabescato a cancelli secondo la descrizione presente nello Statuto comunale, esisteva così da tempi lontani, si potrebbe ottenere dall’Ufficio araldico una licenza. Ma come vedremo nel prosieguo del discorso, nessun elmo  è anteriore al ‘900. 

Conclusione (amara): niente da fare. Così com’è, il nostro stemma non potrebbe ricevere l’approvazione dell’Ufficio araldico. È fuori norma: fuorilegge, appunto.


Lo stemma civico ridisegnato secondo le norme araldiche:
corona turrita,anziché elmo; rami di alloro e quercia decussati.
(disegno originale di Gabriele Venditti)

Né caduceo né verga di Esculapio
Ma scendiamo in campo, entriamo all’interno dello scudo e occupiamoci di ciò che c’è dentro. In araldica, si definiscono carichi quegli elementi grafici che sono disegnati sul campo dello scudo. Se il carico è di forma geometrica, si chiama pezza; se il carico è diverso da una forma geometrica, si chiama figura. La nostra figura, nostra di isernini, è il serpente attorcigliato a “S” intorno allo scettro. Ciò, almeno, per l’attualità. Per brevità, nel seguito ci riferiremo alla particolare figura presente sul nostro stemma civico con l’indicazione del simbolo grafico del dollaro: “$”.  
Nel nuovo Statuto comunale (approvato con Delibera del Consiglio Comunale n. 57 dell’8/11/2018) la descrizione – la cui formulazione è impropria rispetto alla sintassi araldica, la cd. blasonatura – è la seguente (vd. art. 1, co. 6): «Ha come proprio stemma civico uno scudo oblungo di tipo sannitico su cui campeggiano le iniziali della città, composte da uno scettro intorno al quale è attorcigliato un serpente a forma di “S”. Lo scudo è avvolto da foglie di acanto e sormontato da un elmo rabescato a cancelli con cimiero. Le lettere, le foglie e i bordi dello scudo sono giallo - oro, lo scudo è azzurro e l'elmo è grigio scuro
La descrizione, peraltro, così come è, risulta incompleta: omette di indicare che il cimiero è costituito da due piume di struzzo ricadenti ai lati (credo ve ne sia un solo altro esempio, nell’araldica civica, per il comune di San Polo d’Enza, in Emilia). Quanto alla rabescatura a cancelli della visiera, non si dice se questa sia aperta o chiusa, per cui ne troviamo in uso versioni diverse: con ventaglia alzata e bavaglia abbassata ovvero a visiera chiusa. La posizione dell’elmo, così com’è, è in maestà (cioè posta di fronte all’osservatore), particolare omesso in descrizione.
Per quanto imprecisa, l’odierna formulazione ha emendato un marchiano errore presente nella precedente versione (Statuto comunale adottato con Delibera del Consiglio Comunale n. 24 del 19/03/2004), allorché – per ridondanza – le iniziali della città erano «composte da un caduceo verticale intorno al quale è attorcigliato un serpente a forma di “S”».  Il caduceo è figura particolare costituita da un bastone cerimoniale e da due serpenti avvitati, simmetricamente, e in più spire. Parlare di caduceo (già il verticale è pleonastico, non potendo avere il caduceo altro sviluppo se non il verticale) intorno al quale è attorcigliato un serpente significa confondere l’osservatore, aggiungendo ai due rettili già propri del caduceo, l’altro della descrizione. Ma poi: per essere lo scettro del dio Hermes/Mercurio, il caduceo presenta in cima due piccole ali ed è sormontato da un pomo, tipo bastone da passeggio. In generale, viene scelto quale simbolo dei commerci. Per la verità, un grande equivoco lo pone anche come simbolo di discipline mediche (ad esempio in Italia è alcune volte usato come stemma da farmacie e farmacisti), ma ciò, probabilmente, è per confusione con il  bastone di Esculapio, altro famoso simbolo con serpente, nel quale intorno ad una nodosa verga (dunque non uno scettro) si avviluppa un solo rettile, anche se qui, il serpente non si limita a compiere due soli avvolgimenti, formando la nota “S” dello stemma isernino, ma si avvita più volte (così, p. es. è presente nell’emblema dell’Organizzazione Mondiale della Sanità).
Dunque, e in conclusione, per lo stemma di Isernia non parlerei né del bastone di Esculapio né, a maggior ragione, del caduceo di Hermes.


Verga di Esculapio/Asclepio (sinistra) e Caduceo (destra).

Serpenti e scettri
Scettro e serpente, uniti nel monogramma “$” formano le iniziali della città: “IS” per Isernia. Ma che c’entra con Isernia il serpente? Nella descrizione che Stefano Jadopi dà dell’arme della città per il suo lavoro pubblicato sul Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato (1858) si fa generico riferimento all’«insegna di una nazione più antica di fede, di fortuna e di civiltà degli stessi Pelasgi»: il serpente, insomma, accompagnerebbe Isernia fin dal suo albore di città. Ma ciò viene detto apoditticamente. Qualche decennio dopo, Masciotta scriverà che scettro e serpe sono «emblemi di Vulcano, nume tutelare della città», alludendo forse all’episodio di Atena e Efesto, mito che vede la dea sottrarsi con ribrezzo alle oscene avanches dell’orrido Vulcano, che disperde in terra il proprio seme, fecondando Gea e generando Erittonio, divinità in forma di serpente, appunto; ma è argomentazione un po’ debole. Altro contributo può trarsi da Domenicantonio Milano, che nella sua monografia del 1897 risolve senza troppo complicarsi la vita sostenendo che, come gli Irpini abbiano  adottato come proprio simbolo il lupo perché ricca di lupi è la loro terra, allo stesso modo avrebbero fatto gli isernini col serpente.
Tutte le testimonianze qui raccolte, va considerato, appartengono a scrittori di metà, o fine, Ottocento, epoca in cui il rettile campeggiava tranquillamente nello stemma cittadino.
Ma siamo sicuri che nello stemma di Isernia vi è sempre stato un serpente? Domenicantonio Milano indica uno stemma collocato «sul antico Castello, oggi casa Viti, da cui fu copiato e poi sparito da non sapersene più»; esprimeva «un serpe che trovando l’ostacolo, la foga espressa da un tronco di legno, anzi scettro, esso la circonda, ma circondandosi cola propria coda la morde». Quella descritta è la rappresentazione dell’uroboro (o uroburo, o ouroboros): il serpente che si morde la coda a formare un cerchio perfetto, simbolo dell’infinito, della rigenerazione e dell’eterno, ciclico ritorno, la cui prima testimonianza si ritrova in un testo funerario egizio, del XIII sec. avanti Cristo.  Milano sostiene dunque che il simbolo più antico della città fosse il serpente che si morde la coda, e che il bastone/scettro fosse il suo asse di rotazione; solo successivamente, il serpente avrebbe lasciato la presa mostrandosi nella nota forma a “S”. L’uroboro, come simbolo della città, è assolutamente inedito e non trova ulteriori testimonianze al di là di ciò che riferisce Domenicantonio Milano. Come vedremo, è il serpente stesso a latitare sulle prime rappresentazioni dell’emblema cittadino.



Stemma civico sul privilegio concesso da Carlo V nel 1521
(edizione a stampa del 1558).
Evidente la "S" al posto del serpente.

“S” di Sergna
In effetti, nella più antica rappresentazione dello stemma civico finora conosciuta – cioè quella presente sull’edizione a stampa (1558) del privilegio concesso il 16 marzo 1521 alla città fidelissima da Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Spagna (e per questo anche di re di Napoli, dov’era Isernia) – sovrapposta allo scettro spicca una “S” maiuscola, in smalto nero, non un serpente.
Altra rappresentazione grafica corregge il tiro a vantaggio delle due lettere: il notaio Cesare De Leonardis, tra i disegni che riproduce a margine del suo Garrucci (vd. La storia di Isernia del Garrucci illustrata da Cesare De Leonardis, a cura di Manuela De Leonardis e Gabriele Venditti, 2018) dà testimonianza di una lapide parallelepipeda di cui non vengono fornite ulteriori indicazioni o localizzazione e riportante lo stemma civico, questa volta stilizzato in una “S” sovrapposta ad una “I”, né scettro né bastone, sotto una corona con croce. Accanto alla dichiarazione di “città regia” troviamo il 1587, che non ha corrispondenza in alcuna data significativa per la storia della città. La pietra, oggi perduta, è conosciuta solo nella descrizione data dal notaio isernino.

Disegno di Cesare De Leonardis (1890 ca.). Stemma della città. Nessuna localizzazione né altra indicazione.
Allo stesso modo, in tutte le più risalenti riproduzioni dello stemma troviamo una “S” al posto del serpente: nell’edizione di Italia Sacra, monumentale monografia di Ferdinando Ughelli sulle Chiese di tutta la cristianità, edito nel 1659, lo stemma della città di Isernia è uno scudo sagomato all’interno del quale una “S” si attorciglia ad una “I” di maggiori dimensioni (tra le lettere “A” e “C”, che starebbero, probabilmente, per Aeserniensis Civitas).

Stemma di Isernia presente nell'opera Italia Sacra di Ferdinando Ughelli (1656):
«Qui diamo l'arme di questa Città che per negligenza del tipografo fu precedentemente dimenticata». Si noti la "S" abbrancata ad una "I".

Cinquant’anni dopo, anche G. B. Pacichelli, nella notissima stampa realizzata per Il Regno di Napoli in prospettiva (1703), in cui è rappresentata la città a volo d’uccello, pone a destra del cartiglio col nome Isernia, uno scudo con dentro una “S”, non  un serpente (a sinistra, invece, campeggia l’arme dei D’Avalos, allora principi della città).
È tuttavia particolare che il monogramma “IS” sia sorto in tempi in cui la città chiamava se stessa Ysernia e non già Isernia.

Stampa di G.B. Pacichelli (1703). Anche qui, lo stemma civico è dato come una "S", non un serpente. 

Perché allora la “S”?
Offro una possibile soluzione, coerente con il quadro tracciato: se ricordiamo che la città, in quegli stessi anni, veniva alternativamente chiamata anche Sergna (così per esempio fa Leandro Alberti, in Descrittione di tutta Italia, del 1550 e Giovanni Tarcagnota, Delle historie del mondo, del 1562), e se poniamo mente al fatto incontrovertibile che il nostro dialetto ne ammette come varianti Sernia o Sergnia, giammai Isernia, lo stemma civico nascerebbe con la sola “S” come lettera iniziale del nome della città; e lo scettro, sarebbe forse simbolo del potere autonomo della città regia, allora non infeudata. Solo successivamente lo scettro si sarebbe semplificato graficamente in una “I” e il monogramma “IS”, in forma di “$”, sarebbe stato funzionale al nome della città come impostosi con il passare degli anni: Isernia, appunto e non più Sergna.

La profezia di Celestino e l’icona di Rampino
Per orror vacui inserisco in questo discorso un ulteriore elemento: lo stemma della Congragazione dei Celestini, l’ordine monastico creato da Celestino V, Aeserniae in Samnitibus natus: una “S” posta sull'asta verticale di una croce latina e in qualche rappresentazione, prolungata sull'asta trasversale della stessa croce. Chi sostiene l’origine isernina di Pietro Angelerio trova sostegno nella forte similitudine esistente tra lo stemma cittadino e l’emblema dei Celestini: Pietro, nel dare un’insegna ai suoi, si sarebbe ispirato allo stemma della sua città di origine e alla “S” di Sergna avrebbe dato significato di “Spirito Santo”. Ma qui si propone il gioco ricorsivo uovo/gallina: chi ha copiato chi? Potrebbe essere stato infatti lo stemma civico, di secoli successivo a quello dei monaci di Pietro, a copiare la “S” dello Spirito Santo sovrapposta all’asta della croce. In ogni caso, di “S” e non di serpe si tratta.



Stemma della Congregazione dei Celestini: una "S" (per Spirito Santo) sovrapposta ad una croce. Evidente la similitudine con l'arme della città di Isernia. Chi si è ispirato a chi?















Altra suggestiva quanto poco scientifica ipotesi circa la genesi dello stemma isernino è quella per cui la sua particolare forma (“$”) sia derivata dal monogramma “Ysernia” presente sulla pergamena del giudice Rampini, anno 1221, custodita presso l’Archivio capitolare: in esso, nella parte superiore della  “Y” di Ysernia, sui due rami della biforcazione, il giudice Rampini traccia le restanti lettere a gruppi di tre, “ser” e “nia”, così che la “S” si trova sovrapposta all’asta sinistra della “Y”. Da tale intersezione, sarebbe nata la “S” sovrapposta alla “I” che ritroviamo in tutte le più antiche rappresentazioni dello stemma civico.
Le due tesi, suggestive quanto apoditticamente sostenute, hanno l’indubbio vantaggio di sgomberare il campo da sibilanti rettili, riportando l’origine dello stemma ai due grafemi “S” e “I”.




Monogramma "Ysernia" nella pergamena del giudice Rampini (1221).
Dall'intersezione dell'asta sinistra della "Y" con la "S" nasce il segno "$" (vedi sopra, particolare ingrandito).  




Simboli
Come dalla “S” sia derivato il serpente, è intuitivo spiegarlo. Preesiste allo stemma civico iconizzato nel noto simbolo a “$” un archetipo rappresentato dal serpente che risale l’albero biblico della conoscenza. Normale pensare che, nato con una “S”, lo stemma civico si sia col tempo evoluto  in serpente.
In simbologia, la distanza tra le coppie “S” e “I” e “serpente” e “bastone” si abbrevia fino ad azzerarsi. René Guénon, esoterista e filosofo (oltre che massone), così ne parla: «la lettera S rappresenta la molteplicità e la lettera I l'unità, ed è evidente che la loro corrispondenza rispettiva col serpente e con l'albero assiale concorda perfettamente con questo significato». La verità è che la rappresentazione  stilizzata creata dal serpente attorcigliato a “S” intorno ad un asse verticale (sia esso albero, bastone, freccia) è simbolo antico e variamente usato. Guenon parla delle rappresentazioni grafiche dell’albero biblico della conoscenza del bene e del male, e del serpente tentatore che invita Eva a provare la mela, ma si  è già detto del bastone di Esculapio, o Asclepio e altro serpente taumaturgo è il Nehustan biblico, il “serpente di bronzo” posto in capo ad un bastone, appartenuto al patriarca Mosé, che in alcune sue rappresentazioni è appunto attorcigliato a “S” intorno alla verga.

L'albero biblico della conoscenza (web).


Ancora, il sigillo ermetico scelto da Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, vede un serpente trafitto alla testa da una freccia passante, orientata dall’alto verso il basso: serpente e freccia ripropongono lo schema consueto “S” e la “I”, ma contrariamente a quanto fin qui visto, l’asse rappresentato dalla freccia non è verticalmente disposto, ma inclinato a intersecare il serpente  a 45°, in direzione NE - SO. Lo stesso simbolo del dollaro americano ($) viene riferito – da quanti sostengono l’esistenza un fil rouge esoterico-massonico che unirebbe tutto ciò che attiene alla fondazione degli Stati Uniti d’America – al sigillo ermetico di Cagliostro.
Niente di tutto ciò, sia chiaro, ha inerenza con lo stemma di Isernia. Come ho letto da qualche parte, l’araldica civica nasce come sistema di segni di riconoscimento, non di simboli: l’esigenza elementare dello stemma, che nasce in un contesto militare di compagnie di armati, è quello di sottolineare un’appartenenza comune, di riconoscere e riconoscersi, e non di alludere a significati ulteriori e profondi, cosa che – caso mai – emergerà col tempo.



Il sigillo ermetico di Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro: un serpente trafitto da una freccia (web).

Lo stemma decussato
Tuttavia, l’esoterismo/esotismo del sigillo di Cagliostro ci riporta, paradossalmente, al nostro tema, dal momento che, nella storia della sfragistica comunale, tra le più antiche testimonianze dello stemma cittadino usato in sigillo troviamo il monogramma “IS” intersecato e inclinato al pari del simbolo ermetico scelto dall’alchimista. Dobbiamo considerare due documenti d’archivio: nel primo, a data 1723, per eccesso di misura troviamo apposti in calce ben tre timbri neroinchiostrati che riproducono l’incrocio decussato del monogramma “IS”; nel secondo, del 1727, abbiamo ancora un’ulteriore variante: questa volta la “I” interseca il tronco obliquo della “S” a 90°; il monogramma, quasi una svastica incompleta, realizza un incrocio perfetto. In entrambi, il monogramma è inserito in uno scudo sannitico posto sotto una corona di città (siamo lontanissimi dall’elmo attuale). Non troviamo altri sigilli da commentare fino alla fine dell’Ottocento: con il Regno d’Italia (1861), infatti, il timbro del Municipio di Isernia apposto su atti e corrispondenza reca – per maggior prova di fede sabauda – lo stemma reale di casa Savoia. Del pari, la carta intestata – ora commissionata a stamperie locali e non più realizzata dagli amanuensi comunali – reca sopra la stringa “Municipio della Città di Isernia” lo scudo sabaudo, con croce, corona e magniloquente pelliccia di ermellino.
Ma, lasciando la sfragistica, uno stemma parimenti decussato lo troviamo riprodotto sull’obelisco che ornava Piazza Mercato alla metà del XIX secolo. Cesare De Leonardis riporta fedelmente le iscrizioni del basamento, che dedicano l’opera all’allora sovrano Ferdinando I, atteso in visita a Isernia nel 1832, e riproduce a china lo stemma civico posto a metà della stele: le lettere del monogramma sono qui riproposte a inclinazione invertita rispetto a quanto visto sui timbri, con la “I” che taglia la “S” procedendo in direzione NO - SE. Dello  stemma, rimosso nel 1896 insieme con l’obelisco che lo ospitava, si sono perse le tracce. A chi scrive, tuttavia, sembra essere quello che attualmente è posto come (pseudo)pietra di volta del portale che è a lato dell’ingresso della biblioteca civica. Non conosco di preciso l’anno, ma credo che lì deve essere stato messo a seguito degli ultimi interventi sulla facciata, dopo il terremoto del 1984 (non c’era nelle fotografie degli anni ’60), magari  dopo un lungo esilio nei magazzini della Soprintendenza.




Timbro della municipalità di Isernia apposto su documento del 1723.


Stemmi di Isernia
dal manoscritto di G.B. Ricci sulla Storia di Isernia, anno 1766.
Nel primo stemma la "S" è chiaramente un serpente.
(Archivio Biblioteca Michele Romano, coll. 3/XVIII) 

Timbro a secco del 1727. La "I" e la "S" si intersecano formando angoli di 90°. 

A destra, disegno di Cesare De Leonardis dello stemma decussato presente sull'obelisco una volta collocato in Piazza Mercato. A sinistra, lo stemma dove è collocato ora: sul portale a sinistra dell'ingresso della biblioteca comunale "Michele Romano", in Santa Maria delle Monache.

L’epifania del serpente
E allora, il serpente quando compare nello stemma di Isernia? Se facciamo ammenda di un autografo di Giovan Battisti Ricci a margine della sua inedita monografia sulla città a data 1766 – nel quale l’arme cittadina viene disegnata due volte, sia con la “S” che col serpente – i primi rettili sullo scudo isernino li troviamo solo nella carta intestata in uso dalla seconda metà del XIX secolo: impiegati alternativamente con l’emblema di Stato (lo scudo savoiardo), troviamo stemmi civici ingegnosi e sempre diversi, affidati alla fantasia del tipografo, ma tutti con scettro e serpente: sulla carta intestata stampata per l'anno 1871, tra due tralci d'ulivo, incontriamo il rettile avvitato in forma di “ε”; su un mandato di pagamento dell’anno 1879 viene richiamato lo stemma civico cinquecentesco apposto sul privilegio di Carlo V: scudo accartocciato con ricche volute, con in campo un serpente intorno a quello che è chiaramente uno scettro; su un documento del 1894 è apposto un timbro tondo inchiostrato in magenta nel quale, sotto una corona turrita e all’interno di uno scudo di tipo svizzero, figura il serpente, non nella consueta forma a “S”, ma in avvitamento spiraliforme, a compiere almeno due giri intorno a quello che a prima vista appare un bastone.
Facciamo un salto al ‘900 e incontriamo un primo stemma standard, utilizzato per lungo tempo, fino a tutti gli anni ’50. Lo scudo è ora di tipo normanno, a goccia, inserito – tipo crest – sopra un secondo scudo accartocciato; all’interno, sotto una corona turrita a quattro porte (tre visibili), il bastone e il serpente, non con lo schema “$”, ma in doppio avvitamento (la coda cade nello stesso quadrante della testa). Il serpente, minaccioso, ha lingua esposta.
Con l'avvento del Fascismo, permeante ogni minimo aspetto del vivere, anche lo stemma civico dovette cedere spazio all'ingrombante regime. Nella carta intestata di quegli anni in orbace, accanto al serpente, c'è il fascio littorio.

Il resto è attualità, più o meno remota. Una cosa mi pare chiara, tuttavia: l’elmo con cimiero è conquista degli anni ’60 del ‘900 allorché,  tra le altre regole a non più osservarsi, troviamo anche quelle araldiche. Una singolare coesistenza di nuovo e vecchio stemma comunale si registra nella visita istituzionale del presidente delle Repubblica Leone, in data 8/10 settembre 1963: il manifesto che partecipa del messaggio presidenziale ha come stemma civico il vecchio stemma con serpe a "ε" e corona; il gonfalone alle spalle del sindaco (Dora Montesoro) porta già il nuovo con elmo e cimiero. Sublimazione nella medaglia celebrativa realizzata per l’occasione, in cui lo stemma civico presenta salomonicamente sia l’elmo che la corona.


Carta intestata, 1871

Stemma civico su mandato di pagamento del 1879.


Timbro del 1895. Scudo di tipo svizzero con in campo serpente avvitato intorno ad un bastone.

Lo stemma civico maggiormente usato in tutta la prima metà del '900: doppio scudo, a mandorla inserito su scudo accartocciato; serpente avvitato su bastone a forma di "ε" 
(immagine tratta da «La Patria. Geografia dell'Italia» di Gustavo Strafforello, UTET, 1899)

Carta intestata della biblioteca.


Parco della Rimembranza, 1920 ca. Scettro e serpente, ma nessun elmo


Carta intestata, 1942. Fascio e Serpente


Visita del Presidente Leone (10 settembre 1963): sul gonfaleone campeggia l'elmo; sul manifesto, contestualmente, si fa ancora uso dello stemma standard di inizio Novecento

La medaglia celebrativa vede nello stemma condensati scudo, elmo e corona


Stemma civico sulla piastra dei lampioni, Centro storico: curioso mixtum di nuovo (elmo e cimiero)  e vecchio stemma (serpente in forma di epsilon)

Conclusioni controvertibili
Ad uso dei lettori pigri, che vogliono il succo della storia:
      Il monogramma “$” sorge alla metà del XVI sec. come unione del grafema “S” di Sergna con lo scettro, emblema dell’autonomia della città regia, non infeudata né infeudabile;
      Lo scettro, per semplificazione grafica, si trasforma col tempo in una “I”, il che appare pure funzionale nel momento in cui la città prende a chiamarsi Isernia e torna utile avere per rappresentanza il monogramma “IS”;
      Il serpente – se si eccettuano la lapide in memoria del terremoto del 1456 e testimonianza grafica di G.B. Ricci, 1766 – si attesta solo dopo la metà dell’800, anche se appare in forma di «Ɛ» e non di «S»; 
      Il nostro stemma attuale, «$, con elmo e cimiero», si attesta dopo il 1960 (ma vedi la foto del Macello comunale, realizzato intorno al 1910, in cui lo stemma civico è sormontato dall’elmo).



Rappresentazione "laica" dello stemma di Isernia: riproduce il bastone di Esculapio (web).

Figurina tratta dalla raccolta "Tutta Italia" - Enciclopedia delle Ricerche
Edizioni Fol.Bo. - Bologna (web)
Edizioni SMAR - Torino.
Raccolta degli stemmi delle città capoluogo di provincia 1984-1997 (web)

[primo aggiornamento: sabato 20 aprile 2019; secondo aggiornamento: lunedì 19 agosto 2019; versione definitiva: 3 ottobre 2019]


martedì 23 ottobre 2018

«La Storia di Isernia del Garrucci illustrata da Cesare De Leonardis»



Il Garrucci di De Leonardis. Ex uno, plures
(Gabriele Venditti)

Il libro che avete aperto e di cui state leggendo l’introduzione – questo libro, questa introduzione –  è unico; o meglio: unico è l’originale da cui sono stati tratti, in ristampa, i molti volumi tra cui il vostro. Andiamo a spiegare: La Storia di Isernia raccolta dagli antichi monumenti è un dotto divertissement – l’ossimoro è calzante – di un gesuita napoletano di metà Ottocento, Raffaele Garrucci – o, vezzosamente, Raffaello, come apposto dallo stampatore del 1848. Nell’unico dagherrotipo che lo ritrae maturo, in tre quarti, ha sguardo severo e mento volitivo, più adatto a un capitano di ventura che ad un archeologo e numismatico in abito talare, autore di oltre cento volumi, nessuno dei quali imprescindibile, eccettuata forse la monumentale Storia dell’arte cristiana. Va da sé che, se ci fermassimo al testo riprodotto in anastatica nelle pagine seguenti, potremmo solo convenire di essere incappati in una delle tante monografie comunali di gusto antiquario, dal titolo anche fuorviante perché limitato alla storia della sola città romana, tratta dalle numerosissime epigrafi che quel mondo ci ha generosamente lasciato, scritta per la curiosità dei pochi che – allora come ora – si muovono a loro agio tra l’epigrafia e altre morenti discipline.
Chiariamo, allora: questo libro – anzi, quel libro: l’originale – è unico non per le sue duecento pagine di testo, ma per la nutrita appendice che il notaio isernino Cesare De Leonardis, nell’ultimo decennio del XIX secolo, fece aggiungere in calce alla sua personale copia del Garrucci, rendendola personalissima; su quei cento e più fogli di carta filigranata rilegati col volume del gesuita napoletano a formare un corpo unico, De Leonardis ha riportato, a matita, a china e inchiostri colorati, piccole vedute della sua città, schizzi e disegni, la gran parte assolutamente inediti, che lui, perché appassionato di storia locale e archeologia, fece di luoghi, monumenti e reperti archeologici allora visibili a Isernia e nel contado; bozzetti che costituiscono l’unica testimonianza visiva attualmente nota – quasi fotografie da un età prefotografica – di ciò che non è più esistente o di ciò che, fino ad ora, nemmeno si conosceva come esistente.
Non so se, a questo punto, è chiara l’unicità del Garrucci di De Leonardis. Pensate, allora, alla Venezia del Settecento senza il Canaletto, alla Roma drammatica ritratta a bulino da Giovanni Battista Piranesi. Ora, riducendo del dovuto, vorrei continuare la proporzione (a:b = c:d) intercalando Isernia e De Leonardis. Pensate alla difficoltà di ricostruire il paesaggio urbano che fu per città che non sono Roma o Venezia, tante volte e da tanti ritratte; ma per terre di provincia, periferiche e misconosciute, con pochi cantori e ancor meno illustratori, che pure hanno storia millenaria e tante volte hanno modificato il loro volto, fino a cancellarne anche le cicatrici. Consideriamo Isernia, devastata – fermandoci all’ultimo millennio – da almeno quattro terribili terremoti e provata dal fuoco di eserciti antichi e moderni, i Francesi del 1799, i Piemontesi del 1860, gli Angloamericani e i Tedeschi in ritirata del 1943; per non parlare di nemici meno eclatanti ma altrettanto perniciosi, nel loro continuo, silenzioso operare da tarlo: il cemento selvaggio, l’incuria, l’ignoranza di chi non distingue tra antico e vecchio. Continue trasformazioni, che non sempre – o quasi mai – procedono lungo la linea che porta verso la bellezza, l’armonia. Quanto importante, allora, è avere avuto, se non il Canaletto con la sua Camera obscura, almeno un devoto notaio, animato dall’amore per la città, che dobbiamo immaginare curvo sul suo taccuino a raccogliere per vie, vicoli e mulattiere schizzi di antiche pietre, da riprodurre poi in bella copia, a sera, alla luce di un lume a petrolio, sull’album in calce al suo Garrucci.
Perché è così che operava il nostro Cesare: con i suoi amici – tra tutti quel Domenicantonio Milano autore di una monografia su Isernia che solo quest’anno è stata finalmente edita – esplorava il territorio alla ricerca di antichità, che riportava su fogli sciolti, sul retro magari di grigia corrispondenza notarile (spesso, dietro le minute dei disegni, ci sono appunti inconferenti, che parlano di ipoteche o compravendite). Poi, con calma, ricopiava in bella, a china e colore, sui fogli ocra del Garrucci. Non sempre, tuttavia, c’era posto per le note, l’indicazione del luogo di ritrovamento, le misure del manufatto. Sull’originale, sulla bella copia, spesso molte informazioni sono andate perse (tante che, per molti disegni, è spesso ignoto addirittura l’oggetto ritratto). Per questo, le minute, gli antigrafi – fortunatamente conservati nell’Archivio familiare dei De Leonardis, insieme al volume di Garrucci – completano, quando possono, con i dati che recano, i disegni dell’appendice (e in questa edizione si è deciso di riportare in didascalia, laddove sono state trovati, gli appunti delle minute).
Molte di queste informazioni, tuttavia, possono forse non avere più significato: non sappiamo, noi lettori tardi, giunti dopo oltre un secolo a sfogliare di nuovo il Garrucci di De Leonardis, quale sia il «fondo che si coltiva da Vincenzo Di Falco, sulla strada che mena a Fornelli»; dove il giardino del signor D. Cosmo Melogli, nel quale il 3 giugno del 1890 Cesare trovò e disegnò un certo rudere;  gli esatti confini della tenuta del signor D. Ippolito Laurelli, alla Quadrella, così ricca di epigrafi.
Ma per tanti altri disegni e glosse, è diverso. Come una macchina del tempo, ci aprono finestre su una città che non esiste più: troviamo perfettamente ritratta, in ogni suo dettaglio architettonico, la facciata della Chiesa dell’Annunziata – che, sconsacrata, si conservò fino al 1896 per poi cedere superficie all’attuale palazzo Pansini – della quale era noto soltanto il portale perché finora apparso, fuori fuoco, in una foto d’epoca. Assolutamente inedita, invece, la Porta di Giobbe, aperta nel tracciato delle mura medievali, dove ora termina il vicolo che ne ha mutuato l’odonimo, e che scopriamo ora avere arco a tutto sesto, affiancato lateralmente da due bertesche. Così anche il Convento di Santa Maria delle Grazie, che conoscevamo unicamente in pianta e, per il solo lato che dava sul Tratturo, per una fotografia scattata in occasione di una Fiera delle Cipolle di anteguerra. Allo stesso modo, inedita è la vista a volo d’uccello di Palazzo S. Francesco, ritratto dal suo lato orientale, sovrastante i magnifici orti urbani che caratterizzarono la città, e indicato in didascalia come «diruto monastero di S. Francesco», perché ancora colpito, a fine secolo, dagli effetti del devastante terremoto del 25 luglio1805.    
Viene chiarito il mistero dell’obelisco di Piazza Mercato, o Largo San Pietro, come allora altrimenti si chiamava la piazza centrale di Isernia, mutuando il nome dall’intitolazione della Cattedrale: e questa è storia che merita una digressione. Fino all’inedito bozzetto del notaio, l’obelisco era rappresentato in due sole immagini: una stampa di metà Ottocento, più volte riquadrata e modificata, e una sgranata fotografia dell’ultimo decennio del secolo. Nella stampa, meno nella fotografia, la piazza veniva rappresentata, al centro, con fontana e obelisco. Dal punto di osservazione scelto – spalle a via Marcelli e faccia alle Mainarde – sembrava quasi che fontana e obelisco, schiacciati nella prospettiva, costituissero un tutt’uno e che l’obelisco si ergesse dal centro della vasca. Per vero, fonti d’archivio, ci riferivano già di come l’obelisco fosse distante dalla fonte almeno una decina di metri e di come ne nascondesse il castelletto di carico dell’acqua, necessario in quanto la fontana prevedeva non soltanto, a livello di terra, quattro getti tratti dalla bocca di altrettanti leoni in pietra, ma anche una vasca centrale con, alla sommità, uno zampillo. De Leonardis ritrae la stessa piazza ribaltando il consueto punto di vista e collocando, idealmente, l’osservatore su un pallone aerostatico fermo sul vallone della Precia, che guardi a ovest verso la Cattedrale. Qui l’obelisco si erge, coprendo la fontana, la Cattedrale e il resto, monopolizzando la scena. Posto sulla sua sommità, un giglio (segno della dinastia dei Borbone, incredibilmente rimasto anche oltre il settembre 1860), non una croce, come si direbbe a guardare l’immagine in stampa e fotografia. Segue un prezioso autografo, la cui trascrizione riporto integralmente qui – sebbene presente nel prosieguo dell’opera – per dare già idea del prezioso contributo che le molte glosse apposte ai disegni dànno a chi sia interessato a ricostruire il volto di quella città di Isernia:

«Dal 15 al 31 marzo 1896 furono abbattute per deliberazione del Municipio di Isernia: 1. La fontana in pietra di forma circolare sita nel Largo S. Pietro e propriamente innanzi al Cortile del Palazzo Vescovile, le cui acque si versavano a getto per la bocca di quattro leoni di pietra scolpiti, giacenti e situati a croce, nel cui centro si innalzava una vasca circolare, anche in pietra, con un rilievo in mezzo a guisa di pigna da cui scaturiva dell'acqua a zampilli. 2. Il Castelletto a guisa di piramide a pochi metri discosto da detta fontana da cui derivavano le acque della fontana istessa. Esso Castelletto era di mattoni a piatto, lato da terra circa metri dieci, con base in pietra viva alta circa metri tre ornata di cornice della stessa pietra ed all'apice una palla sostenuta da una pietra di forma quadrata ai cui lati leggevasi: 1° lato A.R.C. 1832; 2° lato AESERNIA; 3° lato FERDINANDO II; 4° lato D.D.D. La stessa palla sosteneva all'apice un giglio, del pari scolpito in pietra, appartenente allo stemma dei sovrani Borboni. Nella facciata di essa piramide, verso la Piazza di S. Pietro, erano incastrate, alla base, una leggenda, o dedica, all'ex sovrano Borbone, scolpita in marmo, ed alla metà dell'altezza di essa piramide lo stemma di Isernia come qui riprodotto. Tale costruzione rimontava ad oltre mezzo secolo e non è fuori proposito far osservare che tanto la leggenda che il giglio di sopra descritti furono abbattuti e distrutti nelle vicende della rivoluzione del 1860 contro l'abolita Dinastia borbonica. »        

Il libro di cui avete terminato di leggere l’introduzione – questo libro e questa introduzione – è unico e prezioso per motivi che, da lettori, apprezzerete e condividerete già prima di giungere all’ultima pagina.